Archive for 2015

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Il signore dei boschi.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Donnas, il paesaggio quello della bassa valle. Le coordinate geografiche sono 45°36’ Nord e 7°46’ Est.

Posizioniamo la telecamera sul prato a lato della strada che costeggia la Dora Baltea. Il fiume scorre energico verso sud, noi invece guardiamo a nord. L’obiettivo mette a fuoco l’arco della via romana delle Gallie, uno dei punti più caratteristici di Donnas.

Davide compare con la sedia in spalla e avanza verso di noi con il passo deciso del camminatore incallito. La grande via consolare che collegava Roma ad Aosta è scavata nella roccia viva; il selciato levigato dal tempo, dall’acqua e dal vento, modellato dal passaggio continuo di piedi, zoccoli e carri. Inciampare e cadere non sembra difficile. Davide però si mostra sicuro di sé e saltella agile verso il paese che inizia subito dopo la cappella di Sant’Orso. L’edificio di culto, costruito probabilmente dopo l’alluvione del 1176 per ingraziarsi la protezione divina contro le frequenti inondazioni del fiume, fu eretto nel punto dove la Dora bagna i muri delle prime abitazioni. Le case del borgo sono disposte ai lati della via e si susseguono fino al termine del paese, divise a coppie come in una quadriglia: dame e cavalieri che si osservano tenendosi a distanza.

L’origine medievale degli edifici è ben riconoscibile nei fregi sbalzati sulla pietra e nelle finestre a forma di scudo sannitico rovesciato. Seguiamo Davide catturati dai molti scorci suggestivi: angoli bui che improvvisamente si aprono alla luce del fiume, scale ripide e portali in legno con le teste dei chiodi che disegnano geometrici intarsi. Qui in Valle d’Aosta la pronuncia dei nomi è sempre un po’ difficile; per non fare brutte figure occorre abbandonare i ricordi di scuola e accostarsi con umiltà e curiosità a questa lingua di frontiera, misto di patois, francese e italico. Il nome Donnas, ad esempio, vuole la s alla fine mentre l’accento oscilla tra la seconda e la penultima lettera, a seconda dei momenti, delle persone e dei luoghi. Con ogni probabilità il termine deriva dal toponimo di un fondo rurale, noi però ci lasciamo conquistare dall’ipotesi che nasca da donnasc, il nome della castagna locale.

Oggi, siamo venuti qui a Donnas proprio per rendere omaggio al castagnoil signore dei boschi. La telecamera inquadra il grosso tronco di un vecchio castagno e Davide compare con in mano un riccio. Si appoggia alla corteccia rugosa e con molto rispetto spiega che il castagno è un albero generoso, che ha tenuto in vita generazioni di comunità montane. Il bosco dove abbiamo deciso di effettuare le riprese si trova a picco sopra il forte di Bard, poco distante dal punto dove nei mesi scorsi hanno girato il volo di Iron Man nel secondo film della saga The Avengers. Anche questa è la moderna Valle d’Aosta, una regione capace di fare da sfondo agli eroi della Marvel e ospitare le troupe della Disney, conservando però vivo il ricordo di legionari romani, cavalieri medievali e truppe napoleoniche.

Mi allontano dal castagno di Davide e mi avvicino allo strapiombo. Il punto preciso è segnato da una piccola stele di pietra. Il forte di Bard è un puntino laggiù, perso nella conca dove la Dora accoglie l’Ayasse. Risalgo il fiume con lo sguardo, lungo la valle di Champorcher, poi torno sui miei passi, facendo attenzione a calpestare la stessa erba dell’andata per non rovinare il prato. Quando rientro nel bosco, mi avvicino a Ezio, il protagonista della puntata. Mi racconta che del castagno si usava tutto: con la legna si facevano porte e infissi per le casedoghe per le botti e pali di sostegno per le viti, le foglie diventavano lettiere per gli animali, i frutti si raccoglievano e si mangiavano subito bolliti, oppure si mettevano a seccare e si macinavano per farne farina con cui preparare pane e dolci e biscotti. Un’intera filiera di produzione ha legato per secoli le comunità di montagna al castagno.

Ezio e suo fratello Silvio producono eccellenti prodotti da forno della tradizione valdostana – molti dei quali proprio a base di castagne – da quando hanno ereditato dai genitori un campo da coltivare e un forno in pietra. Non avevano una tradizione di famiglia da proseguire, ma una cultura diffusa nella valle da raccogliere e portare oltre i confini della propria terra. Hanno iniziato coltivando a rotazione il loro campo con segale, mais e frumento, poi hanno aggiunto l’uva, le castagne e hanno recuperato tante ricette semplici e genuine da sperimentare nel forno in pietra. Il campo di cereali oggi è rigoglioso. Mentre la voce di Davide racconta gli inizi dell’attività, Ezio si fa largo tra le spighe alte quasi quanto lui. Sono tinteggiate di un bel verde reso brillante dalla luce di taglio del mattino e dalle piogge dei giorni scorsi. Nel frattempo si è alzato il vento e le spighe ondeggiano come onde nel mare. A lato della strada in terra battuta c’è un muretto che trattiene un cumulo di pietre. Saliamo sui massi e dall’alto inquadriamo il campo di Ezio e della sua famiglia: sembra veramente un mare verde smeraldo, e lui un naufrago che accarezza le onde.
Sorride; evidentemente gli è dolce naufragare in questo mare…

Oggi Ezio e Silvio producono le loro specialità in un moderno laboratorio artigianale, dotato di un efficiente forno elettrico, ma per la televisione torniamo alle origini e ci dirigiamo verso un piccolo gruppo di case addossate al bosco, dove il vecchio forno di famiglia resiste tra tetti in pietra sconnessi e pareti strattonate dai tronchi di fico e dall’edera. Non c’è acqua corrente e anche l’elettrica è scarsa. L’interno è in penombra e non possiamo illuminarlo. Meglio così, le immagini saranno più calde e intime, con le braci del forno in primo piano. Silvio impasta i biscotti fatti con burro locale, un po’ di zucchero, uova di casa e farina di castagne. Poi prepara un tipico pane integrale della bassa valle, con noci, castagne e uvette. Un pane capace di rimanere fragrante per oltre due settimane, ma che un tempo si faceva seccare ed era buono tutto l’anno.

Silvio ha acceso il forno all’alba, molto prima del nostro arrivo, per portarlo in temperatura. Prima di infornare rimuove le braci, in modo da cuocere il pane e i biscotti a lungo, quasi a vapore, mentre la temperatura gradualmente si abbassa. Silvio lavora, Massimo – il nostro regista – lo filma e noi restiamo fuori, distesi al sole, a chiacchierare sul prato e mangiucchiare castagne e uvette. Intanto, dalla finestrella del forno esce un profumo di pane che le narici catturano e mandano subito in circolo; una lieve gioia interiore si diffonde e raggiunge zone profonde del corpo e della mente. Alle volte, basta davvero poco per avere tutto.

Al termine della cottura, quando il pane e i biscotti sono pronti, posizioniamo la telecamera in modo da riprendere il cielo di sfondo e il bosco più in basso, poi le case, il prato al centro e il forno di lato.
– Tutti fuori, siete in campo! – ordina Massimo.
Poi esclama: «Azione!» e dalla casetta con il forno escono Silvio, Ezio, la moglie Monica, i figli Didier ed Emil. Reggono grandi vassoi con le specialità di giornata, ancora calde e fragranti. Vien voglia di rubare qualcosa, ma dobbiamo restare immobili e nascosti, schiacciati come lucertole alle pietre dei muri per non entrare in campo. Vediamo Ezio e i suoi famigliari sfilare davanti alla telecamera e uscire dal borgo, sparire nel bosco e incamminarsi verso casa, giù a Donnas. Ci aspetta l’ultima scena: la degustazione. Sul tavolo disponiamo con cura i prodotti, all’interno di piccoli vassoi in legno fatti a mano da Emil. Sapori antichi e genuini: pane, biscotti e tante specialità da forno che seguono i ritmi della natura e racchiudono il gusto della montagna.
– Anche questa è l’Italia della qualità – esclama Davide – l’Italia da difendere.
Il forte di Bard, laggiù, fa buona guardia…

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite in Valle d’Aosta, a Donnas; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Gli occhi della dolcezza.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Valpelline, il paesaggio quello dell’omonima valle. Le coordinate geografiche sono 45°49’ Nord e 7°19’ Est.

In realtà oggi abbiamo in programma di visitare molti luoghi diversi, tutti collegati a uno stesso prodotto, simbolo di questa regione. La fontina era documentata già nel Medio Evo e compare in un testo della seconda metà del Duecento, dove il termine indicava un appezzamento di terreno. C’è poi un affresco del XV secolo nel castello di Issogne, dove alcune forme sono raffigurate sul banco di un mercante, tra salumi e granaglie.

Si tratta di un formaggio antico ma dall’origine incerta, con un nome che potrebbe indicare un alpeggio, un paese o una famiglia.
– È bello che rimangano questi dubbi – mi confida Davide in una pausa di lavorazione.
– Un po’ di mistero aggiunge fascino al gusto – dico io a bassa voce.
Lui si aggiusta la giacca, poi esclama:
– Così appartiene a tutta la Valle!
È vero. Qualunque cosa significhino i nomi fontin o fontinazla fontina è un prodotto di queste montagne. Tanti luoghi, persone e animali per realizzare un solo prodotto, sempre diverso eppure uguale a se stesso, alle sue origini più antiche e autentiche.
Per raccontare la storia della fontina valdostana bisogna partire dal latte e dalle vacche. Adesso è ancora presto, ma l’aria tiepida di primavera sta già sciogliendo la neve e tra poco gli animali lasceranno le stalle per salire in alpeggio. Fanno sempre così, ogni anno da giugno a fine settembre.

