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Le terre d’acqua del riso.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Vercelli, il paesaggio le terre d’acqua del riso. Le coordinate geografiche sono 45°19’ Nord e 8°25’ Est.

Vercelli è una città di origini antichissime, addirittura celtiche, ma è conosciuta in tutto il mondo per la produzione di riso. Questo paesaggio unico al mondo è stato modellato dalla fatica e dall’ingegno degli uomini che hanno realizzato il mare a quadretti delle nostre risaie: migliaia d’ettari di terreno allagati d’acqua in continuo scorrimento e sommersione.

Arriviamo al mattino presto in piazza Cavour. Giusto il tempo di un caffè nello storico bar del centro e apriamo la valigetta del drone. Massimo – il nostro regista – ha in mente una sequenza molto particolare per presentare al pubblico il primo protagonista della puntata: Camillo Benso, conte di Cavour. La piazza è ancora deserta. Qualche ragazzo cammina lentamente verso la scuola con lo zaino sulle spalle e sbircia con discrezione le nostre azioni. Un paio di anziani si avvicinano spingendo la bicicletta. Riconoscono Davide e gli fanno i complimenti per la trasmissione, mentre il piccolo drone spicca il volo e sale altissimo sulla città. Poi l’operatore lo fa scendere rapidamente e come un rapace gli fa descrivere una serie di cerchi concentrici attorno alla statua di Cavour. Quando l’apparecchio è all’altezza del volto del conte, entra in campo Davide con la sedia in spalla.

«Vi presento Cavour, – dice il nostro inviato, – che alla metà dell’Ottocento diede un impulso straordinario a questo territorio».

Siamo nella più vasta area di produzione del riso in Europa. Qui l’acqua è al centro della comunità. Cavour potenziò con un’opera colossale la rete d’irrigazione che era stata iniziata addirittura nel Trecento. Il Canale Cavour è lungo 90 chilometri, nasce nel Po e sfocia nel Ticino, prende l’acqua dalle sorgenti, la porta nelle risaie e la restituisce ai fiumi. Un sistema complesso di ingegneria, idraulica, meccanica, ma anche passione ed esperienza.

Per comprendere il senso di questo immenso progetto, dobbiamo risalire alle sue origini. Lasciamo quindi la città e ci dirigiamo verso Chivasso, dove sorge la monumentale presa del canale. L’edificio in mattoni rossi assomiglia a una centrale idroelettrica valdostana, con una lunga serie di paratie comandate da un articolato sistema idraulico.

«Ecco, qui mi sento come a casa!» esclama Davide, posando la sedia sul prato a lato dell’argine, con il basso continuo dell’acqua che mormora accanto a lui.

Con noi c’è Ottavio. È il presidente dell’Associazione di irrigazione Ovest Sesia, ma è anche un agricoltore che si dedica fin da bambino alla coltivazione del riso. La sua famiglia vive con i piedi nell’acqua da quattro generazioni. Conosce ogni metro di questa terra anfibia. La sua storia racchiude l’unicità del territorio, dove l’acqua è un bene comune che viene gestito direttamente dagli agricoltori. Insieme a lui torniamo nella sede dell’Associazione di irrigazione a Vercelli, dove nacque per la prima volta nella storia una società di gestione delle acque governata dagli agricoltori.

Il 7 maggio 1853, il conte Cavour – allora presidente del Consiglio – presentò alla Camera il progetto di legge costitutivo dell’associazione di tutti i proprietari dei beni rurali a ovest del Sesia. Concluse il suo discorso con queste parole:

«L’esperimento a cui prendono parte 3500 agricoltori riuniti in associazione, voi dovete approvarlo, non solo in vista dei vantaggi economici e finanziari che esso reca, ma altresì perché è un grande fatto, un fatto nuovo, non solo in questo paese, ma oserei dire in tutta Europa, atteso che questa sarebbe la più larga applicazione dello spirito di associazione che si sia fatto in agricoltura..»

Ma come era nata l’idea di costruire il canale? La pianura sembrava piatta a tutti tranne che a un agricoltore colto e sapiente, coraggioso e determinato. Si chiamava Francesco Rossi ed era il fattore di Cavour. A proprie spese, per quattro anni, misurò palmo a palmo il territorio e scoprì che tra il Po e l’incrocio con il Sesia esisteva un dislivello di 24 metri e 80 centimetri. Un’inezia, capace di portare nelle risaie 100.000 litri d’acqua al secondo. Il Canale Cavour alimenta un sistema di irrigazione senza eguali in Europa. Oltre 9000 chilometri nel solo vercellese, con milioni di metri cubi d’acqua in continuo movimento, governati da un centinaio di acquaioli che regolano ogni giorno i flussi per dare l’acqua che serve a chi serve e dove serve, a seconda delle necessità di ciascun agricoltore.

Il canale Cavour sfrutta quella pendenza ed è stato realizzato a braccia e badile in soli tre anni, da 15.000 uomini che hanno costruito anche ponti, strade, canali, edifici. Meno di tre anni e una fatica incalcolabile per creare una delle principali infrastrutture idrauliche in Italia e in Europa.

L’Associazione di irrigazione riunisce oggi 4000 aziende agricole disseminate su 100.000 ettari di terreno. I canali si aprono a marzo e restano in attività fino a settembre. Un sistema affascinante e complesso, che richiede una continua regolazione del flusso delle acque; la ricerca di un equilibrio dinamico, in un ambiente grandioso, creato dall’uomo in accordo con la natura.

Nell’acqua delle risaie, il seme cresce come in un grembo materno. Ottavio è anche presidente di una cooperativa sardo-piemontese di risicoltori. Una realtà d’eccellenza, nata nel 1978 come centro di studio e selezione delle sementi. Quasi quarant’anni di attività hanno portato alla creazione di nuovi risi italiani – no OGM – di altissima qualità, che garantiscono maggiore resistenza naturale alle malattie, massima produttività e rispetto dell’ambiente. Ogni chicco racchiude un patrimonio di conoscenze e la garanzia di un riso nato, coltivato, lavorato e confezionato esclusivamente in Italia.

L’ultima tappa del nostro viaggio è dunque alla scoperta di questi nuovi risi italiani e del loro sapore. Il luogo giusto è la cucina dei fratelli Costardi, i giovani chef stellati che hanno reinventato l’insalata mediterranea di riso in una lattina simile a quella della zuppa Campbell, opportunamente rivisitata e personalizzata.

Venere nero ed Ermes rosso sono gli integrali aromatici, ideali in cucina nelle più diverse preparazioni, anche le più creative. Apollo è la risposta agli esotici Basmati e Jasmine; poi Cerere e Carnise, speciali per i risotti. Ogni esigenza alimentare ha il proprio riso; ogni ricetta diventa possibile e porta sulla tavola un mondo di sapori, salute e nutrimento, naturalmente senza glutine.

«Pensate che il riso è il cereale che sfama più della metà della popolazione mondiale, – conclude Davide, – e noi italiani siamo i primi produttori europei. Questa è l’Italia della qualità!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Vercelli, nella terra del riso; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le capre camosciate del Monferrato.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Capriglio, il paesaggio le colline del Monferrato. Le coordinate geografiche sono 45° Nord e 8° Est.

