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Un giorno sull’Altipiano.

Oggi siamo in Veneto. Il paese è Asiago, il paesaggio l’Altopiano dei Sette Comuni. Le coordinate geografiche sono 45°52’ Nord e 11°30’ Est.

L’appuntamento è con Davide nel tardo pomeriggio, alle porte di Milano, di fronte agli studi di Cologno Monzese. Un non luogo caro a entrambi: paesaggio urbano desolato, eppure capace di racchiudere esperienze indelebili. Davide viene direttamente dalla Cina; mi aspetto di trovarlo stanco, invece è solo affamato. Ci attendono tutti su ad Asiago, ma dobbiamo sbrigarci, perché la cucina chiude alle dieci.

Asiago sarà solo un punto di passaggio, il campo base dove passare la notte prima di salire in malga, a conoscere Vimer – il protagonista della puntata – e assaggiare i suoi strepitosi formaggi di montagna. Arriviamo tardi, quando la cucina è già chiusa. Per fortuna, i formaggi di Vimer e di suo padre Toni non hanno bisogno di cuochi. Una fetta di Asiago mezzano, una punta di stravecchio e un tocco di pancetta, poi un frutto e andiamo a dormire felici.

L’aria di montagna fa bene allo spiritomette appetito di vivere. Così, prima di spegnere la luce, rileggo qualche pagina del libro che ho portato con me. Ero ancora un bambino, quando con le dita sfioravo per la prima volta la copertina lucida di Un anno sull’Altipiano. Quel libro era sempre sul comodino di mio padre, anche lui sardo, come Emilio Lussu. Non sapevo niente della Prima guerra mondiale, non avevo idea di cosa fosse l’Altopiano di Asiago. Quelle pagine sono state per me come dei colpi di pennello. Hanno dipinto l’idea della montagna, l’animo profondo di esseri umani capaci di vivere nonostante tutto. Hanno steso, come una campitura ampia, la luce di un sentimento di gioia che ci appartiene e che riusciamo a provare anche nella disperazione. In montagna, quella luce mi sembra più intensa che altrove. Sarà per il bianco della neve che fa da sfondo, o per il freddo che entra nelle ossa e uccide i cattivi pensieri, oppure ancora per le curve esatte dei sentieri che riportano a casa. Un linguaggio universale, che lega gli esseri umani alla loro madre terra.

Al mattino, saliamo rapidamente in macchina fino alla malga. Ma che montagna è questa, dove i sentieri sono strade? L’Altopiano di Asiago è una specie di pianura sospesa a duemila metri di altezza, attraversata da una formidabile rete di sentieri costruiti sotto i colpi del nemico. Sono ciò che di buono ha lasciato in eredità la guerra. La storia che siamo venuti a raccontare sull’Altopiano di Asiago ha molto a che fare con le memorie di Emilio Lussu. Fare il formaggio in malga è una battaglia quotidiana, una lotta da combattere con calma e umiltà. Bisogna stare lì (finché ce n’è), con pazienza e intelligenza, e fare ciò che è giusto fare.

Oggi si parla dell’assurdità di leggi che potrebbero obbligare a usare il latte in polvere, come un tempo ordini senza senso mandavano a morire uomini strappati alle famiglie e alla terra. Lussu parlava del loro eroismo muto e paziente. Ritrovo quella stessa tenacia negli occhi di Vimer e di suo padre Toni, il più anziano malgaro dell’Altopiano. Mi mostra una forma di Asiago molto scura. La tiene tra le braccia come fosse una persona. Mi racconta di averla regalata tanti anni fa ai suoi figli, raccomandandosi di tagliarla solo quando lui non ci sarebbe stato più. Poi ride e la rimette a posto sulla scalera, ancora intatta e solida.

Per una questione di rispetto, raggiungiamo a piedi il punto dove abbiamo deciso di mettere la sedia di Davide. Siamo sul confine tra il Veneto e il Trentino, su una rocca che da un lato si affaccia alla piana di Porta Manazzo, dall’altro sprofonda nella Valle di Sella, con il Brenta che scorre in fondo alla gola, nascosto dalla vegetazione. Davide soffre di vertigini. Gli suggerisco di guardare solo da un lato. Mentre lui interpreta il testo e Massimo filma il paesaggio, con le Pezzate rosse, le Bruno alpine e le Burline al pascolo che si disputano la poca acqua delle pozze, io scendo lungo il dirupo e noto l’apertura di una caverna. Entro, spinto dalla curiosità. È buia e procede in orizzontale nella montagna. Cammino piano, verso la luce che proviene dal fondo e mi attrae. Dopo una cinquantina di metri sbuco dall’altra parte, di nuovo verso i pascoli ondulati della malga. Era una galleria, scavata chissà in quali condizioni, per combattere chissà quale frammento di battaglia della grande guerra. Lasciamo i brividi della prima linea e torniamo in malga, perché nel frattempo Toni e Vimer sono pronti con la cagliata.

La casera è una stanza con un grande camino su un lato, una finestra e un tavolo da lavoro accanto. Poi un’altra finestra, opposta alla prima, e un paio di porte per entrare e uscire. Tutto doppio, per far girare meglio l’aria e le persone. In montagna niente è casuale, soprattutto nella bottega di un artigiano. Il fuoco arde nel camino. Toni entra e impugna un lungo mestolo. Glielo porge il figlio che si posiziona accanto a lui.

Non dicono niente, però si vede benissimo che stanno parlando. Sono qui, ma al tempo stesso altrove, in un mondo tutto loro fatto di gesti e di lavoro per la trasformazione del latte. Toni taglia la massa bianca e la gira con il mestolo fino a ridurla a un insieme di piccoli chicchi. Il paiolo viene allontanato dal fuoco e poi riavvicinato, allontanato e riavvicinato. Padre e figlio si muovono con leggerezza, gli strumenti come estensioni degli arti. Mi perdo nei dettagli della loro relazione tra silenzi e sguardi, piccole attenzioni reciproche.

Fare il formaggio in malga non è come lavorare in un caseificio. Qui non ci sono strumenti di precisione, si fa tutto a mano e a occhio, seguendo l’esperienza e l’istinto. Ogni gesto si ripete sempre uguale e ogni volta diverso, perché il latte crudo è un alimento vivo e le giornate non sono mai le stesse. Ogni pascolo ha le sue erbe e in ogni forma di Asiago di montagna si ritrovano i profumi e le emozioni di questi luoghi. È un mondo che rischiamo di perdere, una delle tante facce dell’Italia della qualità. Un paese spesso nascosto, da conoscere e difendere.