Roberto è il nostro esperto di fontina, l’uomo che ci guiderà tra pascoli e stalle, centri di stagionatura e luoghi di degustazione. Ci incontriamo alle porte di Aosta, davanti all’officina di un gommista. Potrebbe sembrare un inizio poco poetico, ma non è così: in Valle d’Aosta anche le officine sono circondate da prati che in primavera si ricoprono di fiori. Appena sopra i pneumatici, la vista si perde tra le cime innevate e c’è sempre qualcuno pronto a chiamarle per nome, a una a una. Le vette sono luoghi sacri, lontani e al tempo stesso presenti, punti di riferimento cui aggrapparsi nel corso della vita. Alle volte mettono paura e quando cala la nebbia scompaiono, ma qualunque cosa accada loro sono sempre lì, come anziani genitori, il braccio allungato verso di noi.

Roberto mi indica alcuni prati poco distanti che si fanno largo tra le macchie scure del bosco.
– Le mucche a quest’ora saranno già in marcia – dice mettendo in moto il furgone.
Gli avevo chiesto di accompagnarci in un pascolo di bassa quota.
L’alpeggio estivo sarà un’altra cosa, ma questo prato scosceso subito sopra la città sembra già un buon inizio. Come un fine settimana al mare in riviera prima di partire per le vacanze. L’erba comincia a prendere il posto del fienosi respirano i profumi dei fiori, i cani abbaiano e corrono per tenere unito il branco, le regine danno vita ai primi combattimenti.
Le regine, così si chiamano le vacche tipiche della fontina valdostana, usano il combattimento come forma abituale di attività sociale. S’incornano spesso, ferendosi senza farsi troppo male, per stabilire gli equilibri del gruppo. Ci sono anche i loro muggiti nel latte della fontina; non solo erbe e fiori, ma tonfi sordi di incornate e il dolore delle ferite sui fianchi, l’esuberanza delle giovani manze e la calma delle regine più forti ed esperte.
– Perché fanno così? – chiedo a Roberto.
– Non fanno così, sono fatte così! È la loro natura.
Iniziano a litigare appena uscite dalla stalla, e ogni volta il pastore teme che possano distruggere qualche macchina parcheggiata appoggiandosi alla fiancata o strisciando le corna sulla carrozzeria.

Nella fattoria di Claudio – uno dei vincitori della Gran medaglia d’oro all’ultimo concorso Fontina d’alpage – conosciamo alcune regine bellissime, i loro vitelli e le pezzate rosse, le altre vacche tipiche. Sono tutti animali rustici, adatti ai sentieri di montagna, poco inclini ai mangimi e alle visite del veterinario; bastano a sé stesse e producono un latte eccezionale, vivono quasi vent’anni e mettono al mondo anche quindici vitelli. Davide si appoggia a una delle ultime balle di fieno della stalla e versa il latte appena munto in una ciotola. Lo beve di gusto davanti alla telecamera. Non potrebbe farlo, ma sta combattendo da anni una battaglia personale contro le leggi che gli hanno rubato i sapori dell’infanzia. Bevo anch’io un po’ di quel latte caldo e schiumoso; mi ricorda gli anni sessanta quando andavo in latteria con la bottiglia di vetro. Il latte veniva dalle fattorie del paese ed era in una vasca di marmo; la lattaia immergeva il mestolo e riempiva la bottiglia. Cominciavo già a bere sulla strada di casa. Proust mangiava madeleine, noi bevevamo latte. Oggi, con tenace determinazione, ricerchiamo il nostrotempo perduto.

Lasciamo la fattoria e ci si spostiamo nei prati di Ollomont, dove Davide passeggia con la sedia in spalla in un grande prato. L’erba è punteggiata di fiori che spuntano tra ciuffi di cicoria, ortica e tarassaco. La fioritura in montagna è uno spettacolo da non perdere; non solo da vedere, ma da provare, come un sentimento. C’è qualcosa di immenso in un prato fiorito dopo il disgelo: una cosa talmente grande da riuscire a farsi piccola, rinchiudersi nei dettagli di un prato e poi esplodere in un fiore. Da Ollomont alla grotta di stagionatura la strada è breve. Entriamo in una ex miniera di rame dove sulle scalere di abete rosso riposano oltre sessantamila forme di fontina. Pareti di roccia viva letteralmente tappezzate di formaggio che matura nelle viscere della terra. Anche questo è uno spettacolo da non perdere, imponente e ricco di significati simbolici. È interessante ad esempio notare come la fontina nasca sullamontagna, negli alpeggi e nelle casere d’alta quota, ma poi diventi grande nella montagna, all’interno di grotte come questa, dove l’umidità è costante attorno al 90 per cento e la temperatura stabile sui 10 °C. I rumori del mondo restano fuori: qui le fontine riposano in pace, nel silenzio più assoluto, rotto solo dalle note lievi delle gocce d’acqua che affiorano sulla roccia e cadono a terra. Richiamano il ventre materno: la montagna come madre, al tempo stesso generatrice e custode.

Questa miniera di fontine è in realtà una raffigurazione della Valle d’Aosta. Le forme sono tutte numerate e registrate con i nomi degli alpeggi di provenienza. Vengono dalle montagne di tutta la regione e si ritrovano qui, dopo l’estate, per raccontarsi storie di pascoli, acque, erbe e fiori, combattimenti di regine e acquazzoni improvvisi. Tutti gli anni così: ogni piccola fetta racchiude una grande storia. Ci spiegano che per conoscere la fontina bisogna guardarla negli occhi. Davide ne taglia un pezzo e mostra alla telecamera i buchi perfettamente circolari che affiorano sulla pasta morbida e compatta del formaggio.
– Devono essere tondi – dice prima di assaggiare – sono gli occhi della dolcezza...

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Valle d’Aosta, a Valpelline, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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La cioccolata con il nome degli dèi.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Reggio, il paesaggio: la costa dello Stretto. Le coordinate geografiche sono 38°6’ Nord e 15°38’ Est.
Partiamo da Spìlinga, dove abbiamo appena terminato le riprese di una puntata sulla nduja. In tutta fretta ci mettiamo in marcia verso sud, dove racconteremo la storia di una signora – innamorata della sua terra – che realizza piccole opere d’arte con il cioccolato e i frutti della Calabria. L’arte del cioccolato richiede calma e pazienza, noi invece ci stiamo muovendo freneticamente. L’aereo di Davide partirà nel primo pomeriggio e abbiamo poche ore a disposizione.

Dopo qualche chilometro squilla il telefono: è Davide. Ha dimenticato i documenti in albergo a Tropea e deve tornare a prenderli. Ci fermiamo, discutiamo, cerchiamo di prendere una decisione. Alla fine estraggo dallo zainetto la sceneggiatura, la leggiamo a voce alta, con la matita segniamo la successione delle riprese. Poi la consegno a Massimo, il nostro regista, e osservo i miei amici ripartire. Anch’io risalgo in macchina, ma con tutta calma; movimenti lenti, un accenno di sorriso agli angoli della bocca. Di colpo, il regalo di un improvviso rallentamento: il piccolo contrattempo mi ha offerto l’opportunità di gustare nuovamente questi luoghi.

Avevo già percorso la discesa verso Tropea, ma di notte. Adesso il sole di spalle si stende sul mare: a ogni curva uno scorcio diverso, a poco a poco sempre più ravvicinato, come un lungo piano sequenza verso l’attore protagonista. Questo è il Mediterraneo dei Greci e dei loro dèi, abitatori di spiagge, sorgenti, boschi e fiumi che ancora conservano il ricordo del mito. L’eco di racconti omerici mi accompagna mentre recupero i documenti di Davide e risalgo la china, lasciando questa volta il mare alle spalle e procedendo in controluce verso la cima del monte. Poi la strada spiana e attraversa i campi dell’interno, ordinati e ben coltivati, delimitati con regolarità da muretti a secco. Infine la valle degli agrumi, la distesa degli oliveti e di nuovo il mare. La Sicilia è là a un passo, appoggiata alla linea ravvicinata dell’orizzonte: seguo il litorale dello Stretto e dopo poco entro in città.

Cerco Massimo e Davide e il resto della troupe sul lungomare, ma non vedo nessuno. Al telefono mi segnalano una strada di riferimento, ma il navigatore non la trova e continua a rimandarmi a Tropea. Allora mi fermo e domando a una giovane mamma. La sua risposta è una risata gioiosa.
– Viene da fuori, vero?
– Sì
– Allora non sa che noi reggini non conosciamo le vie della nostra città. Cioè, conosciamo le vie, ma non sappiamo i nomi
– Però il lungomare è questo?
– Certo, da qui a laggiù…
Parcheggio l’auto e cammino, da qui a laggiù. Fa molto caldo, ma la brezza distesa è piacevole. La passeggiata è affollata di giovani coppie, famiglie con i passeggini, bambini che si rincorrono, cani che abbaiano, gelati che sgocciolano. In mezzo a loro c’è Davide, con la sua sedia.

Su questa spiaggia giungono i venti del sud: rocce tirreniche e morbidezze ioniche, profumi d’agrumi maturati al sole del Mediterraneo, il respiro antico di una terra abitata dagli dèi…

I bambini vogliono farsi fotografare con lui. Il tempo di un’ultima battuta, poi chiude la sedia e s’incammina verso la spiaggia e il mare. Quando ha i piedi completamente immersi nell’acqua, Massimo grida «stop!» e siamo pronti per andare nel laboratorio di Cristina, la signora del cioccolatoCristina ha insegnato inglese per tutta la vita. Poi, quasi per caso, ha scoperto il mondo del cioccolato.
– Qui in Calabria abbiamo il culto della pasticceria – mi confida con un sorriso – ma non la cultura del cioccolato.
In questa terra così calda è l’unica vera cioccolatiera, al tempo stesso artigiana e artista. Ma la sua non è una sfida, piuttosto una scelta d’amore. Nel suo piccolo laboratorio realizza specialità uniche; ogni pralina racconta un angolo di Calabria, racchiude un sapore, esprime un’emozione.