Ci troviamo a meno di trenta chilometri da Asti, in un piccolo borgo circondato di colline, boschi e corsi d’acqua. È la prima volta – in tre stagioni di Paesi, paesaggi – che capitiamo in un luogo dalle coordinate geografiche così esatte. Niente minuti primi né decimali, solo gradi: quarantacinque gradi Nord e otto gradi Est. Siamo esattamente tra il Polo Nord e l’Equatore: il punto d’equilibrio dove un paio di secoli fa è vissuto don Bosco.

Iniziamo le riprese proprio visitando il museo di mamma Margherita, la madre di don Giovanni Bosco, nato nel 1815 in un paesino qui accanto. L’ex sindaco di Capriglio lo custodisce con cura, come un gioiello di storia della comunità. La vita di don Bosco e di sua madre sono esemplari: racchiudono tanti scorci delle nostre radici contadine. Storie di tenace determinazione e paziente sopportazione. Margherita era una giovane donna, rimasta presto vedova, capace di coltivare campi e allevare figli, incoraggiare vocazioni e fortificare personalità. Nel museo di Capriglio ci sono gli oggetti quotidiani di don Bosco, addirittura il suo banco di scuola, dove Davide ha l’onore di sedersi per un istante; poi i libri di studio, gli abiti religiosi e tante immagini, sue e dei suoi ragazzi, dei compaesani, delle tante vite che ha incrociato nel corso della sua infaticabile esistenza.

Un vita ostinata, sempre in salita; ma superata di slancio, con il passo agile e funambolico delle capre. In effetti, il nome Capriglio deriva dal latino Capriliumluogo delle capre.

– Ed è proprio un gregge di capre camosciate alpine che siamo venuti a incontrare! – esclama Davide poco prima di lasciare il museo di mamma Margherita e mettersi in cammino verso la fattoria di Paolo e Daniela, i protagonisti della puntata.

Su un’altura appena accennata, ci attende questa giovane coppia che dopo anni di vita in città ha scelto di trasferirsi in campagna. Un passaggio graduale, condotto anch’esso con passo morbido. Un movimento ostinato e lieve come quello delle capre, sull’orlo dei precipizi d’alta quota. All’inizio hanno solo cambiato residenza, poi hanno acquistato – in maniera del tutto casuale – una coppia di capre camosciate alpine. Si chiamavano Robiola e Osella. Dovevano diventare animali da giardino e sono stati l’inizio di tutto.

Robiola e Osella aspettavano i cuccioli, ma i nuovi proprietari non lo sapevano. Le capre li hanno messi al mondo e a poco a poco hanno trasformato Paolo e Daniela in allevatori. Il terreno permetteva la costruzione della stalla, c’era spazio per il pascolo e anche un’area dove aprire un caseificio. E così, l’entusiasmo, la passione e la tenacia hanno portato Paolo e Daniela a realizzare un allevamento modello con oltre cinquanta capre camosciate alpine. Sono animali bellissimi, robusti, frugali, docili e eccellenti produttori di un latte molto apprezzato. La camosciata delle Alpi è originaria della Svizzera e si è diffusa in tanti paesi europei. In Italia si alleva nelle regioni del nord e il suo mantello bruno la rende molto simile al camoscio.

Entriamo nella stalla prima che il gregge esca al pascolo. I primi esemplari che ci vengono incontro sono proprio Robiola e Osella, il mantello ingrigito dagli anni ma l’occhio sempre vigile e attento. Osella sembra il cane di Paolo: lui la chiama e lei arriva, qualunque cosa stia facendo. Il resto del gregge la segue. Nel corso delle riprese, le capre hanno circondato Davide d’affetto, gli hanno tolto la sedia, l’hanno fatta cadere, hanno rosicchiato il sedile. Osella sempre in testa e il gregge dietro. Noi di lato a filmare, non solo per Paesi, paesaggi ma anche per Paperissima.

Queste camosciate alpine producono una decina di quintali di latte per ciclo di lattazione e hanno a disposizione due ettari di pascolo. Paolo le nutre solo con l’erba dei prati e il fieno del campo che difende dalle incursioni dei cinghiali. Poi, insieme a Daniela, lavora tutti i giorni circa duecento litri di latte munto alla sera e alla mattina. Il latte di capra è molto più magro e digeribile di quello vaccino, con un basso contenuto di colesterolo e un alto apporto di vitamine e sali minerali. Già prima di lasciare la città, Paolo e Daniela amavano i formaggi di capra. Così, realizzare un piccolo caseificio e cominciare a lavorare il latte di casa è stato un passaggio quasi obbligato.

Un mestiere difficile, quello del casaro, che s’impara con il tempo e si affina con l’esperienza. Ma Paolo e Daniela devono avere un talento naturale. Un po’ di studio, un po’ di esperimenti e tanto lavoro. Oggi, sono tra i migliori produttori di formaggi caprini. Pochi giorni prima di registrare la puntata, hanno vinto un prestigioso premio a Milano, misurandosi con decine di concorrenti provenienti da tutta Italia. Gente che lavora da generazioni. Li hanno battuti con la semplicità, la freschezza, la genuinità. E con quel tocco di personalità che viene dalle loro storie individuali, dalle motivazioni che – nonostante i sacrifici – ricavano dall’attività che si sono tagliati su misura.

Paolo e Daniela producono pochi formaggi, con alcune varianti nel corso dell’anno. Impiegano solo latte crudo, caglio di vitello, sale e fermenti naturali; nessun trattamento termico, nessun conservante, nessun additivo chimico.

Il Caprazola è un erborinato dolce e cremoso, con venature verdi e azzurre. Il procedimento per ottenere questo formaggio è lungo e laborioso. La pasta è morbida, quasi si scioglie in bocca; la cremosità accentuata, il sapore intenso.

La toma che chiamano semplicemente Fresco, è prodotta con l’innesto dei fermenti al latte del mattino, prima di aggiungere il latte della sera e una minima quantità di caglio. La coagulazione è lentissima e termina il mattino seguente, quando la cagliata viene estratta, sgocciolata e messa in forma, poi rivoltata numerose volte e salata a mano.

La Cremosa è un affinamento del Fresco che viene fatto stagionare per un paio di settimane. Il processo naturale di proteolisi provoca il distacco della crosta e la formazione di una crema dolcissima, che in bocca è un esplosione di sapori. Davvero un concentrato di erbe e fiori dei pascoli di queste colline.

Lo Stagionato è invece un formaggio a crosta lavata con un particolare processo di produzione che culmina con l’immersione in una speciale salamoia. Un caprino che sa poco di capra e piace veramente a tutti. Infine il Cravot, un formaggio fresco lavorato allo straccio. La cagliata viene messa a sgocciolare in un telo fino al giorno seguente, poi salata a mano e lavorata fino a ottenere una pasta molto morbida, leggermente acida e aromatica.