Oggi è giornata di festa in malga. Gli escursionisti le visitano spostandosi da una all’altra: una specie di transumanza interna. Accanto a noi, in cucina, si sfornano piatti di polenta e si tagliano forme di Asiago mezzano e stravecchio. La gente è incuriosita dalla nostra presenza, ma nessuno entra nella stanza dove si lavora il latte. Tutti sbirciano da fuori il piccolo mondo di Toni e Vimer. La confusione distrae, anche quando non disturba. Per farci sapere che non li abbiamo disturbati, ci chiedono di restare lì a mangiare. Mettiamo un tavolo e qualche sedia accanto al paiolo di rame, con il fuoco che ancora arde e le ultime forme di Asiago di montagna che riposano nelle fascere. Prima che arrivi la polenta mi alzo ed esco. Cerco di farlo in maniera discreta, senza dare nell’occhio. Questa giornata sull’Altopiano sta per concludersi e voglio camminare ancora un po’ sui suoi sentieri: accarezzare con i passi la terra della memoria. Nel frattempo è scesa la nebbia e si è alzato il vento. Cammino tra il dirupo e la piana. Fa fresco, forse l’inizio dell’autunno. Così, senza smettere di camminare, infilo una mano nella tasca della giacca e con le dita sfioro la copertina lucida del libro.

Venite sull’Altopiano di Asiago; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Il popolo del balòn.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Dolcedo, il paesaggio la valle del Prino. Le coordinate geografiche sono 43°54’ Nord e 7°57’ Est.

Tutto era iniziato davanti a una fotografia di Salgado, con due grandi foche in primo piano. Una voltava la testa verso di noi e ci osservava con intensità. Un bianco e nero d’altri tempi, fatto di pellicole a bassa sensibilità, tempi d’otturazione rapidi, obiettivi affilati come diamanti e notti passate in camera oscura.

Davanti a quella foto, Antonio (Ricci) mi aveva chiesto:
– Conosci il pallone elastico?
Per fortuna sono cresciuto a Lusignanoun paesino da niente a un passo da Albenga. Da un lato il mare della Gallinara, davanti il Centa e dietro i cinghiali; dall’altra parte del mondo, verso Monesi e il Saccarello, si distende la Valle Arroscia. Da bambino mi portavano a Pieve di Teco, a vedere le quadrette giocare nella piazza del paese.
Guardo Antonio e domando:
– Il balòn?
Lui si accarezza il pizzetto e mormora:
– Non c’entra niente vero?
Be’, con le foto di Salgado non c’entra niente; ma con Paesi, paesaggi c’entra, eccome se c’entra.

E allora eccoci qui, a Dolcedo, per raccontare la semifinale del campionato di pallone elastico. La pallapugno si gioca solo nella Liguria di Ponente e nel Basso Piemonte. Il campo si chiama sferisterio, un nome che ricorda il Calvino di Palomar e delle Cosmicomiche, e invece è una specie di piazza allungata: per il popolo del balòn la vera piazza del paese. Nei piccoli centri di campagna, dove questo gioco antichissimo ha attecchito così bene da soffocare il calcio, lo sferisterio è ricavato davanti alla chiesa, di fronte al municipio, dietro alle scuole o dovunque ci sia uno slargo lungo un centinaio di metri e largo una ventina, con un po’ di spazio da un lato per accogliere i tifosi e una protezione sul lato opposto per tenere in campo la palla. Può essere un muro, una rete, qualsiasi cosa che permetta al tiro del battitore di correre lungo quella linea di confine tra le case e il bosco, la terra e l’aria.

Oggi tira vento di mare. Per chi batte è un bel vantaggio, ma bisogna saperlo sfruttare: se alzi troppo la palla, la butti nel fiume; se la tieni bassa, non arrivi dall’altra parte.

Ogni tanto, in cerca d’ispirazione, riguardo su internet qualche frammento del Viaggio in Italia di Mario Soldati. Il maestro insegna che prima di tutto vengono i luoghi, poi le persone. E allora partiamo dal paesaggio e dalla strada che lascia Imperia e si annoda su se stessa come un pitone sul fondo di una cesta. Ci lasciamo incantare e risaliamo la valle del Prino, che è tutta un susseguirsi di piccoli borghi che spuntano dal bosco in cerca di luce. I campanili delle chiese per primi, poi le case. Ci fermiamo sul bordo di una di quelle curve e giochiamo a individuare i paesi tra gli olivii castagni e gli arbusti di macchia mediterranea. Sembrano folletti: quasi non li vedi, ma sai che ci sono, tenuti insieme da una rete invisibile di relazioni umane, storie di terra e di caccia, partite a carte e scommesse al balòn.

Dolcedo è uno di quei borghi, il più ricco e importante, quello che la strada raggiunge meglio di tutti; per questo era la sede del mercato e per questo – da sempre – si chiama anche Piazza. Le prime inquadrature sono sul ponte in pietra dei Cavalieri di Malta. Il torrente scorre in bassocon un rigagnolo d’acqua che accarezza le vecchie ruote dei mulini. Sono magnifiche, ferme e abbandonate. Basterebbe poco per rimetterle in sesto.

Davide cammina con la sedia in spalla raso i muri delle dimore storiche. Entra in un loggiato scuro. Sembra un’antica sala d’aspetto, o l’ingresso di una villa nobiliare. Davide apre una porta e scopre un minuscolo, delizioso cortile. Mi ricorda il mondo arabo: sobrio, quasi assente all’esterno e lussureggiante all’interno. È così anche qui a Dolcedo, nella piazzetta della chiesa parrocchiale di San Tommaso. Suonano le campane e ci ricordano che sono quasi le undici: l’ora della messa. Dobbiamo fare in fretta. Mettiamo qui la sedia, e non potrebbe essere altrimenti. Questa piccola piazzetta di Dolcedo, vale da sola la puntata.

La chiesa è d’impianto medievale, ma è stata ricostruita nel Settecento. Facciata barocca e portale rinascimentale. L’interno, a tre navate, è ricchissimo. Il parroco mi spiega che un tempo era tutto decorato con stucchi verdi e rosa, come quelli che si vedono ancora nella parte anteriore; poi verso la metà dell’Ottocento è stata applicata una tinteggiatura blu. Ci sono capitelli e lesene dorate a ingentilire l’impianto decorativo, ma l’intensità del blu cobalto è stupefacente. Un colore tanto vivo da sembrare falso.
– È la qualità del pigmento – dice Davide – Un lavoro ben fatto.

Le campane suonano ancora. Battono l’ora e annunciano l’inizio della funzione. Per noi è tempo di andare. Di là del fiume, nello sferisterio, ci aspettano Daniel e il popolo del balòn.

Daniel è un giovane della zona, un campione della pallapugno. Nella vita fa l’agricoltore: tutti i giorni tra gli olivi di famiglia e la sera ad allenarsi. Ci aspetta paziente fuori dagli spogliatoi e ci introduce al rito della vestizione.

È un ragazzo di poche parole; oggi ne usa ancora meno. Lui è il battitore, il perno della squadra. Detto per inciso, i giocatori sono quattro: in fondo il capitano che batte e fa punti, poco più avanti la spalla e al centro del campo i terzini. La potenza e la precisione dietro, l’astuzia e l’agilità davanti.