Il cioccolato finissimo si unisce alle eccellenze della terra: ne esalta i frutti, le spezie, gli aromi. Il cioccolato è un alimento vivo, che si modifica a seconda dell’umore di chi lo lavora.
– Certe giornate – dice Cristina – sono nervosa e vado di fretta. Allora è meglio smettere. Il cioccolato non si può lavorare senza calma.
Al suono delle sue parole mi accorgo che nel laboratorio è calato un silenzio di rispetto e di attesa. Un altro regalo della giornata: tempo che scorre lento, le voci della città chiuse fuori. I gesti di Cristina sono brevi ed esatti: piccole azioni precise, come una collezione di attimi.

Sul banco, la prima cosa che noto è una livella.
– È per te – dico a Marco il nostro operatore – per mettere in bolla la telecamera.
Non immaginavo che servisse per mettere in bolla il cioccolato. Cristina realizza sotto i nostri occhi delle uova di cioccolato fondente con il guscio intarsiato come un merletto. Un ricamo di cacao che poggia su una base perfettamente piana. Poi, come se non bastasse, realizza altre uova più piccole e di colori diversi, con cioccolato bianco e al latte, che s’inseriscono le une nelle altre come sculture. Ci vuole tempo, esperienza e pazienza per imparare a fare tutto questo. Cristina ha covato la sua passione al fuoco lento della vita. Però, osservandola lavorare, rivedo l’insegnante attenta e scrupolosa che deve essere stata, la donna sensibile e tenace. Riaffiora nell’accuratezza con cui dispone gli oggetti, nell’ortogonalità delle pieghe, nel raggio di curve mai solo abbozzate. La livella è lì, sul banco della cioccolatiera com’era la matita sulla cattedra dell’insegnante. Non ama parlare mentre lavora. Si vede che è una donna in cammino: ogni tocco delle dita un passo lungo la via. A un tratto mi spiega che il cioccolato è un mondo a parte, una sorta di piacere assoluto che coinvolge tutti i sensi. C’è la lucentezza da osservare e la sericità della materia da sfiorare, una compattezza che quando si spezza parla ed emette un suono inconfondibile. Il cioccolato è anche da odorare: miscela di profumiche dalla natura vanno fino alla tostatura. Quando infine si gusta, i sensi sono già sazi.

Ma per Cristina il cioccolato è solo la base, lo strumento di lavoro. È lo scrigno dove conservare i frutti migliori della Calabria. Sul banco dispone le materie prime e alcuni cioccolatini: cremini al bergamotto, praline con gelatina di zagara, scorzette di arancia accarezzate da un velo di cioccolato fondente… Hanno i nomi degli dèi, perché questa era la loro terra e il cioccolato il loro cibo. Efesto ha una goccia di peperoncino, Orfeo la pasta di mandorle e il bergamotto, Dioniso racchiude una gelatina di vino speziata in cioccolato fondente e Ganimede una composta di mele cotogne e zenzero fresco. Un mondo di delizie che improvvisamente diventano ancora più buone.

Sulle pareti del laboratorio, accanto alle vetrine dove sono esposte le confezioni con le opere di cioccolato, vedo alcune immagini di Cristina circondata di bambini. Sorridono tutti, anche se non sono felici. Sono bambini del Madagascar, che Cristina aiuta da anni attraverso un’associazione di padri gesuiti.
– Vedi Luca – mi confida – io ho la mia pensione di insegnante e questo lavoro è solo una passione. Ho aperto il laboratorio perché il ricavato andasse a quei bambini. La bontà non è un concetto astratto. Per questa signora del cioccolato va molto oltre il piacere delle sue praline.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Reggio Calabria, sulle rive dello Stretto; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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La nduja che accende la passione.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Spìlinga, il paesaggio l’altipiano del Monte Poro. Le coordinate geografiche sono 38°37’ Nord e 15°54’ Est.
Atterriamo sulle rive dello Stretto e con la macchina risaliamo verso nord percorrendo la A3 fino a Rosarno. La prima parte del tragitto – benché autostradale – è già interessante. Come in un parco tematico, dove la prima cosa da fare è salire sul trenino sopraelevato per vedere le cose dall’alto; così adesso la strada sale, spaziando sul Tirreno e fiancheggiando i declivi rocciosi e boschivi dell’Aspromonte.

Poi si scende e ci si perde nella piana degli agrumeti, tra chioschi ambulanti di frutta ai margini delle strade, case sparse e camion che vanno e vengono dai campi ai mercati del nord. Ripenso alle scene della rivolta dei braccianti, alle inchieste sul caporalato bianco e nero, alle cassette di mandarini pagate 50 centesimi l’una: una giornata di otto ore per metterne insieme una ventina. Verrebbe voglia di fermarsi e parlare. Cercare di capire. Però tiro dritto e in pochi chilometri la strada torna a salire. Questa è per molti aspetti una terra dimenticata e sofferente, però bellissima. La costa di Tropea sale morbida, curva dopo curva, tra macchia mediterranea e scorci di mare aperto. Una vista ampia che apre il cuore. Oggi il cielo è in continuo fermento, dalle nuvole al sole: cambiamenti repentini d’umore che rendono ancora più affascinante il paesaggio.

Arriviamo rapidamente a Spìlingaun paese costruito su un’unica strada principale in discesa, che nasce dal monte e si ramifica a valle in un dedalo di viuzze con case antiche in pietra, intonaco grigio e ferri battuti ai balconi e alle finestre. Mi ricorda un fiume, con la sorgente in alto e il delta in basso, in riva al mare. L’azienda modello di Luigi, il protagonista della puntata, è posta su un’altura alle porte del paese, dal lato dell’immaginaria sorgente.

Spìlinga è la capitale della nduja e Luigi il principale produttore. Si tratta di un insaccato molto particolare, piccante e spalmabile, che potrebbe essere prodotto ovunque e che invece si realizza solo qui. Domando perché, ma nessuno sa darmi una risposta precisa. Certo, qui si allevano maiali, ma Luigi mi spiega che sono pochi e insufficienti per una produzione di nduja poco più che domestica; ci sono anche i peperoncini, e quelli del Monte Poro sono davvero speciali: grandi, carnosi e asciutti. Qui il terreno è umido e non serve bagnarli. Adesso siamo fuori stagione e i campi sembrano pascoli, con l’erba verde alta. All’inizio dell’estate saranno preparati e seminati. Poi la natura farà il suo corso e il raccolto sarà come ogni anno abbondante. I peperoncini saranno messi a seccare all’aria aperta, protetti dal sole diretto e dalla pioggia; poi saranno ben spicciolati a mano e infine tritati e impastati per farne una crema piccanteMolto piccante. Forse sono proprio i peperoncini l’origine della nduja a Spilinga. In realtà il nome viene fatto risalire al francese andouille, un insaccato realizzato con tagli di scarto e frattaglie del maiale. Quale che sia l’origine, la nduja si produce a Spìlinga da moltissimo tempo, ma è solo da pochi anni che ha varcato i confini del paese e della regione.

Anche in casa di Luigi si preparava la nduja, però il prodotto era sempre diverso, di stagione in stagione. Più era piccante, più era considerato buono. Quando Luigi decise di diventare un produttore professionale di nduja e portare il prodotto della sua terra nel resto d’Italia e nel mondo, aveva bisogno di un maestro. Per fortuna aveva una suocera. Una donna speciale, che produceva una nduja altrettanto speciale, senza quelle incertezze tipiche dei prodotti amatoriali domestici. Eppure lavorava anche lei a occhio, e quando Luigi le chiedeva quanto peperoncino si dovesse mettere, rispondeva «quanto serve». Per cogliere i suoi segreti bisognava stare con lei: tacere e osservarla mentre lavorava. Poi imitare i suoi gesti, cercare di riprodurre la lievità tipica dei maestri. Credo sia molto difficile incontrare un uomo più legato di Luigi alla propria suocera. Ce la presenta direttamente nella sua casa, nel centro del paese. Lei ci apre la porta, affacciata sulla strada principale. È una signora anziana, con il volto segnato da rughe profonde che sembrano tanti sorrisi. Vede Luigi e s’illumina. Lui si era già illuminato. Davide le chiede se conosca la tradizione della battitura delle ginestre per ottenere tessuti. Lei dice di no, che la ginestra non l’ha mai vista battere da nessuno in Calabria. Però si alza e si avvicina a un armadio. Prende una tovaglietta di un bel tessuto grezzo e morbido, l’avvolge in una carta dorata e la offre a Davide.
– Questa è di canapa – dice – La lavoriamo noi, qui in Calabria.
Davide la prende e ringrazia. So che la conserverà come un dono prezioso.

La signora della nduja ci fa strada mentre scendiamo in cantina e realizziamo la parte forse più spettacolare delle riprese. Le sue nduje affinano tra pareti di pietra, con il camino acceso e la finestra che viene aperta e chiusa a seconda del tempo. Il laboratorio di Luigi è invece un luogo molto diverso, dove è stato finalmente possibile riprodurre su vasta scala e senza improvvisazioni le procedure della tradizione. Corridoi bianchi immacolati; Luigi e i suoi collaboratori indossano camici puliti, guanti, soprascarpe e cuffie in testa. Li seguiamo nei loro gesti quotidiani e entriamo nel vivo della produzione. Li vediamo tagliare il guanciale, la pancetta e il lardo, impastare le carni sminuzzate e mischiarle al peperoncino, insaccare l’orba – il budello cieco del maiale – legare le nduje e appenderle a stagionare. In queste celle non c’è il camino – che serve solo a togliere l’umidità – e la temperatura è tenuta costante da moderni termostati. Qui le nduje riposano almeno tre mesi, si tingono di rosso rubino e diventano eccezionali dopo anni.