– Pochi formaggi, unici come i loro creatori – esclama Davide davanti alla macchina da presa. – Ogni artigiano è unico; questi formaggi possono realizzarli solo Paolo e Daniela, con il latte delle loro capre nutrite con l’erba dei loro pascoli.

Solo qui, sulle colline di don Bosco: a quarantacinque gradi Nord e otto gradi Est. Questa è l’Italia della qualità.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Capriglio, nel Monferrato; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Il miele supremo di Matilde di Canossa.

Oggi siamo in Emilia Romagna. Il paese è San Polo d’Enza, il paesaggio le colline di Matilde di Canossa. Le coordinate geografiche sono 44°37’ Nord e 10°25’ Est.

Questi colli conservano intatto il fascino del Medio Evo, con antichi borghi e castelli e pievi che spuntano dalla vegetazione. La giornata è cupa, sospesa nell’incertezza: deve volgere al bello, ma non si decide a farlo. Quando lasciamo il centro di San Polo d’Enza, una fitta coltre di nubi schiaccia il cielo e avvicina l’orizzonte. Fa freddo. Indossiamo il cappello e la giacca a vento per inerpicarci sulle colline di donna Matilde, il capo chino e l’atteggiamento penitente, come controfigure di Enrico IV. Ogni tanto, una lama di luce filtra tra le nubi e illumina un angolo di paesaggio, reso ancora più suggestivo dalla minaccia della pioggia. Delle cartoline – noi di Paesi, paesaggi – non sappiamo che farcene. Così, per un istante, speriamo addirittura che un acquazzone si rovesci all’improvviso sulle nostre teste di viandanti, e scivoli rapido a valle tra le pieghe dei calanchi che spaccano i boschi e le distese di prati a mezz’aria.

Alice, la protagonista della puntata, ci riporta subito con i piedi per terra. Siamo qui per parlare del suo miele e delle sue api. Un mondo meraviglioso che detesta il freddo, teme il vento e si tiene il più lontano possibile dalla pioggia. Per imparare a dialogare con le api, abbiamo bisogno della primavera.

Per fortuna, il tempo migliora rapidamente e già alla fine della mattinata possiamo togliere gli abiti pesanti. Dopo essere stati imperatori penitenti, diventiamo un piccolo sciame in cerca di un alveare.

Nella tenuta di famiglia, Alice si dedica insieme alla mamma Fulvia alla cura delle api, che abitano oltre 150 ettari di boschi, prati e animali in libertà.

Nel corso degli anni, la sua famiglia si è presa cura di questo territorio piantando oltre ottomila alberi, tutelando i castagni, le acacie, i biancospini, e preservando distese di prati dove vivono oltre duecento varietà di fiori.

L’apicoltura è l’unica forma di allevamento, perché preserva le biodiversità. Gli asini si muovono eleganti e placidi nei pressi dell’apiario, lungo il rio Bottazzo, ma ci sono anche falchi, fagiani, poiane, gufi, lepri, caprioli e cerbiatti, volpi, tassi, scoiattoli. Per avvertire la loro presenza basta fermarsi e restare in silenzio, guardare e ascoltare. Immaginare.

Davide raggiunge in macchina l’apiariomentre io sfrutto un passaggio su un quad e attraverso il bosco. È la prima volta che salgo su una di queste moto ibride e sono molto curioso. Bastano pochi metri per capire quanto sia facile ribaltarsi. Per fortuna, il mio pilota conosce bene il terreno che si nasconde sotto l’erba alta. Mi affido a lui, anche quando il mezzo si blocca a metà di una salita e il motore si spegne. Chiudo gli occhi e quando li riapro sto già salutando Fulvia, la mamma di Alice, che tutti chiamano “mamma ape”. È tempo di cambiare nuovamente abbigliamento: tolgo il casco da motociclista e prendo quello da apicoltore. Non sono un esperto e infatti lo indosso al contrario. Lo terrò così, un po’ bizzarro e fuori dalle regole. Poi la giacca, i guanti, i pantaloni, la macchina fotografica. Stiamo entrando nel meraviglioso mondo delle api. Occorre muoversi lentamente. Cercare la propria pace, osservando i dettagli della loro vita.

In questa stagione, in ogni arnia di Fulvia e Alice vivono circa 50.000 api della specie italiana Ligustica, forse la migliore del mondo, sopravvissuta alle glaciazioni e giunta fino a noi. Ogni sciame conta un’ape regina, qualche centinaio di fuchi e decine di migliaia di operaie. L’arnia è una grande famiglia, dove tutti hanno bisogno di tutti. La vita è scandita dai ritmi del lavoro, che sono intrecciati con quelli dell’esistenza. Si vola, si impollina, si produce miele, ci si nutre, ci si accoppia: tutta la vita è in funzione della vita. Niente è casuale, superfluo o approssimativo.

Fulvia solleva un telaino e lo porge a Davide. Le api sono calme e la loro attività ipnotica. Sappiamo che tutto ciò che vediamo è linguaggio. Ogni movimento delle api è un preciso segnale al resto della comunità. Noi osserviamo e ci perdiamo nel nulla, come accade allo straniero quando ascolta una lingua sconosciuta. Le parole diventano suoni, i suoni musica e la musica emozioni. Non comprendiamo ciò che le api stanno dicendo, ma ne restiamo ugualmente affascinati.

Con paziente regolarità, Fulvia mette e toglie i telai dell’arnia alla ricerca dell’ape regina. A un tratto la vede e la mostra alla telecamera. Anche Davide la segue con il dito. Poteva essere ovunque, invece ci aspettava al centro di tutto: proprio nel mezzo del telaio centrale dell’arnia.

L’ape regina si accoppia una sola volta nella vita, una settimana dopo essere nata. Il volo di fecondazione dura altri due o tre giorni. Un breve viaggio durante il quale viene fecondata dai fuchi e riempie le scorte di spermatozoi che le serviranno per tutta la vita. Al termine di quell’unico volo, l’ape regina non uscirà mai più dalla sua arnia. Vivrà anche cinque anni, al contrario delle altre api che muoiono dopo poche settimane. In primavera arriverà a deporre 2500 uova al giorno, nelle celle preparate dalle operaie. Sarà nutrita con pappa reale e continuamente assistita, riscaldata, imboccata. L’ape regina non è in grado di cibarsi da solale sue ghiandole mandibolari secernono feromoni che vengono assorbiti dalle altre api e trasmessi di bocca in bocca per comunicare che è in buona salute e che sta deponendo le uova. Ogni famiglia possiede un odore distintivo, che è anch’esso una forma di linguaggio che permette alle api di ritrovare i propri luoghi e di riconoscersi a vicenda.

Da ogni arnia, Alice estrae al massimo una trentina di chili di miele. Potrebbe ricavarne quasi il doppio, ma preferisce lasciarlo alle api e al loro benessere. L’industria si comporta in maniera esattamente opposta: spreme da ogni famiglia la massima capacità produttiva, estrae tutto il miele possibile nutrendo le api con zucchero e prodotti chimici. E quando si ammalano, le cura con antibiotici.