Daniel prende tempo. Gesti lenti, misurati, che lo portano alla battuta come un cammino rituale. Dalla borsa prende delle bendele svolge e a una a una le annoda sulla mano e sul polso. Ogni giocatore ha le sue: le sceglie in casa e in merceria, le strappa da vecchi materassi. Poi mette degli strati di gomma e un profilo in cuoio.

– Quello l’hai tagliato tu? – domando.
Daniel non mi risponde nemmeno. Con la testa è già nel gioco, alla conquista di una caccia.
Questa delle caccie è una faccenda complicata. Il balòn è un gioco semplice da direimpossibile da capire, a meno di non esserci nati dentro. Il campo non ha una rete e durante il gioco si spostano i limiti del fondo – le caccie, appunto – a seconda di dove si fa morire una palla.

Come la briscola al bar: quando credi di aver capito tutto, non hai capito niente.

Intanto, mentre le quadrette si scaldano e il vento rinforza, il popolo del balòn prende posto. La leggenda dice che fino a pochi anni fa la pallapugno non esisteva senza le scommesse. Un po’ come il poker senza il piatto. Chiedo in giro, ma tutti scuotono la testa e giurano che di scommesse, oggi non se fanno.
– Qui però la gente viene con il coltello – mi dice uno per prendermi in giro. Ha capito che non sono del mestiere. Lo guardo stupito e lui, in dialetto, continua:
– Mica per accoltellare la gente, per affettare il salame!
E giù risate, mentre Daniel continua a battere e a macinare punti. Conquista caccie e la gente esulta. Però vedo che tutti applaudono un buon colpo e tutti fischiano un errore. Mi lascio sedurre da questo piccolo mondo antico, senza troppe divisioni. La partita è molto più di un evento sportivo: in campo – con i giocatori – scende tutto il popolo del balòn, ognuno con i propri sogni.

Potenza, precisione, riflessi… ma anche passione, lealtà, rispetto…
Anche questa è l’Italia della qualità.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Dolcedo, nella valle del Prino; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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I peperoncini della Carnia.

Oggi siamo in Friuli VeneziaGiulia. Il paese è Tolmezzo, il paesaggio la Carnia. Le coordinate geografiche sono 46°24’ Nord e 13°1’ Est.

La cena è una prova generale. Si legge la sceneggiatura, si decidono le inquadrature, si pianificano le riprese. Soprattutto ci si conosce. L’osteria si trova a Verzegnis e l’oste è un personaggio molto particolare: albergatore, ristoratore, politico. Oggi però si parla solo di cibo e di cultura della terra. Il suo ristorante è diventato il centro dell’attività di Pietro e Marco, i protagonisti della puntata. Nelle cucine, Marco realizza alchimie a base di peperoncini piccanti mentre nel laboratorio – ricavato sotto il locale – Pietro essicca, trita e lavora oltre cento varietà di questi variopinti frutti esotici.

La storia che siamo venuti a raccontare qui a Tolmezzo è al tempo stesso un sogno e una sfida: una vicenda che si ambienta perfettamente in Carnia, proprio perché sembra non avere niente a che fare con questa terra. Qui le montagne sono più rocciose che altrove. Oltre una certa quota, infatti, gli alberi svaniscono e il bosco lascia spazio alla pietra. È una questione di clima, troppo rigido per le piante. Le pareti sono verticali, come gli stipiti delle porte. Il Tagliamento è un immenso letto di ghiaia percorso da un intreccio di corsi d’acqua; visto dall’alto sembra un merletto, come la laguna di Venezia. Tutt’intorno sassi e arbusti: la nostra piccola steppa.

Lontani da tutto, però, è più facile avvicinare se stessi. Qui, dove solo il 2 per cento del territorio è seminato, Pietro e Marco hanno deciso di coltivare il peperoncino. Un sogno e una sfida, dicevamo. Ma anche un’idea geniale, frutto di un’antica passione per queste piante e una naturale inclinazione a complicarsi la vita.

Ma come può crescere il peperoncino in Carnia?

La risposta è nella qualità del terreno, nella salubrità dell’aria e nella purezza dell’acqua, ma soprattutto nel clima, caratterizzato da forti escursioni termiche. È proprio la variazione di temperatura tra il giorno e la notte che esalta l’ampiezza della gamma aromatica del peperoncino, senza modificarne la piccantezza. Pietro e Marco ne coltivano oltre cento varietà, tra cui l’Ibrido Carnia, creato proprio da loro e ormai pronto per essere certificato dall’Università del New Mexico, la banca mondiale del peperoncino. Aiutati da alcuni agricoltori locali, Pietro e Marco lavorano piccoli appezzamenti di terreno tra Caneva e Gemona, in varie zone di pianura e montagna. Spesso, dove tutto sembra impossibile, si realizzano le cose migliori.

L’indomani mattina, l’acqua della doccia si confonde con quella che scroscia nella grondaia accanto alla mia camera. Piove a dirotto da ore e non accenna a smettere. Apro le finestre, in cerca di uno squarcio sereno. Quando scendo in strada, Massimo – il nostro regista – è già lì che fuma e scruta il cielo. Arriva l’auto di Pietro. Con lui c’è un amico e collaboratore, un giovane vivaista. Oggi è giorno di mercato e mi stupisco di vederlo con noi.
– Non sei al banco?
– Oggi non è giornata. Non apro nemmeno il gazebo, tanto non viene nessuno…
Se lo dice lui, significa che il tempo non cambierà. Potrebbe essere il colpo di grazia, invece è solo l’inizio della giornata.
Cambiamo il programma delle riprese e ci dirigiamo nel ristorante-laboratorio, montiamo le luci e ci diamo da fare per valorizzare i peperoncini di Pietro e Marco. Abbiamo a disposizione ceste intere di varietà multicolori. Ce ne sono di ogni tipo e dimensione. Sono bellissimi e non è difficile renderli preziosi.

HabaneroHot lemonCajennaEspeletteSerranoUngarico. Dopo la raccolta, una sapiente lavorazione permette di realizzare blend secchi per ogni preparazione, sali aromatizzati, gelatine piccanti di frutta e confetture rosse, verdi e gialle, con diverse percentuali e combinazioni di peperoncini.

Davide li presenta davanti alla telecamera, assaggiando le confetture e le gelatine su scaglie di formadi frant, il formaggio di malga tipico friulano, realizzato riutilizzando le forme avanzate o difettose, che vengono opportunamente tagliate a striscioline o grattugiate, amalgamate con il latte e ricomposte nelle fascere. Una vera specialità nata – come spesso accade – dalla necessità di non buttare via niente. Un mondo di sapori e di profumi che stimolano la cucina creativa. La cuoca del ristorante prepara davanti ai nostri occhi uno straordinario tempura di Ancio e Jalapeño, poi un frico piccante e i cjarsons con una spruzzata di cioccolata montezuma.