– Vedi, Luca, – mi spiega Luigi, – per me era fondamentale realizzare una nduja di
altissima qualità, lavorando però in condizioni igieniche perfette. Volevo racchiudere nel mio prodotto tutto il gusto della mia terra.
– Un gusto piccante…
– Non troppo piccante: solo il giusto. Finora la nduja era sinonimo di piccante, invece deve essere sinonimo di qualità.
– Dicono che la nduja sia anche afrodisiaca…
– La nduja accende la passione!

Capisco che non parla di passione amorosa, ma di passione per la vita. Il piacere di fare qualcosa in cui si crede, e continuare a farlo nonostante tutto. Luigi si accalora, parlando della sua nduja. Allora scivola con la voce sulla j che pronuncia alla francese. Una consonante rara nella nostra lingua, che a Spìlinga è di casa come nei paesi d’Oltralpe.

La mattinata si conclude con Davide che esplora il territorio. Lo seguiamo tra le arcate del grande acquedotto romano, mentre perlustra le grotte del Monte Poro e visita la Madonna delle acque. Sempre con la sedia in spalla attraversa campi di cereali e pascoli, mentre la moglie di Luigi scola la pasta. Torniamo in laboratorio e mangiamo un piatt strepitoso. Mezzi paccheri artigianali prodotti da un fornaio locale: lisci fuori e rigati all’interno, perché il sugo di pomodoro, melanzane e nduja si raccolga come un ripieno, mentre sul palato la pasta resta morbida e liscia, quasi vellutata, con un filo d’olio a fare da velo. La nduja è protagonista del piatto e della tavola. Davide la mangia di gusto, spalmandola sul pane come fosse una pietanza.
– È davvero qualcosa di speciale – dice.
Tutti dovrebbero provarla e conoscerla.

Luigi taglia per noi alcune fette di una forma di oltre cinquanta chili invecchiata cinque anni. C’è tanta Calabria in questa nduja: non la Calabria dimenticata, ma quella da ricordare.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Calabria, a Spìlinga, il paese della nduja; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Le cantine del culatello.

Oggi siamo in Emilia. Il paese è Polesine Parmense, il paesaggio la Bassa Padana. Le coordinate geografiche sono 45°1’ Nord e 10°5’ Est.

La nostra auto corre rapida lungo le strade di pianura, tra curve morbide e rettilinei affiancati da campi di grano ancora verdi.
– Il cielo è piatto, – borbotto a Davide mentre allungo le braccia sul volante.
In effetti, oggi il verde dei campi è un po’ spento.
– È sempre bella la luce della Bassa… – dice lui con un filo di voce, come parlando a sé stesso. – Non è mai piatta…
Stiamo attraversando un paesaggio ampio. Una natura spesso avvolta nella nebbia, oppure abbagliata dal sole che si riflette sulle increspature del Po. Quando il cielo è grigio, l’ambiente si dilata e le giornate sembrano appese, come persone in attesa.

A un tratto, un cartello sul ciglio della strada indica l’Antica Corte.
– Ecco, ci siamo, – dice Davide.
Svolto e percorro la strada in leggera discesa. Pioppi lungo la via, a sinistra la Chiesetta del Po, con il campanile che sembra la copia in miniatura del Torrazzo di Cremona, a destra un campo dove pascolano libere alcune vacche e un cavallo. Poi la strada diventa sterrata. Giriamo intorno al fossato e costeggiamo il rialzo della golena, superiamo il ponte in legno ed entriamo nella corte. C’è un pavone, accanto alle biciclette. Non si cura di noi, mentre scendiamo dall’auto e salutiamo Massimo, il protagonista della puntata. Questa è casa sua.

Siamo venuti qui per raccontare la sua storia e quella dell’Antica Corte Pallavicina. Storie uniche, esemplari, che però racchiudono lo spirito di un popolo e sembrano fatte apposta per essere imitate, magari in scala ridotta, rispettando gli stessi valori e gli stessi tempi. Un po’ come il campanile della Chiesetta del Po, a un passo dall’argine: più piccolo di quello di Cremona, ma ugualmente bello.
Per raccontare questa storia è bene partire dalle origini, quando i marchesi Pallavicino costruirono il loro castello nel primo Trecento. Una dimora blandamente fortificata, posta dove il Po incrociava la Via del Sale. Luogo di scambi, merci e culture. Si navigava il fiume e si attraccava direttamente al pontile dell’Antica Corte, come a Venezia sul Canal Grande. Il castello non era stato progettato per respingere i nemici, ma per accogliere i prodotti alimentari, in larga parte derrate versate come tributi ai feudatari. I Pallavicino dovevano essere molto più interessati alla qualità dei cibi che alla forza delle armi.

Sotto di noi ci sono le cantine, ancora perfettamente in uso, realizzate settecento anni fa proprio per stagionare le eccellenze del territorio, soprattutto parmigiani e culatelli. Ancora oggi, sono questi i simboli di Zibello e della Bassa Parmense.
Nel Quattrocento la struttura divenne una grande azienda agricola e nel corso dei secoli conobbe alterne fortune, diventando addirittura una caserma dei Dragoni.
Il bisnonno di Massimo vi si trasferì alla fine dell’Ottocento. Lavorava come agricoltore per Giuseppe Verdi ed era il suo norcino preferito. I salumi e i culatelli che il Maestro tanto decantava, li produceva il bisnonno Carlo. Anche suo figlio, il nonno di Massimo, era un uomo di talento, che conosceva bene il suo mestiere e amava inventarsene di nuovi. Così, nel 1920, organizzò un servizio di battello per trasportare persone e merci da una sponda all’altra del Po.

Nelle stazioni di partenza e di arrivo aprì due osterie, gestite dalle donne di famiglia. Cucinavano ciò che si produceva nei campi dell’Antica Corte: le verdure dell’orto, le carni degli animali, le uova delle galline, i vini della vigna.
Non era solo un’attività, ma un sistema economico, che legava le persone al loro territorio. Questo piccolo mondo antico, raccolto sull’argine del fiume, è sopravvissuto alla guerra ed è rimasto in vita fino a quando la fuga dalle campagne, le piene del Po e l’ansia della modernità hanno cambiato il corso delle cose. L’Antica Corte Pallavicina, dove Massimo era nato e la sua famiglia aveva vissuto e lavorato per generazioni, fu abbandonata. Poi, lontano dalla vecchia casa sul fiume, Massimo trovò la sua strada e diventò un grande chef, rimanendo però un uomo di campagna, un cuoco agricoltore.

Davide cammina lungo il perimetro del castello e posa la sedia. Indica l’Antica Corte alla sue spalle ed esclama:
– Massimo e suo fratello non potevano lasciare che la loro casa andasse in rovina! E per darle un futuro, hanno fatto tutto come nel passato, rimettendo ogni pietra dov’era sempre stata.
Dopo oltre vent’anni di lavori, l’Antica Corte dei Pallavicino è tornata a essere come un tempo: una grande azienda agricola con gli orti e la vigna, il frutteto, i suini di razza Nera Parmigiana, le vacche al pascolo, le galline e le oche e le anatre nel cortile, il ristorante, le camere e le cantine, dove stagionano salumi e formaggi prodotti qui, con le materie prime di casa.

Questa è la storia di persone che hanno trovato se stesse, ritrovando la propria terra. Ogni prodotto di quest’azienda è un mondo, tutto da scoprire.
Davide si alza e s’incammina verso le cantine. Scendere una rampa di scale in pietra antica, aprire il chiavistello di una vecchia porta di legno ed entrare in uno spazio sotterraneo dove stanno affinando migliaia di culatelli di Zibello, non è cosa da tutti i giorni. Credo che queste cantine siano uniche al mondo. I muri trasudano l’umidità e le muffe nobili si trasmettono dai culatelli più anziani a quelli più giovani. Il naso poco allenato si perde nella massa dei profumi, mentre l’occhio indugia sulle forme dei culatelli. Alcuni sono più tondi e gonfi, altri allungati e raggrinziti. Anche le superfici sono molto diverse: lisce e rosate, oppure brune e rugose, coperte di concrezioni come conchiglie nel mare.

Massimo è con noi e ci presenta la sua cantina, uguale a quella dei signori di settecento anni fa. C’è una grande finestra a nord, da cui entra l’aria del fiume; poi due feritoie ai lati per farla circolare. Ma non è solo l’aria che entra in cantina e accarezza i culatelli: c’è anche la nebbia, la vera signora della Bassa.
– Quando c’è nebbia, apriamo la finestra, – dice Massimo, – ed è allora che si compie il miracolo.
Mesi di allevamento dei maiali e giorni di lavorazione delle carni, diventano pregiati culatelli di Zibello. È un processo lento, un miracolo appunto, che si compie qui in cantina, con la nebbia che entra, avvolge le forme e trasforma le carni.

Massimo e Davide avanzano facendosi letteralmente largo tra i culatelli appesi, destinati ai più importanti chef di tutto il mondo. Non è proprio cambiato niente. Questi culatelli sono come quelli che il bisnonno Carlo faceva per Giuseppe Verdi. Tutto è rimasto come una volta. Un grande passato, che è già futuro.
Usciamo dalle cantine senza fare rumore. Chiudiamo la porta, lasciando aperta la finestra sul fiume. Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite nella Bassa Padana, a Polesine Parmense; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Il torrone di Crema.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Crema, il paesaggio la Pianura Cremasca. Le coordinate geografiche sono 45°21’ Nord e 9°40’ Est.