«Le nostre api invece sono resistenti, – spiega con orgoglio Alice. – Vivono del loro miele, secondo natura…»

La natura è una meravigliosa ricercatrice di armonia. Forza e delicatezza, tenacia e leggerezza. Equilibri instabili, eppure perfettamente bilanciati. Mi piace pensare alle api di Alice e Fulvia come a tante piccole Matilde di Canossa, regine al centro del loro mondo.

Nel frattempo il vento rinforza e il volo delle api diventa più nervoso. È il momento di lasciarle per andare a scoprire il loro miele. In laboratorio, le lavorazioni sono tutte manuali, telaino dopo telaino. Il miele viene filtrato quattro volte, non viene mai eseguito alcun trattamento termico e la cristallizzazione non viene mai bloccata. Tutto si svolge nel rispetto delle tradizionali tecniche di lavorazione artigianale, pensate per la salute delle api e la qualità del loro miele.

Ogni vasetto di questo miele supremo è firmato a mano ed è un vero dono della natura, raccolto dalle mani dell’uomo. Anzi, delle donne!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite in Emilia Romagna, nelle terre di Matilde di Canossa; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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La famiglia del Parmigiano.

Oggi siamo in Emilia Romagna. Il paese è Collecchio, il paesaggio la campagna sulle rive del Taro. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Siamo ancora in pianura, ma le colline dell’Appennino sono a un passo da noi. Questa terra di prati, pascoli d’erba medica e boschi è la culla del Parmigiano Reggiano.

La storia del formaggio italiano più famoso nel mondo risale al XII secolo e in ogni forma è racchiusa l’immagine del suo territorio. Come diceva Guareschi: Se prendiamo una lente d’ingrandimento e osserviamo una scaglia di Parmigiano, sembra una foto aerea dell’Emilia presa dall’altezza del Padreterno!

I primi caseifici dedicati alla produzione del Parmigiano erano sorti nei monasteri e nei castelli feudali. Solo i grandi proprietari terrieri disponevano delle materie prime necessarie, considerando che una vacca produceva nel Medio Evo circa tre litri di latte al giorno e che una forma ne conteneva più di cinquecento!

Già nell’antichità, questo formaggio era considerato uno dei simboli del piacere del cibo. Boccaccio descriveva così il Paese dei Bengodi: Et eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva.

Alziamo in volo il nostro piccolo drone, che dall’acqua del Taro si allunga sui campi d’erba medica e i “prati stabili”. Sono questi terreni, lasciati a vegetazione spontanea, senza arature né coltivazioni, l’anima del Parmigiano. L’erba ottenuta dallo sfalcio sarà il primo alimento delle vacche, l’origine dei suoi profumi e sapori.

Incontriamo Paolo – il protagonista della puntata – nel centro di Collecchio. La sua famiglia ha dedicato la vita alla produzione del Parmigiano Reggiano. La mamma Maria, appena sposata, aveva aperto nei primi anni cinquanta un piccolo caseificio da tre forme al giorno. Da allora, la crescita è stata continua, sempre alla ricerca della qualità. Maria ha proseguito con i figli l’opera che aveva iniziato con il marito; oggi, la famiglia del Parmigiano produce circa settanta forme al giorno. La stalla ospita 1500 capi di proprietà e i terreni dell’azienda si estendono per oltre 500 ettari, destinati al nutrimento degli animali. Numeri importanti, che devono essere ben compresi. Paolo e la sua famiglia sono produttori diretti a ciclo chiuso: in altri termini, tutto ciò che serve a realizzare il loro Parmigiano Reggiano, sono loro a produrlo. La famiglia controlla ogni dettaglio del ciclo di lavorazione. Paolo è il casaro e l’artista della stagionatura, il fratello Tino è il responsabile della stalla: conosce le vacche a una a una come fossero animali domestici e cura con maniacale attenzione ogni aspetto della loro esistenza. La sorella Rosangela si occupa invece della vendita e della promozione, gestisce i negozi e tutti gli aspetti commerciali del prodotto.

«In realtà, siamo interscambiabili, – spiega Paolo. – Siamo cresciuti a Parmigiano Reggiano…»

Dal campo alla stalla, dal caseificio alla vendita, tutto viene prodotto in casa e tutto viene seguito dalla famiglia. La lezione di oggi è che la quantità può andare d’accordo con la qualità. L’importante è che il produttore si identifichi con il prodotto e ne controlli tutta la filiera. Chi fa le cose male, ha scelto di farle male!

Seguiamo Tino nella grande stalla, mentre insieme a Davide dà il fieno agli animali. Progettiamo una sequenza con il drone, che però perde il segnale e impazzisce. Improvvisamente, il suo volo rettilineo svirgola come quello di un calabrone e si dirige verso gli animali. Noi ci preoccupiamo per le vacche, Tino per l’apparecchio.

«Loro non temono niente, – dice, – è il drone che è fragile!»

Alla fine il velivolo si schianta contro un palo. Finisce a terra tra gli zoccoli di una Frisona che non lo calpesta. Lo recuperiamo e sostituiamo l’ala danneggiata. Poi torniamo a volare sui campi, lasciando l’interno della stalla alla macchina da presa saldamente ancorata al cavalletto.

Dopo la stalla, ci trasferiamo nel caseificio, dove la mamma di Paolo ci aspetta paziente da ore. La lavorazione del Parmigiano dura circa un mese. Il processo comincia con l’aggiunta del latte scremato della sera a quello intero del mattino. Il segreto è lasciare più ricco il latte del giorno precedente per ottenere un formaggio più gustoso, destinato all’invecchiamento. Ma è un’operazione rischiosa. Proprio questa è la specialità di Paolo: una sensibilità affinata nel corso degli anni e una vocazione alla sperimentazione continua. I disciplinari tutelano l’identità del prodotto, ma la sua cultura nasce dalla creatività dell’artigiano.

Il latte viene quindi versato nelle caldere, le tipiche caldaie di rame a forma di campana rovesciata. Secondo tradizione, il casaro aggiunge un po’ di siero della lavorazione del giorno precedente. Quest’operazione permette ai fermenti di passare di forma in forma, di generazione in generazione.

La successiva spinatura, cioè la rottura della cagliata per mezzo di un attrezzo detto spino, viene eseguita a mano. Poi inizia una lenta cottura, che porta la massa caseosa a depositarsi sul fondo della caldera. Il formaggio viene estratto, asciugato e messo nelle fascere. Dopo qualche giorno, le giovani forme di Parmigiano sono immerse nelle saline, speciali vasche riempite con una soluzione satura di acqua e sale, che il formaggio assorbe per osmosi.

«Le nostre saline, – mi spiega Paolo, – sono in attività da più di sessant’anni!»

Il formaggio resta a contatto con il sale circa tre settimane, poi inizia l’invecchiamento. Il Parmigiano Reggiano nasce nel campo, ma è nelle scalere di stagionatura che diventa un’opera d’arte. Una stanza di affinamento è impressionante anche alla vista. Corridoi continui di scaffali di legno come le navate di una cattedrale, con decine di migliaia di forme che da terra salgono fino a oltre dieci metri d’altezza. Ogni giorno vengono accudite dalla mano dell’uomo che le ruota, le martella e le spazzola per 24, 36, addirittura 70 mesi e oltre.