Quando proprio non c’è più niente da riprendere negli interni, indossiamo la mantella, copriamo di plastica la telecamera e saliamo in macchina. La prima sosta è sul Tagliamento, tra i rovesci di pioggia, i fumi bianchi della cartiera e le nubi basse che chiudono l’orizzonte e risalgono i monti. Davide è in gran forma. Come sempre nelle avversità, risolve a colpi di carattere. E poi ama il Friuli e il Tagliamento; un giorno mi racconterà cosa lo lega a questa terra e al suo grande fiume. Poi facciamo tappa nella rivendita di prodotti agricoli e ognuno di noi acquista un paio di stivali. Ci siamo anche fatti prestare il gazebo dall’amico vivaista e siamo pronti a tutto. Risaliamo in auto e ci dirigiamo nel campo di Gemona, pieno di peperoncini maturi che i contadini stanno raccogliendo in questo periodo. Sulla strada passiamo davanti a Venzone. C’è sempre da restare sbalorditi di fronte alla poesia di questo luogo, che l’uomo ha realizzato, la natura ha distrutto e l’uomo ha ricostruito, identico a prima. La chiesa, le mura, le case: tutto come l’originale, con le stesse pietre recuperate tra le macerie del terremoto e rimesse a dimora. Un’altra storia di tenacia incrollabile, possibile solo qui. Mani forti e pazienti, mai stanche di realizzare ciò che la testa e il cuore comandano.

Nel campo, sotto la pioggia, i contadini oggi non lavorano. Sono tutti nella rimessa e ci aspettano per fare festa. Hanno i salumi, i formaggi, il vino. Ci riempiono di attenzioni e noi cerchiamo di ricambiare montando il gazebo e filmando Davide che posa la sedia tra i peperoncini fradici, affermando di sentirsi come a casaSiamo al centro di una piccola pianura, ma intorno a noi le montagne chiudono ogni varco. Cielo bagnato e nuvole che salgono le chine rapide. Massimo – il regista – cattura tutto, anche di più. Frammenti che in gergo chiamiamo fegatelli e che spesso dicono più delle parole. Ma il vero colpo di genio arriva quando il cielo improvvisamente si apre e noi raggiungiamo il poligono militare alla base del Monte Amariana. Una cresta piramidale, con una vasta distesa di rocce bianche che attraversa, come una colata di candida lava, un bosco di alberi radi a basso fusto. In sottofondo, i colpi delle esercitazioni. Un paesaggio lunare, ipnotico, che racchiude il carattere della Carnia: durezza severa da un lato, tenacia quieta dall’altro; capacità di dialogare con la sofferenza per poi sorridere del riscatto. I colpi di mortaio scuotono le viscere e ci ricordano la guerra, che qui si è combattuta più che altrove. In questi lembi d’Italia, la terra ricopre le nostre radici.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Prima però torniamo rapidamente a Tolmezzo per restituire il gazebo, gustare al volo un’ultima fetta di frant con la gelatina piccante e salutare Pietro e Marco. Ma l’ospitalità friulana è come la nebbia: nemica della fretta. Ci aspettano tutti al ristorante, per stappare del vino e mangiare la torta che hanno preparato mentre eravamo al lavoro nei campi.

Venite anche voi a Tolmezzo, in Carnia; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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La toma dei Walser.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Gressoney, il paesaggio la Valle del Lys. Le coordinate geografiche sono 45°46’ Nord e 7°49’ Est.

Partiamo al mattino presto dal Forte di Bard, che è ormai diventato il nostro punto di riferimento per le escursioni in Valle. Bastioni severi, pietra che sembra sbalzata dalla roccia: uno straordinario motore culturale racchiuso in una fortezza dal fascino austero, quasi severo. Al Forte si respira aria buona, la stessa freschezza che accompagna la libertà di pensiero; queste mura sanno ospitare le idee e gli stili più diversi, offrendo in ogni periodo dell’anno una molteplicità di stimoli che sono un vero nutrimento.

La salita verso la cima del monte fa tappa a Gressoney Saint-Jean, nel cuore della valle del Lys e della cultura Walser. Per noi oggi è solo un luogo di passaggio, una specie di campo base da cui partire per raggiungere gli alpeggi del Loo. Lassù conosceremo Simone, un giovane che sta tenacemente praticando la pastorizia d’alta quota, come facevano i suoi antenati Walser. Le abitazioni tipiche in legno e pietra, con gli stemmi dipinti sui balconi fioriti, fanno da sfondo alle prime inquadrature. Poi le attrezzature salgono sull’elicottero. Anche Davide monta sul Koala, seguito dal resto della troupe. Io invece mi accorgo di aver dimenticato i calzoncini. Così indosso i bermuda del pigiama, allaccio le scarpe e comincio a correre lungo il sentiero. Dopo meno di un’ora sono in cima, in un pianoro sospeso che chiamano La valle dei principi. Un luogo di una bellezza struggente; ma non è l’alpeggio del Loo.

La montagna ha sempre qualcosa da insegnare. Volevo salire in fretta, quasi fare a gara con l’elicottero. E invece eccomi lì, a camminare avanti e indietro, alla ricerca del sentiero che non c’è. Credo che la lezione di oggi sia legata ai concetti di tempo e di attenzione da dedicare alle cose. Così comincio a scendere, sempre cercando un collegamento con l’altra valle, ma assaporando ogni passo. Incontro le case dei pastori, i caprioli che mi girano intorno senza lasciarsi avvicinare, le marmotte che fischiano, l’acqua che sgorga e scorre. Ritorno a Gressoney, imbocco il sentiero giusto e ricomincio a salire.

Il vallone del Loo ha un aspetto aspro e delicato al tempo stesso, incassato tra due pareti di montagna: da un lato il verde di pascoli, dall’altro il grigio delle rocce e dei sassi che rotolano verso il torrente. Un lieve declivio sospeso a duemila metri di altezza, con un primo villaggio da cui parte un sentiero delimitato da una coppia di muretti in pietra. In alto le baite che i Walser hanno costruito nel corso dei secoli, attorno a una cappelletta del Cinquecento. Un villaggio dove almeno una quarantina di persone potrebbero vivere e fare famiglia; invece c’è solo Simonecon la madre e il padre. Oggi però ci siamo anche noi. La montagna sembra sempre perfetta a chi la guarda dal basso, con il distacco di chi vive altrove: una sorta di dono della natura. Invece è la mano dell’uomo che la modella e la cura, pulendo i boschi, tagliando il legname, mantenendo i pascoli, tracciando i sentieri. Veri e propri manufatti che tutelano il territorio. Realizzati da persone rare. Come dice Davide: beni culturali viventi. Simone è uno di loro. Qui negli alpeggi del Loo, sulle pendici del Monte Rosa, produce la toma di Gressoneyil formaggio tipico della comunità Walser.