Parto con comodo da Genova; l’appuntamento è intorno alle dieci del mattino. All’altezza di Tortona, squilla il telefono. È Davide, che è già quasi arrivato. So che in questo momento dovrei svoltare a destra verso Piacenza, ma sono distratto e mi lascio guidare verso nord dal navigatore. Quando riattacco, Davide sta probabilmente già indossando l’abito di scena nella gelateria di Mauro, il protagonista della puntata, mentre io procedo a passo d’uomo lungo la tangenziale di Milano. Una situazione irritante. La tangenziale è un luogo – o meglio, un non luogo – scritto nel destino dei milanesi; Davide lo conosce bene e per questo lo evita muovendosi all’alba, partendo in anticipo per non arrivare in ritardo.

Procedo lentamente, circondato di macchine. Piccoli mondi dove ognuno ha qualcosa da fare. Tamponarsi adesso sarebbe un gioco da ragazzi. Mi concentro ed evito il pericolo. Quando esco dalla grande strada abbasso i finestrini e respiro, ma è solo un attimo. Ci sono le statali di pianura da percorrere, sempre dietro qualche camion. Il paesaggio scorre monotono, con fabbriche e campi di cereali attraversati da vie affollate. Un tempo, tutto questo era bosco, con acqua, fiumi e risorgive: paludi e marcite che rendevano il territorio selvaggio e poco sfruttabile. Poi fu progressivamente bonificato, cambiò volto e divenne la terra degli scambi, dei commerci, della produzione.

Crema nacque intorno al Mille come borgo fortificato, posto su un lieve rialzo del terreno. Ma era lì, tra Milano e Venezia, al centro delle grandi vie di comunicazione. Una città destinata a far fortuna. Alla metà del Quattrocento divenne veneziana: un lembo di Serenissima all’interno del Ducato di Milano. Sono ancora tanti i riferimenti a Venezia disseminati nella città: iscrizioni, leoni di San Marco, icone di Cannaregio. Crema era un avamposto veneziano, al centro dei suoi Domini di Terra, con una diocesi che estendeva il proprio controllo fino a Genova.

Entrando in città, le macchine diventano di colpo biciclette, le case e le fabbriche monumenti. La pianura degli scambi si trasforma in una città d’arte e cultura, dove i ritmi serrati della produzione diventano i tempi lenti della contemplazione. Crema offre una concentrazione di chiese, monumenti e dimore storiche davvero unica. Siamo venuti qui per parlare di torrone, ma siccome la preparazione artigianale di questo dolce tipico – ormai in via di estinzione – è molto lunga, decidiamo di filmare prima la città e i suoi scorci migliori.

Ci accompagnano Mauro e Annunziata, una guida molto esperta, che ama la sua città e con pazienza ci apre le porte dei luoghi più interessanti. Grazie a lei riusciamo a fare un po’ di selezione; troppa bellezza rischia di stordire.
Iniziamo dal Duomo, un edificio di grande armonia, misto di romanico e gotico. Nel campanile della Cattedrale suonano ancora le campane settecentesche della fonderia Crespi. All’interno scopriamo un crocefisso ligneo, con un Cristo dal volto magnetico. La sofferenza affiora cruda dalla piega degli occhi allungati, dalle labbra strette, dagli zigomi alti e sporgenti. Siamo di fronte a un Dio diverso e inatteso, dai lineamenti orientali, quasi mongoli o caucasici.

Poi l’Arco del Torrazzo, uno dei simboli della città, e una visita al Palazzo Comunale. Annunziata ci porta all’interno, per filmare la piazza dai balconcini dell’edificio. Massimo posiziona la telecamera e inquadra Davide, davanti al Duomo, circondato di passanti che lo riconoscono e si fanno fotografare con lui. Stupisce sempre la forza della televisione.
Un salto fuori città per ammirare la Basilica di Santa Maria della Croce e poi la tappa più suggestiva: il refettorio dell’ex Convento di Sant’Agostino, oggi Museo Civico.

Si diceva della potenza di Crema e della sua diocesi. Ecco spiegate le dimensioni di questo convento, la bellezza dei chiostri e l’imponenza degli affreschi del refettorio realizzati da Pietro da Cemmo. Alle estremità della sala due grandi immagini della Crocefissione e dell’Ultima Cena, ai lati le lunette dei padri agostiniani, le raffigurazioni monocrome dei re d’Israele e un tessuto decorativo di grottesche e fregi che corrono lungo le volte. Un luogo che merita una visita attenta. Un tesoro nascosto, da scoprire e valorizzare.
Infine raggiungiamo le vecchie mura, nella zona di Campo di Marte. C’è un prato con l’erba alta, il baluardo in mattoni rossi che luccicano alla luce del sole. Davide raggiunge un punto riparato e finalmente si siede. All’ombra delle vecchie mura, si sente come a casa.

Nel frattempo ci telefona la moglie di Mauro. Siamo in ritardo e il torrone rischia di bruciare. Lasciamo la storia di Crema ed entriamo nel vivo di quella di Mauro, uno dei migliori gelatieri d’Italia. La sua famiglia aveva un piccolo ristorante e offriva un po’ di gelato come dessert nei giorni di festa; suo padre decise invece di puntare su questo prodotto e aprì una gelateria. Mauro lo seguiva da lontano, aveva altri progetti. Si occupava della gestione di strutture complesse, pericolose e affascinanti. Un lavoro che durò fino al referendum sul nucleare. Poi la decisione di tornare alla dimensione artigianale di famiglia, forte però dell’esperienza acquisita, avendo maturato un’attenzione quasi maniacale al controllo dei processi di lavoro. Iniziò studiando i cibi e la chimica degli alimenti, poi affinando la gestione delle produzioni. La sua attività è da oltre vent’anni di altissima qualità: il suo locale un punto di riferimento per la degustazione del gelato artigianale.

Una decina d’anni fa, si mise in cerca di un produttore di torrone per realizzare nuovi semifreddi. Ma non lo trovò. Scoprì che nella sua città – così come a Cremona – non c’era più nessuno che producesse in maniera artigianale il dolce tipico. Decise allora di fare da sé e iniziò studiando le antiche ricette, ascoltando le testimonianze dei vecchi artigiani ancora in vita ma non più in attività. Poi acquistò macchina degli anni Cinquanta con la caldaia in rame per scaldare il miele a bagnomaria. Infine cominciò a sperimentare, sbagliare e riprovare. Selezionò gli ingredienti migliori, mise a punto le dosi e iniziò la produzione.

Al mattino presto si mette il miele a scaldare. Una cottura lenta e prolungata, che l’industria risolve con temperature altissime. Il miele è l’ingrediente fondamentale del torrone, la sua anima dolce. Mauro usa miele biologico di un piccolo produttore locale: una miscela di robinia, tiglio e amorpha fruticosa, una pianta selvatica che cresce sulle rive del Serio e dell’Adda. Dopo circa tre ore si incorpora l’albume delle uova, sgusciate a una a una. Poi altre cinque ore di cottura, continuando tenacemente a menare il torrone, l’aggiunta dello zucchero di canna cotto e infine delle mandorle, che costituiscono oltre il 50% del prodotto finale. Mauro usa mandorle di Toritto, presidio Slowfood della Puglia.
È interessante notare che l’ingrediente principale del torrone cremasco viene dal Sud. Qui, nelle terre dell’Isola Fulcheria, non esistono mandorli. Segno che probabilmente questi frutti preziosi erano stati portati dai mercanti in viaggio lungo la rotta degli scambi e poi rielaborati secondo ricette ebraiche e arabe, culture da sempre legate all’uso del miele e della frutta secca.

Dopo otto ore di lavorazione, la massa del torrone è pronta per l’estrazione. Ma non è facile da lavorare, così calda e densa. Si arrotolano dei grossolani cilindri da un paio di chili l’uno e si ricavano delle piccole porzioni da un paio d’etti ciascuna. Per distinguersi dall’industria, invece delle tradizionali stecche di torrone, Mauro realizza a mano delle tortine che vengono confezionate ancora calde, in modo che il prodotto non assorba umidità e non perda la caratteristica fragranza.
Chi pensa che il torrone sia un dolce duro, deve provare quello artigianale cremasco.
– È morbido come Crema! – esclama Davide di fronte alla telecamera.

Quando ci salutiamo, Mauro mi consegna un sacchetto con un po’ del torrone prodotto oggi. Si raccomanda di non mangiarlo subito, ma di aspettare un paio di settimane perché i gusti si stabilizzino e gli aromi trovino il proprio equilibrio. Nel frattempo, noi ci muoviamo verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.
Venite a Crema, città d’arte e torrone; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Il Chianti selvaggio.

Oggi siamo in Toscana, a Gaiole in Chianti. Le coordinate geografiche sono 43°28’ Nord e 11°26’ Est.

Il paesaggio è composto da morbide ed eleganti colline: una distesa di lievi ondulazioni del terreno coperte da vigneti, casali e castelli. Gaiole in Chianti è poco distante da Siena, una trentina di chilometri appena. Dalla terrazza di Lorenzo, il protagonista della puntata, osservo la linea di confine che divideva i Guelfi dai Ghibellini, il Papato dall’Impero.

Siamo nel cuore del Chianti Classico, la terra del Gallo Nero. La leggenda narra che per stabilire i territori di Siena e Firenze, due cavalieri fossero partiti al canto del gallo dalle rispettive mura per incontrarsi in un punto che sarebbe diventato la linea di confine. I fiorentini erano scaltri e determinati: scelsero un gallo nero e lo tennero al buio senza cibo per alcuni giorni, perché la notte della sfida cantasse prima dell’alba. Il cavaliere fiorentino non fu più veloce: partì prima.

È solo una leggenda, però molto bella. Lorenzo la conosce bene e ridacchia a ogni passaggio. Lui tifa Fiorentina, ma alleva cinti senesi, la razza suina autoctona dipinta già dal Lorenzetti nel Trecento. Li alleva allo stato semibrado nel Chianti selvaggio, un territorio inatteso che dalla strada del vino si fatica anche a immaginare. Gaiole in Chianti è la tipica città mercato medievale: un borgo aperto, senza mura, con una strada principale che si allarga in una piazza dove si scambiavano le merci. Vista dall’alto, la cittadina riassume l’idea stessa di commercio: fluidità di scambi, rapidità di accessi, facilità di comunicazioni.
Il mondo sembra complesso, ma in realtà è semplice. Basta guardarlo dall’alto.