«Questo Parmigiano ha 140 mesi!» esclama con orgoglio Paolo offrendoci una scheggia di stravecchio. L’assaggio è un’immersone in un mondo di sapori difficili da descrivere. La parola chiave potrebbe essere intensità. Si percepiscono i profumi delle spezie, del tabacco, del legno. Ma è la magia del tempo che supera l’analisi sensoriale e lascia ognuno libero di cogliere ricordi ed emozioni racchiusi nei sapori.

La ricerca della qualità ha portato Paolo e la sua famiglia a produrre anche un Parmigiano molto innovativo: un cru di Bruna alpina, la razza con un latte naturalmente più ricco di grasso e di caseina – circa il 25% in più rispetto a una Frisona – che permette una lavorazione ancora più estrema. E poi l’Oro Nero, un formaggio a latte crudo, pasta semidura e lenta maturazione che stagiona circa nove mesi.

«È come mettere al mondo un bambino!» esclama con orgoglio Paolo.

Forma cilindrica, scalzo quasi dritto, struttura della pasta a grani molto morbidi e minuti. Nasce dallo stesso latte del Parmigiano ed è una delle invenzioni di una famiglia che riesce a rispettare le tradizioni solo innovandole.

Questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

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L’oro bianco di Sicilia.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Trapani, il paesaggio la Riserva naturale delle saline. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

A soli cinque chilometri dal centro di Trapani si conserva questo piccolo paradiso anfibio, sospeso tra la terra e il mare, dove la natura e gli esseri umani si sono incontrati quasi tremila anni fa. Vento, sole, acqua: la ricetta del sale è semplice, ma racchiude secoli di storia.

Nel pomeriggio inoltrato, Davide e io avevamo risalito in macchina la costa occidentale della Sicilia, da Marsala fino a Trapani. Il sole era tramontato in mezzo al mare, alla nostra sinistra. Il litorale basso dello Stagnone si era acceso di colori. Lo sfondo del viaggio, da Mozia a Nubia, era stato un susseguirsi continuo di mulini a vento e colline bianche di sale che in controluce diventavano rosate.

I primi impianti per la raccolta del sale erano stati realizzati dai Fenici circa otto secoli prima di Cristo. Un’attività che ha attraversato il tempo fino a raggiungere il massimo sviluppo nella Sicilia barocca del Sei-Settecento, quando il porto di Trapani era uno dei maggiori centri commerciali e culturali di tutto il Mediterraneo.

Un paesaggio ancora oggi unico al mondo, costituito dalle vasche di raccolta dell’acqua di mare, dedali di canalizzazioni governate da ingegnosi sistemi di chiuse e imponenti mulini a vento che un tempo davano energia alle macine che raffinavano i cristalli di sale.

«Nei territori di Trapani, Paceco e Marsala, i mulini delle saline assomigliano a veri e propri fari abbracciati dal vento e illuminati dal sole, – esclama Davide dopo aver appoggiato la sedia su uno scoglio piatto tra la salina e il mare aperto. – Un paesaggio che ogni occhio, prima o poi, dovrebbe vedere!»

La famiglia di Carmelo – il protagonista della puntata – lavora qui da generazioni: ancora a mano, in maniera artigianale e tradizionale. L’alluvione del 1965 aveva distrutto gli impianti, sommergendo di terra e detriti le vasche di raccolta.

«Ci sono volute diverse stagioni di sacrifici, – mi spiega Carmelo. – Tanto lavoro e nessun profitto, ma poi la salina è stata riportata in vita e siamo riusciti a proseguire un’attività artigianale di altissima qualità».

Lavorare oggi a mano il sale marino non è una questione di folclore o di romantica conservazione di un sapere senza prospettive, ma una precisa scelta di qualità. Il valore nutrizionale e organolettico di questo sale non si può nemmeno paragonare con quello industriale o di miniera. Solo questo è vero sale: profumato e ricchissimo di oligoelementi naturali.

Il principio della salicoltura è un capolavoro di semplicità e ingegno. Le vasche di raccolta sono realizzate a ridosso della costa e si riempiono progressivamente sfruttando le maree e le canalizzazioni. La vasca più esterna è anche la più grande, che raccoglie l’acqua friddadel mare. L’azione del sole innalza la salinità che viene man mano convogliata nelle vasche più interne, i cosiddetti vasi d’acqua cruda. Infine, l’acqua ormai quasi evaporata, passa ai caseddari, dove svanisce lasciando sul fondo uno strato compatto di preziosi cristalli di cloruro di sodio.

L’attività inizia in primavera, dopo che in inverno sono state accuratamente puliti gli invasi, riparati gli argini e i macchinari dell’impianto. La raccolta vera e propria è un’attività estiva, quando il sole dissolve l’ultimo velo d’acqua e illumina il prezioso raccolto di sale. Gli uomini – oggi come secoli fa – lo raccolgono a mano. Secchio dopo secchio, cesta dopo cesta, lo rovesciano sulle piattaforme accanto alle vasche e formano dei cumuli che ricoprono con tegole di terracotta.

I mulini a vento davano energia all’impianto: mettevano in moto le chiuse e permettevano alle macine di frantumare i cristalli di sale. Un mulino come quello della riserva di Trapani, dove oggi è allestito un suggestivo museo, generava una potenza pari a quella di cento cavalli. Questo spazio, realizzato all’interno di un baglio in pietra seicentesco, non è solo un importante luogo della memoria, ma un centro vivo per la diffusione e la valorizzazione della cultura del sale. Svolge attività di informazione, vendita, ristorazione e costituisce una delle tappe dell’itinerario che collega le saline ancora in attività sulla costa occidentale della Sicilia.

Al suo interno ci sono molte immagini e documenti, ma soprattutto oggetti. Ad esempio i ruzzoli, che servivano per compattare il fondo delle vasche, poi le ceste per trasportare il sale chiamate cattedri, la vite d’Archimede con cui si aspirava l’acqua della vasca fridda e infine le tagghia, i listelli di legno che si utilizzavano per misurare il sale. C’è anche un carro-botte che veniva trainato da un mulo e si spostava tra le vasche per portare ai salinari acqua fresca da bere; infine l’antico cuore pulsante del mulino, la pesante macina che schiacciava i cristalli grezzi e li raffinava per essere messi in commercio. Ma il mondo della salina è fatto anche di reti e nasse, perché nelle vasche vivono pesci pregiati come le orate e le spigole, mentre in superficie è un via vai continuo di fenicotteri, aironi e uccelli migratori. Un incanto per gli occhi e lo spirito, oltre che per il palato.

Il sale era l’oro bianco del Mediterraneo, ma è ancora oggi un prodotto prezioso, alla base della nostra alimentazione, indispensabile in cucina e in tante lavorazioni di conservazione e trasformazione dei cibi.