I Walser sono una popolazione di origine alemanna, che si è spostata in queste valli in epoca medievale, quando il riscaldamento della terra ha reso accessibili alcuni passi alpini, prima impraticabili. La capacità dei Walser di abitare e bonificare le zone di montagna più alte e impervie è da sempre straordinaria. La compattezza culturale della popolazione è fortissima, quasi sacra. Ha mantenuto con orgoglio la lingua, le architetture, i costumi, le tradizioni. La toma di Gressoney racchiude tutti i sapori e i valori della cultura Walser. È un formaggio a latte crudo, che Simone realizza per uso familiare esattamente come faceva il nonno quando era bambino.

Il latte delle due mungiture viene miscelato e raffreddato con acqua di sorgente. Dopo la scrematura, la cagliata viene lavorata finemente e poi scaldata al fuoco di legna. Le forme, una volta nelle fascere, stagionano in grotta su assi di abete e vengono pulite e salate ogni tre giorni.

Simone mostra a Davide come si raccoglie a mano il formaggio sul fondo del paiolo, per poi estrarlo e metterlo in forma. Prima però bisogna assaggiarlo. La pasta è morbidaleggermente granulosa. Trasuda latte ed è elastica. Dolcissima.
– La senti sotto i denti? – domanda Simone – Quando fa così, il nonno diceva che era buona.
Poi un gesto rapido, preciso. La massa morbida vola dal rame della pentola al legno della fascera, avvolta in un telo grezzo pulito.
Adesso bisogna metterla sotto un peso, per togliere il residuo di latte. Simone usa un ingegnoso sistema di leve in legno. Quasi timidamente, con molto rispetto, Davide impugna il braccio della leva e accenna a togliere il fermo.
– Posso fare io? – domanda
– Certo – risponde Simone – Fai con comodo, non c’è fretta.
Davide libera il braccio della macchina e guida il legno sulla toma nella fascera. È troppo corto. Simone misura a occhio lo spazio, si china sotto il banco e prende alcuni spessori di legno. Davide rimane immobile con le mani sospese, ferme sulla leva, come se fossero gli ingranaggi di un orologio e lui stesse fermando il tempo. Un istante magico; il tempo sembra davvero essersi fermato, mentre la pioggia comincia a battere sul tetto della baita.

Il sole della mattina è diventato un violento temporale, e noi dobbiamo ancora filmare molte scene in esterni. Massimo – il nostro regista – ci ordina di uscire, mentre Marco, l’operatore, avvolge nella plastica la telecamera. Raggiungiamo un pianoro sopraelevato, un punto di vista privilegiato sulla valle e il villaggio. La pioggia è sempre battente e la grandine non dà tregua. Ma nessuno di noi cerca un riparo. Gli animali ci raggiungono incuriositi e noi restiamo lì, a fare il nostro mestiere. La forza del gruppo è contagiosa. Stiamo registrando immagini suggestive, con il ghiaccio che rimbalza sulla schiena delle vacche e sulla fronte di Davide, il quale giura di sentirsi come a casa.

Dopo un po’ arriva dal pascolo anche il padre di Simone, con i vitelli. Il cane ha il pelo zuppo d’acqua, ma per lui è una giornata come un’altra. Si avvicina scodinzolando a Davide. Gli poggia il muso sulle ginocchia. Davide lo accarezza, come accarezzava Pongo tanti anni fa.
– Sei un bravo cane – dice – Proprio un bravo cane…
Abbiamo quasi finito. Il cielo si apre di nuovo mentre scendiamo con Simone nella grotta di stagionatura. Sulle assi di abete mettiamo le due tome prodotte oggi. Un’altra spruzzata di sale e poi via, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi, facendo attenzione a non mettere i piedi nell’acqua di sorgente che scorre al centro della baita per mantenere costanti la temperatura e l’umidità.

Bene, ora è tempo di andare.

Venite anche voi a Gressoney, nella Valle del Lys e sulle montagne dei Walser, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Le bollicine del Friuli.

Oggi siamo in Friuli Venezia-Giulia. Il paese è Corno di Rosazzo, il paesaggio i Colli orientali del Friuli. Le coordinate geografiche sono 45°59’ Nord e 13°26’ Est.

Eravamo già stati qui la scorsa stagione per conoscere le tecniche di potatura di Marco e della sua squadra dipreparatori d’uva. La loro scuola si rifà a insegnamenti antichi e si basa su un’attenta osservazione della vite, per poi praticare tagli piccoli e non invasivi, che non interrompano il flusso linfatico. La sera prima delle riprese avevamo cenato con Manlio, uno dei più importanti viticoltori dei Colli orientali.
– Ragazzi in gamba, – aveva detto il grande vignaiolo, a proposito dei giovani preparatori d’uva di Corno di Rosazzo.
– Idee interessanti…
Poi avevamo parlato dei suoi vini: Merlot, Chardonnay, Pinot grigio, Sauvignon, ma
soprattutto Ribolla gialla, il vitigno autoctono che Manlio ha trasformato in un
sorprendente brutil simbolo stesso delle bollicine friulane.

Ma andiamo con ordine. Prima di tutto il viaggio. Anche questo è una sorta di flash back che ci riporta alla scorsa stagione di Paesi, paesaggi. Era una notte scura di pioggia e vento freddo; venivamo dalla Carnia. Eravamo stati a Tarvisio, nelle cave del Predil, dove Sante stagiona i suoi caprini a crosta lavata. Allora andavamo di fretta perché avevamo appuntamento proprio con Manlio, che ci aspettava paziente nella sua cucina, una delle più belle di tutto il Friuli.

Anche adesso andiamo di fretta. È sempre Manlio che ci aspetta paziente, ma non per cenare. Prima che faccia buio dobbiamo registrare una parte della puntata dedicata a lui e alla sua Ribolla gialla brut: tutte le battute in esterni di Davide, gli interni in cantina e le scene di degustazione. Quando arriviamo abbiamo i minuti contati. Giriamo intorno a Corno di Rosazzo alla ricerca di un evanescente centro storico che ricordavamo male. Ci fermiamo tra la chiesa e il Comune, dove un muro in pietra disegna una curva morbida verso le vigne. Il cielo si apre e ci regala l’ultima mezz’ora di luce; intensa e lieve al tempo stesso. I direttori della fotografia la chiamano luce a cavallo. Struggente e sfuggente. Non c’è tempo da perdere: il vento in quota fa correre le nuvole che s’inseguono attorno a quel che resta del sole. Sono bizzarre e imprevedibili, basta un istante perché la magia della luce si spenga e il paesaggio diventi scuro.