Lorenzo è il macellaio di Gaiole in Chianti, come il padre Vincenzo. Una famiglia di allevatori, macellai e norcini dal Seicento in poi. La qualità dei loro salumi lascia senza fiato. Girovagando con Davide ne ho assaggiati parecchi, ma questi credo che siano i migliori, soprattutto i prosciutti. La cantina di stagionatura, la cosiddetta prosciuttaia, è intrisa di profumi di sale, spezie e umidità della pietra. Mette fame anche a chi è sazio. Le carni della bottega sono eccellenti. La madre di Lorenzo le cucina senza astuzie né scorciatoie; solo esaltandone la genuinità con aromi del bosco, legna e un paziente uso del tempo. Ci invitano a cena. Quando entriamo in casa, il fuoco arde nel camino già da ore; l’arrosto gira sulle braci. Quando ci sediamo, c’è solo da mangiare e ringraziare.
Davvero, grazie.

L’indomani, alle sei e mezzo, siamo tutti sulla jeep. Massimo e le attrezzature sull’auto di Lorenzo; Davide e io sulla Panda 4×4, forse la macchina più bella e simpatica del mondo. Ci sorprenderà anche oggi. Siamo diretti nell’allevamento di cinti senesi di Lorenzo, la sua passione. Ci promette un viaggio all’avventura e noi lo seguiamo fiduciosi. Faremo un giro lungo, per riprendere il paesaggio da scorci diversi.
Quando il sole sorge, siamo già sul crinale della collina, in un bosco di pini alti una trentina di metri che oscillano sulle nostre teste. Ogni tanto si sente un rumore sordo, come di rami spezzati, e poi un tonfo, come di rami caduti. C’è da stare attenti, nel Chianti selvaggio. Le vigne della Rocca di Castagnoli sono a un passo, ma è un altro mondo, fisico e mentale. Un mondo distante.

Risaliamo in macchina e proseguiamo. Il maltempo dei giorni scorsi ha fatto danni e il sentiero è pieno di alberi caduti. Ci fermiamo spesso, scendiamo e spostiamo. Una volta trasciniamo a braccia un tronco, un’altra lo spostiamo con la jeep. Quando l’albero è troppo grande per noi, armati di roncola ci apriamo un varco laterale e aggiriamo l’ostacolo. I cinti senesi ci aspettano. Ci sono tre scrofe che potrebbero sgravare da un momento all’altro. Ma proprio quando vorremmo sbrigarci, siamo costretti a scendere dalla Panda. La strada che le piogge avevano reso un pantano è diventata una roccia acuminata. Il freddo l’ha ghiacciata. La macchina è troppo bassa e la terra troppo sconnessa e dura.

Tornano alla mente le lezioni americane di Calvino e le sue parole sulla leggerezza. Così scendiamo e proseguiamo a piedi, lungo il versante della Valdarno. La Panda respira e torna a fare strada, saltellando agile sugli aculei del terreno.
Al termine della mattinata, quando finalmente arriviamo dai maiali, le riprese sono ancora tutte da fare. I cinti senesi però sembrano attori e rendono tutto facile. Rispondono ai richiami di Lorenzo come cani da pastore. C’è una recinzione elettrica che non serve a impedire che i maiali scappino, ma ad evitare che i cinghiali entrino. I suini di Lorenzo sono come marinai: spiriti liberi che amano il porto.

Lorenzo ha preparato il cibo, naturale integrazione dell’alimentazione spontanea del bosco, a base di ghiande, bacche e radici. In realtà, non dà da mangiare ai suoi cinti, ma fa da mangiare per loro. I maiali lo seguono mansueti: sono animali domestici e selvatici insieme. Sono bellissimi, con il mantello scuro che sembra ardesia e la cinta banca che unisce le zampe anteriori abbracciando il garrese.
Lorenzo torna dalle scrofe che aveva già visitato nella notte, prima di uscire con noi. Non hanno ancora partorito. Una sembra pronta, ma qualcosa la trattiene. Aspetta l’ordine della Natura che arriverà in serata, quando noi saremo andati via.

Torniamo nel borgo. È qui che si finalizzano le attività di Lorenzo e di suo padre Vincenzo, nel solco della tradizione norcina toscana. L’amore per la natura e gli animali diventa cibo, dopo l’esperienza della morte. È una questione delicata, da affrontare con rispetto. Un legame profondo lega questi uomini ai loro animali; dipendono gli uni dagli altri. Sul banco disponiamo i prodotti come fossero le tessere di un mosaico. Formano la sagoma stilizzata di un suino. Con molta passione, Vincenzo e Lorenzo spiegano al pubblico che dalla schiena di un animale adulto, dopo mesi di vita all’aria aperta, si ottiene l’arista, dalla coscia il prosciutto, dagli anteriori i salami; poi proseguono mostrando il capocollo, la pancetta, la spalla, il guanciale, le salsicce, la soppressata, il buristo. Tutti prodotti eccezionali, lavorati con una sapienza artigiana che in questa famiglia si tramanda da oltre tre secoli.

Finiamo in serata, quando il sole scollina dietro i vigneti della Rocca e il bosco si oscura. Per noi è tempo di andare, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi. Prima di salire in macchina, Davide entra nel bar della piazza. Ordina un caffè e posa una moneta sul banco. L’uomo lo riconosce e lo saluta con discrezione.
– Com’è la frase? – gli domanda. – Venite, ma non come turisti…
– Venite a Gaiole in Chianti, – esclama Davide, – ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!
L’uomo del bar sorride, serve il caffè e con un movimento lieve delle dita spinge la moneta verso Davide.
– Ecco, come ospiti…

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La Casa Cava.

Oggi siamo in Basilicata. Il paese è Matera, il paesaggio la Murgia Materana. Le coordinate geografiche sono 40°39’ Nord e 16°36’ Est.

Oggi non c’è un viaggio da raccontare. Eravamo già nella città dei Sassi e non abbiamo intenzione di andare altrove. Potremmo stare ore affacciati sulla vertigine della Gravina a ispezionare gli anfratti del tempo. Visto dall’alto, questo luogo sembra il giocattolo di un gigante, il suo castello di sabbia. E invece è la terra di tanti operosi esseri umani, anonimi cavamonti che hanno scalpellato i propri spazi nel tufo. I Sassi di Matera, dopo essere stati vergogna nazionale e Patrimonio Mondiale dell’Umanità, saranno tra poco il cuore pulsante della Capitale Europea della Cultura.

Passeggio con Davide sulla via che costeggia il dirupo. In sottofondo, il mormorio del fiume, come un Piave che brontola al passaggio degli stranieri.
– Matera è una vera capitale della cultura, – dice Davide, continuando a guardarsi intorno. – Qui la bellezza non è un concetto astratto, ha la concretezza della pietra.
– Pietra docile, malleabile…
– Come una conchiglia. È la natura che protegge gli esseri umani.
– Murgia viene da murex, murice.

Non riusciamo a staccare lo sguardo dalla città antica, rimbalzando continuamente con lo sguardo dal generale al particolare. I Sassi colpiscono per la ricchezza inesauribile dei dettagli e al tempo stesso per l’omogeneità dell’insieme: tutto sembra l’opera di uno scenografo, e invece è il frutto di generazioni di mastri e scalpellini, ciascuno impegnato a realizzare piccole cose: abitazioni, chiese, cortili, cisterne, condotte d’acqua… Non hanno nome quegli individui, ma hanno realizzato un’opera d’arte irripetibile, lento e tenace stratificarsi di esperienze comuni, maturate nel tempo.

– Di solito pensiamo ai Sassi come a una scultura, – dice Davide all’improvviso, – invece sono un quadro. Prima una pennellata, poi un’altra… e avanti così, per secoli e millenni…
– Ci sono oltre centocinquanta chiese, costruite sottoterra come quelle di superficie.
– Fanno anche loro parte del quadro. Si potrebbe riscrivere la storia dell’arte italiana partendo dalle pitture rupestri delle chiese di Matera.
Continuiamo a camminare lungo la via della Gravina. La Civita a sinistra, il burrone a destra. La strada sale. Il telefono di Davide squilla, lui non risponde.
– Questa è una città che ispira cultura, – dice con il fiato corto, – spero che nel 2019 non la imbottiscano di eventi.

Arriviamo al Monastero di Sant’Agostino e ci inoltriamo nel Sasso Barisano. Alcuni turisti scattano fotografie mimetizzati nel tufo. Immagino quando saranno migliaia, richiamati dal grande avvenimento. Penso agli equilibri fragili della città. Matera è il frutto di una continua relazione tra gli esseri umani e l’ambiente; un dialogo iniziato nel Neolitico e mai interrotto. In superficie si sviluppa un dedalo di costruzioni da cui emergono stratificazioni latine, longobarde, normanne, rinascimentali e barocche. Un mondo di bellezza che conserva i profumi del tempo, le stagioni della vita. Un volto che si sovrappone all’anima sotterranea della città segreta, magica e misteriosa.

– Ci siamo, – dico a Davide, giungendo nello slargo di via San Pietro Barisano. Antonio, il protagonista della puntata, ci viene incontro. È il direttore di Casa Cava, un edificio che in qualche misura può essere considerato un simbolo della città, una metafora della sua storia.
La vicenda di Casa Cava merita di essere raccontata, perché è un esempio di come le istituzioni pubbliche e le associazioni private possano lavorare insieme e realizzare opere di valore. Recuperare sassi dal passato e gettarli nello stagno del futuro. Perché smuovano le acque e producano cerchi ampi.