«Pensate ai salumi e ai formaggi! – esclama Davide rivolgendosi alla macchina da presa. Poi aggiunge: – Quasi tutto ciò che mangiamo contiene sale!»

Eppure, anche se il costo di un prodotto di altissima qualità come questo “vero sale” artigianale di Sicilia rimane modesto, ci ostiniamo a usare prodotti industriali, trascurando l’importanza di un alimento fondamentale per il nostro benessere.

«Questi granelli bianchi sono il sale della vita!» conclude Davide, prendendo dalla tasca della giacca una manciata di cristalli iridescenti.

L’oro bianco del Mediterraneo è un dono della natura, che individui tenaci e determinati come Carmelo e la sua famiglia continuano a produrre in maniera artigianale, per custodirne intatte le proprietà. Anche questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Trapani, nella Riserva naturale delle saline; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le arance fatte a mano.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Ribera, il paesaggio la costa degli aranceti. Le coordinate geografiche sono 37°30’ Nord e 13°16’ Est.

Atterro in serata all’aeroporto di Palermo. Raggiungo l’uscita e mi ritrovo all’aperto, sulla strada che guarda il mare. In alto, nel cielo, brilla la stella Polare. Conosco benissimo questo aeroporto, eppure ho perso l’orientamento. Temo addirittura di aver sbagliato scalo, come se fossi sceso da un autobus o da un treno alla fermata sbagliata. Fermo due poliziotti, domando e capisco che questo è il “nuovo” aeroporto di Palermo; mi spiegano che è stata finalmente completata la ristrutturazione. Quello che avevo frequentato per anni era un cantiere di lavoro. Sarà, ma nel cantiere mi muovevo bene. Tutto mi sembrava a portata di mano.

Davide arriva mezz’ora dopo e anche lui avverte lo stesso senso di straniamento. Camminiamo lungo il ciglio della strada per raggiungere gli uffici dell’autonoleggio, poi montiamo su una Cinquecento e partiamo. Destinazione: Sciacca. Lasciamo la Polare e andiamo verso la Croce del Sud. Le isole sono luoghi meravigliosi: le attraversi e sei già dall’altra parte del mondo.

La nostra meta è la costa degli aranceti. Una terra benedetta dalla natura: un vasto altipiano con leggere pendenze che degradano fino al mare. I terrazzamenti sono intervallati dai corsi d’acqua che li incidono scavando profonde e fertili vallate. Oggi, questi terreni sono popolati di agrumeti, ma un tempo vi si produceva di tutto, dal riso al cotone, dal grano alle mandorle, e poi olive, uva, frutta e ortaggi. Fin dal Cinquecento, gli abitanti di Caltabellotta scendevano dalle alture a piedi, con i muli e i carretti per lavorare i campi sulle sponde del fiume Verdura.

Il nome Ribera ha un’origine spagnola e significa riviera: in effetti questa costa è proprio una riviera di lussureggianti giardini affacciati sul Mediterraneo. La qualità delle acque, il terreno, il clima e le correnti calde dell’Africa l’hanno resa un’oasi di Sicilia.

Il nostro piccolo drone vola alto sul mare, poi s’abbassa e risale il fiume a pelo d’acqua, scavalca l’argine e inquadra Davide che cammina con la sedia in spalla.

Stacco. Camera a terra, sul cavalletto; ottica grandangolare. Davide si siede.

«Ecco, qui mi sento come a casa!» dice, mentre il drone alle sue spalle raggiunge gli aranceti di Paolo, il protagonista della puntata.

Paolo è un agricoltore che coltiva le arance come un artigiano: conosce tutte le sue piante e segue con passione la maturazione di ogni frutto. Paolo non coltiva arance: le produce a una a una.

Il papà aveva iniziato l’attività negli anni Sessanta proprio in questo campo vicino alla foce del fiume, dove c’era abbondanza d’acqua. Dopo gli studi universitari, è tornato alla terra di famiglia e da allora si dedica alla cura dell’agrumeto. Mi confessa che uno dei momenti più belli della giornata è quando in primavera si ferma la sera a passeggiare nel campo, circondato dalle piante cariche di frutti maturi. Sembrano persone amiche con le braccia piene di doni. Mi accompagna tra gli alberi e mi mostra i rami che pendono verso il basso. Le sue arance sono completamente biologiche e crescono senza alcuna contaminazione chimica.

«Vedi dove sono i frutti migliori?» mi domanda.

«A terra?»

Paolo annuisce e mi indica i rami più bassi, dove è maggiore l’afflusso di linfa. Poi prende un’arancia, taglia a metà uno spicchio e me lo fa assaggiare. Mi spiega che la parte più dolce è quella inferiore, perché gli zuccheri si formano in alto, vicino al peduncolo, poi scendono per gravità.

«Interessante vero?»

Immagino che tutto questo, nelle coltivazioni estensive, non esista.

Paolo mi offre un altro spicchio tagliato a metà. Lo assaggio, poi ne taglio un altro e un altro ancora. Sono dolcissimi, del tutto privi di acidità e senza semi. Siamo invasi di arance scadenti che arrivano nei nostri supermercati da ogni parte del mondo, e invece abbiamo un tesoro in casa che nemmeno conosciamo.

Domando a Paolo se ritiene coraggiosa la scelta della coltivazione biologica.

Lui scrolla le spalle e mi spiega che in questo lembo di Sicilia è tutto più facile, perché il clima ideale permette alle piante di crescere in maniera spontanea senza ammalarsi. Però, aggiunge che anche altrove lui non avrebbe dubbi.

«I prodotti della natura» dice «deve essere la natura a produrli!»

Il ragionamento non fa una piega.

«Ma alla fine, – domando, – i conti tornano?»

«Certo che tornano! – risponde. – Guarda, io devo sempre buttare una parte del raccolto, ma la perdita è pari, forse addirittura inferiore, alla spesa che dovrei sostenere in prodotti chimici».

«Senza contare il danno ambientale…»

«Proprio così: per eliminare gli insetti con i veleni abbiamo favorito la crescita esponenziale di altri insetti che prima quasi non esistevano».

«Quali sono i nemici delle tue arance?»

«La cocciniglia e alcuni ragni. Ma le mie piante sono forti e sane. A loro ci pensa la natura».

«Anche tu».

«Io do solo una mano…»

Come dicevo, queste arance delle varietà Navel e Vaniglia sono dolcissime, senza semi e prive di acidità. In cucina sono un vero ingrediente e da qualche anno Paolo si dedica alla sperimentazione dei suoi frutti nella gastronomia. Me ne parla con entusiasmo mentre camminiamo verso il resort che fa da sfondo ai suoi campi:

«Un giorno mi sono chiesto: ma è possibile che un frutto così ricco e prezioso si sposi soltanto con l’anatra? E da quel pensiero è nato il desiderio di creare nuove ricette a base di arance».

Una ricerca che ha coinvolto molti amici. Oggi è venuto ad assistere alle riprese Pasquale, un casaro di Castelvetrano che produce un primo sale veramente eccellente. Da qualche tempo sta sperimentando insieme a Paolo la produzione di alcuni formaggi innovativi: ad esempio una toma con scorze di arancia e un’altra aromatizzata con un’arancia intera al suo interno.