Davide è concentratissimo e non sbaglia una battuta. Massimo – il nostro regista – è soddisfatto. Dice sempre: «Buona la prima!» e effettivamente non rifacciamo niente. Dopo pochi minuti siamo di nuovo in macchina. Due curve, un breve rettilineo e eccoci nella corte del castello Zucco-Cuccanea, la dimora cinquecentesca che oggi è diventata la casa e l’azienda di Manlio e della sua famiglia. L’anno scorso, questa corte quadrata con un prato perfettamente rasato e un grande albero al centro era sferzata dalla pioggia e dal vento. Di notte l’avevo attraversata a capo chino con le spalle ingobbite per raggiungere il più velocemente possibile la cucina più bella del Friuli. Adesso che il vapore acqueo rende il paesaggio nitido e brillante, Davide avanza con passo deciso, la sedia in spalla, l’ombrello chiuso sottobraccio. Si ferma al centro del prato, posa la sedia accanto al grande albero, si siede e con aria serena esclama: «Qui mi sento come a casa!» Dice sempre così. Oggi, però, non fatico a credere che si senta davvero «come a casa».

Il castello Zucco-Cuccanea risale al Cinquecento. Manlio vi si è trasferito alla meta’
degli anni sessanta, ma l’azienda di famiglia era nata con il nonno Eugenio – nel 1896 – a
Rivignano.
– Era stato il nonno a trasmettermi la passione per il vino, – racconta Manlio.
– Era un personaggio di grande fascino, che amava la terra e l’uva. Gli piaceva condividere con me queste passioni.
– Faceva già una produzione di qualità?
Manlio sorride e scrolla le spalle. È un uomo alto, distinto, un vero gentiluomo di campagna.
– Faceva lo champagne! – esclama.
– Champagne?
– Lui lo chiamava così. Gli piacevano le bollicine, ma non sapeva come fare. Così metteva nel vino quella polverina che andava di moda allora per rendere frizzante l’acqua del rubinetto. Ma lei è troppo giovane, non se la ricorda…
– Giovane io? Diceva l’oste al vino: «tu mi diventi vecchio, ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio». Rispose il vino all’oste: «fai le pubblicazioni, sposo l’Idrolitina del cavalier Gazzoni!»
Ridiamo al pensiero dello champagne del nonno Eugenio. Sono passate tre generazioni
e Manlio ha trasmesso quella stessa passione ai figli. Oggi la sua azienda è una delle più importanti e prestigiose della regione: è stato uno dei primi a portare i vini friulani nel mondo.

Ma il nonno Eugenio non gli aveva trasmesso solo la passione per la campagna e per il
vino. L’idea delle bollicine gli era sempre rimasta in testa. Fu Gaetano Perusini, una quarantina di anni fa, a parlargli delle qualità della Ribolla gialla e della naturale inclinazione di questo vitigno a diventare uno spumante di qualità. Perusini era un uomo di grande cultura, una figura centrale dell’enologia friulana: ricercatore, storico, docente universitario, vignaiolo, enologo, ampelografo. Un personaggio d’altri tempi, che aveva il senso del tutto.
– Perusini era convinto che la Ribolla gialla fosse il vitigno ideale per diventare uno spumante, – spiega Manlio.
– Il simbolo delle bollicine friulane?
– Proprio così. Dalle ricerche dello stesso Perusini era emerso il primo documento ufficiale riferito alla Ribolla in Friuli, che risaliva addirittura al 1298.

La Ribolla gialla è un vitigno difficile, tardivo, poco alcolico e lievemente acidulo.
Spesso occorre vendemmiarlo ancora acerbo, prima delle piogge autunnali, raccogliendolo a mano al mattino dopo che la brezza ha asciugato l’umidità della notte. La Ribolla gialla brutera un sogno e una sfida. Ci sono voluti anni di prove e tentativi, prima con il metodo classico, poi con il Martinotti-Charmat. Infine la soluzione: bisognava lavorare la Ribolla gialla come fosse Champagne. Tempi lunghissimi di fermentazione, in acciaio e in barriques, poi un lento affinamento in bottiglia per togliere ogni traccia residua di legno. Il metodo di Manlio – una personale rivisitazione del Martinotti-Charmat – ha fatto scuola e insegna il valore del tempo: per gustare la sua Ribolla gialla brut, dalla vendemmia al flute, passano almeno quattro anni.

Davide e Manlio scendono in cantina e raggiungono la sala che presto diventerà un
ristorante. Soffitto in legno con travi a vista, vecchi torchi disposti accanto alle pareti e
sullo sfondo una composizione di antiche botti.
– Lì dietro ci saranno le cucine, – spiega Manlio a Davide, mentre stappa con misurato
orgoglio una bottiglia della sua Ribolla gialla brut. Poi brindano, come sanno fare loro. Gente con il senso del tutto, capace di vedere in un bicchiere di vino cose che ad altri sfuggono.

Il vino, diceva Soldati, è la poesia della terra.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite nei Colli orientali del Friuli, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Tre giorni del gusto al Castello di Masino.

Il Fai – Fondo Ambiente Italiano – ha organizzato presso il Castello di Masino la prima “Tre giorni del gusto” con tutti i produttori di “Paesi, paesaggi”.  È stato un grande successo, grazie anche al clima molto favorevole.
Oltre cinquemila visitatori tra venerdì 25 settembre e domenica 27.
Molto pubblico anche alla presentazione del libro.

Ne abbiamo approfittato per girare la prima puntata della terza stagione.
Trasmissione freschissima, tutta di giornata: venerdì mattina le riprese, il montaggio nel pomeriggio presso la caffetteria del castello e poi in onda la sera. È iniziato un nuovo viaggio alla ricerca della qualità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Presentazione al forte di Bard

Venerdì sera presentiamo il libro al Forte di Bard.
Appuntamento alle ore 21.00 con Antonio Ricci, Davide Rampello e il sottoscritto.
Gabriele Accornero, direttore del forte, modera l’incontro.

“Paesi, paesaggi”: dalla tv al libro.

Eccoci, finalmente “Paesi, paesaggi” diventa libro.
È appena uscito il primo volume della collana.
Ne parliamo in anteprima al Bordighera book festival il 6 settembre, ore 17.30
Ci sarà anche Lorenzo Beccati con il suo nuovo romanzo e tanti amici di Striscia.

 

Le camicie di Ginosa.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Ginosa, il paesaggio quello delle Gravine. Le coordinate geografiche sono 40°34’ Nord e 16°45’ Est.

Partiamo nel tardo pomeriggio da Roseto Capo Spulico e percorriamo la statale SS106, la grande arteria litoranea che ci riporta verso Taranto. Anche ieri eravamo qui, però sull’altro lato della strada: da una parte c’era l’interno, nascosto nella notte, dall’altra il mare, squarciato dai lampi. Tutto molto bello e suggestivo. Oggi, in piena luce, la scena è ribaltata e il paesaggio che si distende attorno alla costa sembra espandersi, come per sfuggire alla vista e svanire oltre la linea di un orizzonte piatto e circolare.