– Ciao Davide, benvenuto a Casa Cava.
– Ciao, Antonio. Dimmi, perché si chiama Casa Cava?
– Be’, perché in origine era una casa e una cava.
Antonio ci guida nell’ingresso di quella che sembra un’abitazione. C’è un tavolo, con un computer e un disegno architettonico appeso alla parete. Antonio si avvicina al progetto e inizia il racconto. Ci mostra la struttura allungata della grotta. Siamo all’estremità del Sasso Barisano che guarda verso l’orizzonte della Murgia; seguiamo il dito di Antonio che entra nelle viscere della terra verso il fondo della cavità.
– Questa era l’abitazione, usata probabilmente da alcune famiglie, – dice mostrando la parte iniziale del tunnel.

Il suo dito prosegue e si perde in una zona scura, alta e profonda: qualcosa di unico nel mondo dei Sassi.
– Questa invece era una cava di tufo, usata per un paio di secoli per costruire la città esterna, diciamo dalla fine del Quattrocento.
– E poi? – chiede Davide.
– Poi la cava è stata dismessa ed è diventata una discarica; successivamente anche la casa è stata abbandonata.
– Fino agli anni ottanta del Novecento?
– Esatto. Fino a quando un tecnico del comune, facendo un’ispezione nella grotta, ha trovato anomala la struttura poco profonda del sito, come se mancasse qualcosa…
– Non capisco, – dico io. Davide attende le parole di Antonio; segno che anche a lui sfugge qualcosa.
– Dunque, – spiega il direttore di Casa Cava, – immaginate che tra il XV e il XVI secolo, nella città nuova si scavi dall’alto un pozzo per estrarre il tufo che serve alla costruzione dei palazzi. In basso, nel Sasso Barisano, altri scavano in orizzontale una grotta e la abitano. Quando la cava viene dismessa, gli uomini della grotta rompono un’ultima barriera di tufo, e invece di trovare un ambiente abitabile scoprono questo immenso spazio verticale. Non gli serve, tornano indietro e richiudono la parete.

Negli anni Ottanta, dopo l’abbandono dei Sassi, un geometra del comune entrò nella grotta per effettuare dei rilievi e si domandò come mai questa casa fosse più corta delle altre; notò anche un muro in fondo all’abitazione e decise di scoprire cosa nascondesse.
Così, la casa e la cava sono diventate Casa Cava. Il progetto di riqualificazione è degli anni Novanta e nasce dal lavoro congiunto delle istituzioni e dei privati. Nella zona della cava, adesso è stato ricavato un auditorium con un’acustica perfetta.

Casa Cava è un centro per l’arte, la cultura e la creatività giovanile, sede permanente di convegni, laboratori, performance artistiche e concerti. Un luogo del passato che si apre al futuro.
– Avete fatto un lavoro fantastico, – esclama Davide camminando tra le stanze recuperate e raggiungendo l’auditorium, dove un gruppo musicale sta provando un brano popolare lucano rielaborato su armonie jazz. Poi, a bassa voce, quasi a se stesso, aggiunge:
– Mi raccomando, non affogate la città negli eventi. Rispettate i suoi spazi e i suoi tempi…
So a cosa sta pensando. Matera è un luogo unico al mondo, capace di ispirare e produrre arte. Proprio ciò che si chiede a una Capitale Europea della Cultura: generare bellezza, non solo ospitare eventi.
Al termine delle riprese usciamo da Casa Cava e ripercorriamo in senso inverso la strada che costeggia la Gravina. Restiamo in silenzio, mentre il giorno declina lentamente. I nostri passi sono rapidi, ma senza fretta. C’è un po’ di freddo che si distende sulla Murgia. È tempo di rincasare, in grotta.

Venite a Matera, la città dei Sassi, Capitale Europea della Cultura; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Il pane dei Sassi.

Oggi siamo in Basilicata. Il paese è Matera, il paesaggio la Murgia Materana. Le coordinate geografiche sono 40°39’ Nord e 16°36’ Est.

All’aeroporto di Bari, dove noleggio una macchina, mi chiedono se voglio le catene.
– A Matera sarebbero obbligatorie…
– Non è previsto maltempo, – dico io.
– La città è in montagna: fa freddo, potrebbe nevicare
Firmo il contratto e salgo in macchina, senza catene. La strada corre nella notte, dritta e rettilinea, attraversando campi piatti e uniformi. Non vedo i cereali, ma so che ci sono. Non vedo nemmeno la montagna, ma so che arriverà.
Dopo Altamura sono ancora nel mezzo della pianura. Solo in prossimità del cartello di Matera, il muso dell’auto si alza di qualche grado. Non c’è la neve, e nemmeno la montagna. Qualche curva ampia e sono nel paese nuovo, quello nato dopo la vergogna nazionale e l’abbandono forzato dei Sassi.

La prima sorpresa è la gente. Sono le otto passate e tutti passeggiano in strada. I negozi sono aperti e ben illuminati. Mi perdo più volte. Finisco in un senso unico a ridosso del centro storico dove in un altro luogo mi avrebbero tolto la patente. Qui invece mi si avvicinano pazienti, mi sorridono, mi spiegano come raggiungere il mio albergo. Seguo le indicazioni e dopo un lungo giro mi ritrovo davanti a un semaforo verde, all’imbocco di una discesa ripida lastricata. Ci siamo. Il viaggio nel tempo, nella città che resiste dal Neolitico, comincia adesso. Passo davanti alla chiesa di San Pietro Caveoso e proseguo fino al parcheggio ricavato in una curva della strada.
Esco dall’auto, disorientato. Da un lato la città, che affiora nella notte punteggiata di piccole luci; dall’altro il niente. Mi sporgo dal parapetto. Percepisco il vuoto, profondo, con un rumore sommesso d’acqua che sale dal fondo. Infine entro in albergo, che è una grotta di lusso. E mentre mi addormento, penso a quanto Matera assomigli a Venezia: l’una strappata all’acqua, l’altra alla roccia.

L’indomani mattina, la sveglia suona presto. Il sole è alto e illumina la Murgia. Adesso posso vedere ciò che ieri intuivo soltanto. Un monte che sale di colpo dalla pianura, con una grande spaccatura al centro e il fiume in basso. Sulle pareti di tufo, un’intera città che sembra uscita dalle pagine di Calvino. Me lo vedo, Marco Polo che racconta per filo e per segno questo mondo sotterraneo: la sua gente, le sue abitudini di vita che hanno attraversato i millenni. E Kublai Khan che sgrana gli occhi e non crede alle parole del veneziano. Nemmeno quando gli dice che i Sassi, dopo l’abbandono degli anni Cinquanta sono diventati Patrimonio dell’Umanità e presto saranno Capitale Europea della Cultura.

È tutto talmente unico che il Gran Khan non ci crede. Bisogna essere di Matera, per crederci. Massimo, il protagonista della puntata, è un giovane fornaio di Matera. Un uomo che crede nella sua città. Noi del nord lo chiameremmo panettiere, ma lui è un fornaio, di terza generazione. La famiglia aveva il forno nei Sassi, poi il nonno era migrato nella parte nuova prima degli altri, guardando lontano. Qualche anno fa, anche il nipote ha saputo guardare lontano, intuendo che il futuro del pane di Matera era racchiuso nella sua storia, nei novemila anni di fragranza croccante. Pagnotte sacre, fatte per durare. Il rischio era quello di perdere nelle pieghe voraci della modernità i segreti di questo pane antico come i Sassi, gettarlo nel fondo della Gravina e sostituirlo con panini fatti d’aria, lieviti industriali e farine raffinate.

Massimo e altri giovani fornai di Matera hanno invece ritrovato le ricette, ricostruito la storia del pane che avevano conosciuto da bambini, imparato i gesti e i tempi del forno; poi hanno scritto un disciplinare e sono riusciti a ottenere l’Indicazione Geografica Protetta, il marchio di qualità che l’Unione Europea attribuisce a quei prodotti alimentari
che sono frutto di un luogo, della sua storia, morfologia e cultura. Cibi che altrove sarebbero impossibili.

Davide si accosta con molto rispetto al forno di Massimo. Il vapore esce dal portello, che ogni tanto deve essere aperto per controllare la cottura e regolare la temperatura. La cottura è lenta, almeno due ore. La temperatura è alta all’inizio, poi diminuisce gradualmente, perché all’esterno delle pagnotte si formi una crosta alta e croccante e all’interno una mollìca alveolata, densa e consistente.
Davide discute molto con il personale del forno. Mi sorprendono sempre la sua curiosità e l’attenzione ai dettagli. Assaggia e domanda. A un tratto nota qualcosa e mi chiama eccitato. Le pagnotte, illuminate dalle braci, sembrano pezzi di terracotta e ricordano i guerrieri cinesi del primo Imperatore, l’uomo della Grande Muraglia.
– Vedi, – mi dice Massimo, – la storia di Matera è tutta scritta nel suo pane.
Prima di richiudere il portello mi indica le pietre del forno.
– Ognuna cuoce in modo diverso, – spiega, – e le donne che portavano al forno il pane,
avevano la loro preferita.

Spezziamo un frammento di crosta e mentre mangiamo torniamo a parlare di quella comunità, povera ma dignitosa, che aveva incontrato Carlo Levi: i bambini avevano le mosche sugli occhi ma tutti lo invitavano in casa a dividere ciò che c’era. Il pane era la prima cosa, la più importante. Le donne, al mattino presto, lo mettevano a lievitare nel letto, dopo che il marito si era alzato per andare nei campi. Il calore dell’uomo dava all’impasto l’ultima spinta prima di essere infornato. Come un incoraggiamento.
– E il lievito madre? – domando. – Sarà millenario pure lui…
– Nient’affatto! Da noi è sempre fresco.