«Ma quali sono i tuoi piatti migliori?» domando.

Paolo suggerisce l’insalata mediterranea con arance, olive, acciughe, finocchietto e olio extravergine. Un primo gustoso è il risotto con i fiori d’arancia, mentre come secondo consiglia un piatto di mare: le arance di Ribera sono ideali con pesci e crostacei.

«Come vedi, – mi dice Paolo, – si possono creare interi menu a base di arance».

«Altro che anatra» dico io.

«Altro che anatra, – ripete Davide. – Questa è l’Italia della qualità!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Ribera, nella costa degli aranceti; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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L’oro rosso di Trapani.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Trapani, il paesaggio la costa occidentale della Trinacria. Le coordinate geografiche sono 38°1’ Nord e 12°32’ Est.

Le origini di Trapani affondano nella mitologia e attraversano il tempo. La storia di questo lembo di terra che sembra una falce caduta dal cielo è anche la storia del suo mare, percorso dalle rotte di greci, romani, bizantini, arabi, normanni, spagnoli.

Ci svegliamo di buon’ora e dopo un caffè e una sfoglia di ricotta ci lasciamo avvolgere dai toni caldi e seppiati del centro storico. Sedia in spalla, Davide percorre i vicoli, entra nelle chiese, ammira rosoni grandi come piazze intarsiate e appese nell’aria. Lo accompagno nella chiesa delle Anime del Purgatorio, dove riposano i Misteri di Trapani. Da più di quattrocento anni, ogni Venerdì santo, le confraternite della città sfilano per oltre un giorno e una notte portando a braccia gruppi scultorei che raffigurano la passione e la morte di Cristo. Ogni statua è realizzata in legno scolpito e sughero, con gli abiti in stoffa modellati con colla e gesso; il tutto addobbato e impreziosito con argenti, ori e coralli. Le opere sono state restaurate nel corso dei secoli e ancora oggi sfilano le sculture originali. Sono tutte lì, che riposano nella chiesa e prendono fiato dopo tanto camminare. Noi le ammiriamo a una a una, nella calma del luogo. Avvolte dalla penombra, inumidite da un raggio di luce obliqua che filtra dalle vetrate, ci regalano una privata processione dei Misteri. Pochi minuti di emozione, che valgono il viaggio.

Quando usciamo dalla chiesa ci dirigiamo verso le Mura di Tramontana. La scogliera ci aspetta, offrendo una roccia ampia dove posare la sedia di Davide e lanciare il volo del drone sulla lingua di terra che si protende nel mare.

Da qui, da questo porto, sono transitate per secoli merci e gentiTrapani era la città dei due ori del mare: il sale e il corallo, l’oro bianco e l’oro rosso. Già nel Medio Evo fiorivano numerose botteghe di lavorazione del corallo che hanno poi dato vita a una scuola d’arte orafa unica in Italia e nel mondo.

Platimiro – il protagonista della puntata – è uno degli ultimi maestri corallai di Trapani. Figlio di un artigiano orafo, è cresciuto nel laboratorio del padre e fin da bambino ha cominciato a lavorare l’oro, l’argento e il corallo, incastonando pietre e incidendo metalli. Il suo nome è già un cesello.

Nella storica bottega, a ridosso del centro storico, ha formato decine di allievi e prosegue una tradizione che è diventata vera arte nel corso del Cinquecento. Da allora, Trapani e il corallo rosso hanno formato un binomio indissolubile: per secoli, le corti d’Europa e le chiese d’Italia hanno richiesto ai maestri trapanesi oggetti sacri come capezzali e acquasantiere, e poi gioielli, vassoi, lampadari e sculture di ogni genere. La loro qualità era insuperabile e il colore scarlatto del corallo così simile a quello del sangue di Gesù.

Secondo la tradizione mitologica, il corallo è la solidificazione del sangue che sgorgava dalla testa della Medusa, recisa da Perseo. Mi spiegano che il nome è di origine incerta: potrebbe derivare dal greco koraillon, cioè scheletro duro, oppure da kura-halos, che significa forma umana, o ancora dall’ebraico goral, con cui si indicavano le pietre degli oracoli in Palestina, Asia Minore e Mediterraneo. In natura, è il prodotto del lavoro di minuscoli polipi che possono vivere anche quattromila anni, riuniti in colonie che nel corso del tempo hanno formato vere e proprie costruzioni organiche, popolate a loro volta da infinite specie di pesci, crostacei e piante.

Nel Mediterraneo è presente il Corallium rubrum, che un tempo veniva pescato con le barche coralline. Gli scafi a vela e a motore trascinavano sul fondo del mare un pesante attrezzo a forma di croce, chiamato “ingegno”, con cui sradicavano i ceppi di corallo e distruggevano l’ecosistema. Oggi, la raccolta è regolamentata e può essere praticata solo da subacquei certificati, in periodi limitati. Alcuni pescatori siciliani mi hanno confidato che secondo loro la pesca del corallo potrebbe ancora oggi costituire una ricchezza per i lavoratori del mare, permettendo alle barche più moderne, dotate di strumenti di visione come telecamere e scandagli, una raccolta selettiva dei coralli morti.

«Qual è il corallo migliore, il più pregiato?» chiedo a Platimiro.

Lui sorride e scrolla le spalle. Mi spiega che il corallo si sceglie in base alle necessità artistiche. Forme, dimensioni, colori, variano a seconda della provenienza e di volta in volta l’artigiano usa ciò che gli occorre. Il corallo giapponese, ad esempio, è grande ed è spesso indispensabile per scolpire le figure di maggiori dimensioni; l’oro rosso del Mediterraneo è invece di una tonalità più accesa in Sardegna, mentre a Messina presenta un colore più rosato; a Sciacca, lungo le rotte del pesce azzurro, può variare dal giallo al rosa tenue. Nelle fosse dell’agrigentino, affacciate sul canale di Sicilia e le coste del Nord Africa, esiste addirittura un corallo nero, formato dai cespi strappati dalle onde e depositati sul fondo, dove particolari batteri lo corrodono e lo rendono scuro.

Il corallo è un materiale nobile che appartiene al mondo animale, assomiglia a un vegetale e genera un minerale. Ma appartiene anche al regno della fantasia, quando viene lavorato dai maestri come Platimiro! Lui è l’unico che ancora oggi realizza oggetti con la tecnica del retroincastro, tipica del Seicento trapanese.

«Ciò che ha dato fama alla mia città, – spiega l’artista, – sono stati il procedimento del tutto tondo, cioè l’incisione dei personaggi a figura intera, e la tecnica del retroincastro, che consiste nell’inserimento di particolari preziosi dal lato posteriore degli oggetti: si praticano delle speciali traforazioni, poi gli incastri vengono fissati con una colla a base di pece greca, si tampona l’insieme con una tela precedentemente messa a fuoco e si assembla tutto in un’unica armatura.