Guido piano, dietro l’auto di Massimo, il nostro regista. Squilla il telefono. È Davide, al volante della macchina alla mie spalle. Lo inquadro nello specchietto retrovisore mentre mi parla.
– Hai visto?
– Sto vedendo.
– Questo fa l’uomo quando non ha cuore per i suoi luoghi.
– Non c’è rispetto.
– Manca il cuore.
Mette giù. La voce bassa per il raffreddore, il tono dimesso per la sottile amarezza. Continuiamo a guidare in fila indiana, scorrendo abitazioni, alberghi e capannoni: una distesa illogica di costruzioni che sembrano pugni nel ventre di un paesaggio immobile che tace, incassa e resta all’angolo, ripiegato su se stesso senza reagire. Quando lo farà, sarà alla sua maniera, violenta e inappellabile. Funziona sempre così, fin dall’antichità.

Poi, a un tratto, tutto cambia. Il territorio inizia a muoversi scosso dalle prime colline; a poco a poco sparisce il rumore del cemento e inizia la musica dell’ambiente. La mano dell’uomo è sempre presente, ma adesso organizza, crea e accompagna invece di distruggere. Una musica, appunto. Tutto diventa nitido e preciso, abbellito dalla luce radente del tramonto che scivola giù dai rilievi e accarezza i terreni. Massimo si ferma di colpo a lato della via. Vuole filmare un passaggio di Davide con la sedia mentre attraversa un campo di carciofi. Non utilizzerà mai questa scena, ma è bella e deve essere registrata.

Quando infine arriviamo a Ginosa e camminiamo sull’orlo della gravina è di nuovo buio. Così, scegliamo un posto dove mangiare e conserviamo per l’indomani la sorpresa del luogo. A prima vista Ginosa potrebbe assomigliare a Matera, invece è diversa, più lieve e selvatica. La gravina è anche qui una spaccatura nella montagna che circonda l’abitato e lo protegge come il fossato di un castello medievale. Però è meno profonda ed è sempre stata abitata. Dal fondo della gola fino al cielo è tutto un susseguirsi di case e grotte scavate nella roccia, orti strappati alla montagna, capre al pascolo e cespugli di piante spontanee. In fondo alla scarpata il fiume, secco d’estate e gonfio d’inverno. In alto, sull’altipiano, campi di cereali, frutteti, olivi e vigne. Il centro storico di Ginosa, visto da lontano, è di un bianco abbagliante. Ti avvicini e scopri che è in gran parte chiuso, con abitazioni abbandonate e strade sbarrate dopo l’alluvione. Davide avanza con la sedia in spalla percorrendo una ripida discesa. Il luogo è affascinante, sembra un campo che attende di essere coltivato: case e grotte che si compenetrano, vicoli erti annodati attorno alla Chiesa Madre, paesaggi sospesi che si aprono all’improvviso sulla gravina. Un mondo tutto da scoprire, restaurare e valorizzare, l’ennesimo patrimonio italiano dell’umanità. Mettiamo la sedia di Davide su un piccolo terrapieno che si affaccia sul versante nord della gravina. Il borgo alle nostre spalle sembra un presepe, la raffigurazione possibile di un sogno di armonia e equilibrio.

Angelo, il protagonista della puntata, è il sarto di Ginosa. Non potrebbe esserci persona migliore di lui per raccontare questo sogno. I vecchi sarti, per prendere le misure abbracciavano le persone. Anche Angelo fa così con la sua terra e riesce a cucirla nelle sue camicie. Passione, amore e alcune scelte radicali sono alla base della sua vita. La nonna cuciva a mano, e così il padre all’inizio dell’attività. Poi, sul finire del secolo scorso, arrivarono le macchine e l’illusione dei grandi numeri. Angelo, per fare un passo avanti e andare nel futuro, fece un passo indietro e guardò al passato. Ricominciò a fare tutto a mano, liberando la fantasia e concentrando il lavoro sulla punta delle dita, sfiorando i tessuti e maneggiando scaglie di gesso, forbici, ago e filo. Scoprì che ogni punto era il brano di un racconto; ogni passaggio del filo nel tessuto cuciva una storia, rammendava l’identità del luogo.

Angelo produce soprattutto camicie, con venticinque passaggi a mano e trenta ore di lavoroper ciascuna. Le indossano grandi attori, principi e primi ministri di tutto il mondo, ma anche tanta gente comune, persone che cercano se stesse indossando Ginosa e la sua gravina. Angelo potrebbe fare il sarto ovunque, nelle capitali della moda in Europa, America e Oriente; invece rimane qui, a restaurare un edificio del centro storico dove trasferirà la sartoria. Sta appunto rammendando il territorio, dando vita a un progetto che chiama di turismo sartoriale; in sintesi, chiede ai clienti di venire qui a scegliere i propri capi, perché sia Ginosa a prendere le loro misure. Una camicia può essere un pezzo di stoffa sulla pelle, oppure una voce, il canto di un luogo che svela se stesso. Un modello di qualità, come i quadri del Rinascimento, dove niente veniva dipinto per caso e ogni dettaglio aveva un significato. Angelo sta facendo con l’abbigliamento ciò che è stato fatto con il cibo: localizzazione delle materie prime, lavorazioni manuali e recupero delle tradizioni. Come dicevamo, al classico capannone ha sostituito il recupero minuzioso di un edificio del centro storico, al posto delle linee industriali ha messo vecchie macchine per cucire che accompagnano il lavoro delle mani e della mente. Non insegue il miraggio del fatturato ma ricerca la solidità di un’azienda etica. Sta costruendo un atelier dove sia bello vivere e lavorare: un luogo da indossare come un abito su misura.

Lavorando con un profumiere ha realizzato un’essenza particolare a base di mentagelsomino e fiore di cappero: piante selvatiche della gravina con cui profuma tutti i suoi capi. La lana delle sue giacche, realizzate come reinterpretazione di quelle da lavoro in campagna, proviene da pecore locali, mentre il cotone e la canapa sono di piccole piantagioni delle Murge. Questa è l’arte del rammendo, la capacità di compiere piccoli gesti significativi, costituendo una rete di eccellenze locali che dialoghino tra loro e si valorizzino a vicenda, per andare oltre i limiti dei propri confini. Esportare il prodotto tradizionale e farlo apprezzare nel mondo è lo scopo di quest’impresa audace, fatta di slancio e coraggio da un lato, dedizione e tenacia dall’altro: una specie di missione, non imposta da alcuno, tranne che da se stessi. Anche questa – come dice Davide – è l’Italia della qualità, l’Italia che vogliamo.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Ginosa e nella sua gravina; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Rosario e le rose di Rosetum.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Roseto Capo Spulico, il paesaggio l’alto Ionio cosentino. Le coordinate geografiche sono 39°59’ Nord e 16°36’ Est.