Massimo mi racconta delle sue ricerche presso le anziane che avevano vissuto nei Sassi. Il lievito madre non mancava mai in casa, e se mancava c’era sempre una vicina pronta a prestarlo. La tradizione, che adesso è parte integrante del disciplinare, voleva che venisse fatto con frutta fresca di stagione, lasciata macerare nell’acqua e poi aggiunta alla farina.
Giusto, la farina. Il pane di Matera si produce solo con semola di grano duro lucano, della varietà Senatore Cappelli, quel grano antico e prezioso di un’Italia che al di là della retorica fascista credeva nella terra. Una specie di grano padre, da unire al lievito madre.

Adesso che l’impasto è pronto e ben lievitato, possiamo procedere. Massimo lavora e Davide imita i suoi gesti. Sono azioni precise; ognuna racconta una storia. Si comincia con una prima piega, poi una seconda, quindi si pratica un solco al centro che ricorda la Gravina e che si realizzava con un movimento dell’avambraccio, poi si solleva la testa della pagnotta e si spinge la spalla, perché il pane cresca in altezza come i Sassi e non tocchi mai quello del vicino. Guai se due forme dovessero baciarsi, sarebbero da buttare. Infine si praticano i tre tagli che richiamano la Santissima Trinità.
– Vedi, – mi spiega Massimo togliendo dal forno le pagnotte appena cotte, – i tagli erano in basso, poi con la cottura sono saliti e alla fine te li ritrovi in alto.
– Succede perché hai spinto la spalla dopo aver sollevato la testa?
– Bravo! Quello che sembra un gesto da niente, è la chiave di tutto.

È sera. Torno nella mia grotta di lusso, mentre Matera ridiventa a poco a poco un presepe notturno. Da un lato la vita, tenacemente aggrappata alla roccia, sempre alla ricerca dell’acqua che scorre in profondità; dall’altra la notte, che sovrasta le case, addossate le une alle altre. Mi riaddormento felice. Percepisco l’umido del tempo, che scorre lento e svapora, assorbito dal tufo.
Venite a Matera, città dei Sassi e Capitale Europea della Cultura; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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I fusilli di Pisa.

Oggi siamo in Toscana. Il paese è Lari, un piccolo borgo medievale immerso nel paesaggio delle colline pisane.Le coordinate geografiche sono 43°33’ Nord e 10°35’ Est.

– Lari il paese più bello del mondo, – mi aveva detto al telefono Dino, il protagonista della puntata.
Avevo sorriso, pensando che tutti gli italiani dicono così del loro paese, soprattutto i toscani.
– Siamo una famiglia di pastai dal 1926, – aveva proseguito. – Viviamo e lavoriamo nel cuore di Lari, di fronte al castello. Da noi si respira un’atmosfera speciale…
– Come un piatto di pasta a mezzogiorno?

Mi era venuta in mente una campagna pubblicitaria della metà degli anni Ottanta, incentrata sul ritorno a casa degli italiani a metà giornata: un popolo intero che lasciava i campi, le fabbriche, gli uffici e le botteghe per sedersi a tavola e mangiare un piatto di pasta.
Era il gusto del mezzogiorno. Chissà, forse a Lari esiste ancora il mezzogiorno, e ha il gusto della pasta.

Arrivo tardi la sera. I miei amici sono ancora a tavola. Tra Davide e Massimo siede una ragazza che non conosco. Mi sorride e mi saluta. Tra la frutta e i dolci c’è un avanzo di pasta al ragù. Mi incarico di finirla. È fredda, ma ottima.
– Hai visto come ha tenuto la cottura? – mi domanda Davide.
– È perfetta…
– È nostra! – esclama la ragazza, con un sorriso luminoso. Le sorrido anch’io; adesso so chi è. Quando ci alziamo, poco dopo, ci diamo appuntamento per l’indomani.

Il mattino seguente, nella casa laboratorio di fronte al castello, si comincia con la preparazione dell’impasto per gli spaghettini. È sabato e non sarebbero in produzione, ma la famiglia di pastai farà un’eccezione per noi. Utilizzano solo acqua e semola di grano duro maremmano.
– Non sapevo che in Maremma si coltivasse grano duro, – chiedo a Laura, la figlia di Dino, la ragazza che ho conosciuto ieri sera.
– È molto buono, perché viene da terreni poco sfruttati…
– Così fate una pasta tutta toscana?
– Un tempo usavamo grano duro canadese, – spiega il padre. – Ma questo nostrano è ancora migliore…
Una vera pasta di casa, fatta in famiglia.

Più tardi, Davide e io usciamo dal pastificio e passeggiamo nel borgo. Forse non è il più bello del mondo, ma certo è suggestivo, circondato di colline e raccolto attorno al suo castello. La struttura è quella medievale classica, con le case strette attorno alla fortezza.
Ciò che sorprende, qui a Lari, sono le dimensioni: tutto è ridotto allo spazio di pochi metri e le prime abitazioni sembrano toccare i mattoni rossi delle mura: un imponente bastione verticale che riflette la luce calda del mattino.
Un caffè e siamo di nuovo in via dei Pastifici, nel vivo della produzione. Gli spaghettini escono dalla trafila in bronzo come ciocche di capelli d’angelo. Dino, Laura, suo fratello Luca e tutti i membri della famiglia li maneggiano come se li stessero accarezzando. Fanno così tutti i giorni, da quasi un secolo: padroni e dipendenti di se stessi, a impastare, trafilare, essiccare e impacchettare pasta.

Il giallo è il colore della famiglia: una divisa, un packaging, un modo di pensare. A me ricorda il sole e il grano; Dino mi spiega invece che è il colore della Toscana, il più distante possibile dal blu dei fogli dove si metteva la pasta quando era venduta sfusa. Il giallo è diventato molto più di un colore per questa famiglia di Lari: una sorta di abito mentale, uno stato d’animo da indossare come un abito su misura.

Oltre agli spaghettini, producono pochi formati, tutti trafilati a bronzo. Ci sono le penne lisce classiche, i maccheroni, gli spaghetti e i fusilli di Pisa, gli ultimi arrivati. Nascono da una ricerca d’archivio e dalla scoperta che nel 1284 un fornaio di Pisa aveva assunto un operaio con la qualifica di pastaio. Non si credeva che nella Toscana del Medio Evo ci fossero pastai. Quello era un lavoro tipico del sud, diffuso in Campania e nella Puglia di Svevi e Angioini. Aver ritrovato un pezzo inatteso della propria storia aveva suggerito a Dino e alla sua famiglia la creazione di un nuovo formato: un omaggio a Pisa e alla Toscana della pasta.
Il fusillo aveva già la forma della torre; loro l’hanno realizzato con sette eliche e un piccolo solco che corre tutt’intorno, come il camminamento del monumento. Una riga che in realtà serve anche a trattenere il sugo e a bilanciare la cottura tra l’esterno e l’interno del fusillo.

Gli spaghettini continuano a uscire dalla trafila e a ondeggiare lievi nell’aria. I pastai di Lari non li tagliano, ma li appoggiano sulle aste di legno come panni al sole. Ogni bacco porta cinque chili di pasta, che vengono poi trasferiti al piano superiore per l’essicazione.
Laura ci mostra questa fase delicata della lavorazione, che per molti aspetti è il cuore della produzione artigianale. Mentre la pasta sale con un montacarichi, noi usiamo una stretta scala. A ogni rampa, la temperatura aumenta fino a raggiungere i trenta gradi. Siamo sudati, l’obiettivo della telecamera bagnato. Trenta gradi sono molti per gli esseri umani, pochissimi per la pasta. L’industria arriva a quasi cento!
«Servono cinquanta ore per un’essiccazione naturale che mantenga intatte le proprietà e il gusto del grano», spiega Davide alla macchina da presa. «Ci vuole tempo per fare le cose per bene, ma poi la differenza si sente tutta nel piatto».

Una volta pronti per il confezionamento, questi spaghettini artigianali non vengono tagliati, ma restano lunghi, semplicemente piegati. Chiedo a Laura e a suo fratello Luca se ci sia un motivo particolare, legato al gusto.
– Siamo toscani, – rispondono loro. – Se tutti li tagliano, noi li pieghiamo. Così la gente capisce che non c’è un’industria dietro…

Dopo pranzo, usciamo per completare le riprese in esterni. Entriamo nel castello dei Vicari, che in questo momento è un po’ ammaccato perché il vento dei giorni scorsi ha divelto una parte del tetto. Saliamo ugualmente e filmiamo Davide che passeggia lungo le mura osservando il paesaggio delle colline pisane, dal mare fino a Volterra. All’interno del cortile ci sono i simboli dei Vicari fiorentini che si sono succeduti dal 1406. Mi fanno notare come nel tempo siano cambiati i fregi e le decorazioni. Più sono semplici e più sono antichi. È una questione di comunicazione: lo stemma era la bandiera del popolo. In battaglia, la divisa segnava lo schieramento di campo: la vittoria dalla sconfitta, la vita dalla morte. Con l’andare del tempo, la politica ha arricchito gli stemmi di scritte, simboli araldici e motti.
Eleganze da salotto, ben lucidate e senza polvere di battaglia.

– Guarda: quella è la torre di Pisa, – mi dice Luca, indicandomi un punto appena più chiaro che si distingue all’orizzonte. Osservo la celebre torre che ha ispirato il nuovo fusillo, laggiù vicino al mare. A occhio nudo la immagino soltanto. Poi mi volto verso l’interno, oltre Volterra. Immagino anche Firenze e Siena, al di là delle coline, e mi viene in mente la leggenda di quei due cavalieri che al canto del gallo erano partiti dalle rispettive mura per incontrarsi nel punto che sarebbe diventato la linea di confine.
Domani saremo proprio nel Chianti, la linea di confine; la terra del gallo nero, tenuto al buio e senza cibo dai fiorentini per cantare prima dell’alba.

Ma questa è un’altra storia. Adesso è tempo di andare, verso nuovi paesi e paesaggi. Venite a Lari, sulle colline pisane; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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