Atterriamo a Bari e attraversiamo nella notte la distesa di cereali che circonda Altamura, poi la gravina scoscesa di Matera e i valloni morbidi e pietrosi di Ginosa. Dopo Taranto, costeggiamo lo Ionio in direzione di Reggio Calabria. Davide è rimasto a Milano, bloccato dall’acquazzone che ha messo in ginocchio gli aeroporti del nord. Anche qui al sud il tempo non è bello. Il cielo è gonfio di nuvole e i lampi accendono sul mare improvvisi squarci di luce.

Questa è l’ultima trasferta della stagione di Paesi, paesaggi. La settimana scorsa eravamo in Valle d’Aosta, oggi siamo in Calabria. Sembra un finale fatto apposta per racchiudere il senso del viaggio; un continuo spostarsi senza meta definitiva, attratti solo dalla ricerca della qualità e della bellezza: il valore delle persone, l’armonia dei luoghi, l’intensità del lavoro.

Pochi centimetri separano la testa e il cuore della gente: una distanza per molti infinita. I protagonisti di Paesi, paesaggihanno invece la testa compenetrata nel cuore: sono ostinati e tenaci, capaci di volare alto tenendo i piedi ben saldi a terra. Spesso depositari di saperi antichi, hanno la capacità di rendere attuali le cose del passato. Li guardi e non li vedi, mimetizzati nei loro ambienti: artigiani, agricoltori, allevatori e pescatori che diventano alberi, grano, reti e pascoli. Addirittura rose.

La storia che vogliamo raccontare qui a Roseto Capo Spulico parla proprio di rose e di una coltivazione che dalla Magna Grecia si è tramandata come un culto fino a tutto il Medio Evo. Gli antichi amavano le rose e le consideravano simboli di perfezione. Colori, profumi e proprietà benefiche: doni divini che qui a Roseto si sono perduti tra le pieghe di una modernità frettolosa, distante dagli esseri umani e dal loro bisogno di equilibrio.

Rosario, il protagonista della puntata, ha scoperto quasi per caso l’esistenza di Roseto Capo Spulico, del suo castello federiciano e delle rose amate dalle principesse di Sibari. Mi viene incontro sul ciglio della strada. Lo illumino con i fari mentre solleva il braccio per farmi segno di accostare. Vedo che ha tagliato i capelli, il ciuffo biondo e i baffi sottili di quando faceva l’assistente di volo e passeggiava tra le nuvole, in bilico sulle latitudini del mondo. Ogni giorno un paese diverso, incontri rapidi e pasti mal digeriti. Molto movimento e nessuna direzione, piuttosto un senso di crescente insoddisfazione. Quando ha saputo di Roseto Capo Spulico si è licenziato ed è venuto a vivere qui, all’ombra del castello di Federico II di Svevia, per ridare vita alle rose degli Achei che nessuno coltivava più. Ha smesso di volare e ha finalmente staccato la propria ombra da terra.

Iniziamo le riprese nel castello, costruito come il prolungamento naturale della roccia che affiora dal mare. Federico II ne era rimasto affascinato e l’aveva requisito ai cavalieri Templari dopo la VI crociata. In origine era stato un edificio religioso, probabilmente un monastero, poi i Normanni lo avevano trasformato nel castrum Petrae Roseti. Ciò che vediamo oggi, al termine di un lungo intervento di restauro, è un frammento intatto di cultura medievale, un monumento che dopo aver viaggiato nel tempo restituisce l’antica ossessione del simbolo e della ricerca della verità. Il castello è ancora oggi ricchissimo di segni. Alcuni molto evidenti, come la rosa scolpita sul portale d’ingresso; altri meno leggibili, come il sigillo di Salomone nascosto tra le pietre di un pavimento del secondo piano; ma il fascino di questo luogo è nella sua tensione mistica, nel richiamo di ciò che i sensi percepiscono e la mente non riesce a spiegare.

Lasciamo il castello e ci dirigiamo verso il terreno di Rosario: sei ettari di rose e sogni che sovrastano la costa ionica. Il campo è ben dissodato e il roseto accuratamente delimitato. Il progetto, che si chiama Rosetum, sta prendendo corpo e noi lo stiamo filmando. Le prime rose sono già a dimora e nei prossimi mesi si susseguiranno le fioriture. Poi la raccolta dei petali e le lavorazioni in un laboratorio che sorgerà assieme all’abitazione sui resti di un’antica casa colonica. Rosario ci mostra una vasca in pietra immersa nella macchia mediterranea.
– Un abbeveratoio? – chiedo.
– Una vasca di purificazione dei Templari.
– Ah.

Sullo sfondo il mare è mosso, il cielo in fermento. Un’instabilità meteorologica che aggiunge fascino al luogo e ci regala una buona luce per le riprese.
– Ecco – dice Rosario – in questo punto preciso la bussola impazzisce. Perde il nord magnetico e indica una direzione verso sud est.
– Ci sarà del ferro nel terreno.
– Se tracci una retta con questa inclinazione, traguardi il castello di Federico II e arrivi a Gerusalemme.
– Ah
Rosario si allontana. Io resto ancora un po’ a guardare il mare, oltre la vasca in pietra immersa nel bosco. Seguo una linea immaginaria che oltrepassa il castello e prosegue verso sud, dove nascono le onde.
Massimo – il nostro regista – mi chiama e lo raggiungo presso i ruderi della casa colonica. Per dare concretezza al sogno di Rosario, posizioniamo un vetro davanti alla telecamera e chiediamo a Paolo – l’architetto che sta curando il progetto di Rosetum – di disegnare le future linee dell’edificio. Nel monitor vediamo la sua mano e il pennarello che ondeggiano nell’aria e prolungano le fughe di pietre cadenti e muri pericolanti: tratti che si organizzano in un insieme omogeneo, prendono forma e diventano progetto.

Rosetum non sarà solo un’impresa di agricoltura biodinamica, ma anche uno spazio didattico e ricreativo, un luogo aperto al pubblico e alle scuole, con percorsi naturalistici accessibili anche ai disabili. L’idea è che i profumi e i colori di Roseto Capo Spulico tornino a essere quelli delle sue rose. Infine allestiamo un set all’aperto dove simuliamo le lavorazioni dei fiori. Processi di trasformazione lunghi e laboriosi che noi accenniamo soltanto, impiegando strumenti antichi come una pentola di rame per l’infusione dei petali, un imbuto per l’olio essenziale, un mortaio, un setaccio, teli di garza e flaconi di vetro. È davvero infinita la varietà di prodotti che si possono ottenere dalla lavorazione delle rose: creme, profumi, unguenti, saponi, tinture e oli tutti nati da processi che Rosario dovrà approfondire alla scuola dei maestri. Ciò che sta iniziando a fare adesso, probabilmente farà per tutta la vita. Studierà, ascolterà, domanderà e proverà; ciò che gli auguriamo, è di non smettere mai di imparare.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite in Calabria, a Roseto Capo Spulico; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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