L’opera d’arte di corallo nasce già dalla forma del ramo. L’artista deve saperla vedere e poi, con infiniti passaggi di bulino, togliere il superfluo fino a giungere alla scultura definitiva.

«Un lavoro complesso» dice Davide.

«Il corallo è forte, ma anche molto fragile, – spiega Platimiro. – All’inizio, con un raschietto, bisogna rimuovere il cenosarco, la veste che lo ricopre in natura. Usiamo vecchi bulini ricavati dalle lime con cui si rifinivano le incisioni ad acquaforte. Poi si disegna la forma da realizzare sul cespo, si comincia a sbozzare e man mano che si procede si definisce sempre più il lavoro».

Platimiro ama parlare della sua arte, ma ancor più ama praticarla. Accende la lampada e scompare nella sedia incassata sotto il banco da lavoro. Massimo, il nostro regista, cattura i dettagli dei suoi gesti: la punta delle dita, particolari degli strumenti, nuvole di polvere bianca e rossastra che si solleva in controluce. Sono due artisti al lavoro. Il mondo è chiuso fuori. Qui, nella bottega di Platimiro, c’è spazio solo per loro.

Così, in punta di piedi, ci allontaniamo e li lasciamo tranquilli. Le opere di Platimiro sono veri e propri mondi da esplorare con la lente della meraviglia. È un peccato limitarsi a guardarle; meglio osservarle con attenzione, dedicando loro tempo e concentrazione, abbandono e curiosità.

Per darvi una misura del valore di queste sculture di corallo, pensate che alcune sono custodite nei Musei Vaticani e che nel 2013 Platimiro è stato nominato dall’Unesco Tesoro umano vivente, iscritto nel registro delle Eredità immateriali di Sicilia.

Questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi…Venite in Sicilia, a Trapani; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Il grano di Poggioreale.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Poggioreale, il paesaggio la valle del Belice. Le coordinate geografiche sono 37°45’ Nord e 13°2’ Est.

Davide e io partiamo al mattino presto da Trapani e ci dirigiamo verso est, in direzione del sole. Un breve tratto di autostrada, poi lo svincolo che guarda a sud, infine la campagna dei Greci di Segesta. L’interno della Sicilia: un paesaggio che ogni occhio dovrebbe vedere almeno una volta.

Avevamo pianificato questo servizio sul grano della Trinacriaproprio in primavera, per avere sullo sfondo distese verdi come pascoli punteggiati di fiori e rade nuvole che sbandierano nel cielo increspato dal vento. Questa terra è capace di incantare anche il viaggiatore più distratto. Sembra il centro del niente, ma è un niente pieno di cultura e di bellezza.

Continuiamo a guidare in silenzio, ammirando ciò che la natura ha creato e la saggezza degli esseri umani ha perfezionato, a propria immagine e somiglianza. Terra da indossare, come un abito su misura.

Siamo venuti nella valle del Belice per raccontare la storia di Alberto e della sua famiglia. Gli Agosta coltivano grano duro da generazioni e oggi hanno recuperato specie antiche, come il Tumminia e il Senatore Cappelli; ma sono diventati anche mugnai e pastai, per seguire l’intera filiera di produzione e chiudere un ciclo vitale che dal campo giunge fino alla tavola: prima la spiga, poi la farina, infine la pasta.

La terra plasma le persone. È un lavoro lento, che si realizza nel tempo e con il fluire delle generazioni. Per raccontare la storia di Alberto e il suo rapporto con il grano dobbiamo fare tappa a Poggioreale, il paese distrutto dal terremoto nel ’68 dove il protagonista della puntata è vissuto e dove ancora resiste la casa di famiglia, proprio all’ingresso della città fantasma.

Ci troviamo a 62 km da Palermo, su un’altura che domina la valle del Belice. L’antica Poggioreale è un luogo di una bellezza struggente: insieme di case vuote, abitate dal vento, da luce ferma e aria in ombra. Entriamo in silenzio e parliamo a bassa voce, per non disturbare i fantasmi che ancora vivono in questi edifici, i bambini appena usciti da scuola con i banchi in disordine, le signore in chiesa inginocchiate sui cocci del tetto crollato. Lo stesso struggente raccoglimento dello Spasimo, a Palermo. E poi gli uomini che attraversano la piazza in fondo al paese. Sono tutti lì, intorno a noi, mentre carichiamo la batteria del drone e preghiamo che il vento non lo porti via con sé.

Noto su una casa la scritta DUX a caratteri neri cubitali.

«Cos’era? – chiedo a uno dei nostri accompagnatori, – la Casa del fascio?»

Lui sorride e scrolla le spalle. Mi spiega che è la scritta di una scenografia, realizzata per girare un film e mai cancellata dalla produzione. Scrollo le spalle anch’io. Non avere rimosso quell’insegna mi pare un gesto volgare, irrispettoso del luogo e delle anime che ancora lo abitano. Qualcosa non torna. Ripenso alle scene che abbiamo visto in Friuli, a Gemona e Venzone. Lassù, città rase al suolo dalla natura sono state ricostruite dall’uomo, rimettendo a dimora le pietre; quaggiù, all’estremo opposto del Paese, abitazioni ancora integre sono state abbandonate per diventare meta di turisti di passaggio e scenografie per il cinema. Davvero qualcosa non torna.

Intanto, il vento si calma e mettiamo in funzione le eliche del drone. L’apparecchio si alza in volo e abbraccia con lo sguardo della telecamera l’intera vallata. L’aria accarezza le spighe. Il podere di Alberto è laggiù, da qualche parte, perso nel verde. Seguendo il volo del cucciolo d’elicottero, risaliamo in macchina e lasciamo in silenzio Poggioreale.

Come dicevo, Alberto e la sua famiglia seguono tutta la filiera di produzione e lavorano il feudo Mondello che i nonni avevano acquistato alla fine dell’Ottocento dalla diocesi di Monreale. Generazioni di grano duro.

Dopo gli studi di agraria, Alberto era tornato alla terra con l’idea di rendere più moderne ed efficienti le coltivazioni. Ha meccanizzato le attività, ma soprattutto ha maturato l’idea che la qualità del grano dovesse rimanere intatta lungo tutto il ciclo di produzione. Oggi, insieme alla moglie Nina e ai parenti più stretti ha chiuso il cerchio iniziato tanti anni fa. Dico oggi in senso letterale, perché il suo pastificio ha inaugurato proprio oggi l’attività. Stiamo registrando una puntata strana e bellissima, dove gli opposti si incontrano: i fantasmi della città abbandonata e gli agricoltori che tenacemente lavorano la terra scossa, e poi secoli di storia maturati nei campi di grano che si condensano nei primi istanti di questo piccolo pastificio artigianale.

Iniziamo le riprese nel campo, dove le piantine di grano Tumminia e Senatore Cappelli stanno crescendo a vista d’occhio e nei prossimi mesi diventeranno alte quasi due metri. Davide passeggia con la sedia in spalla e osserva con tenerezza le giovani spighe. Tra poco, il prato verde diventerà un mare giallo e sarà pronto per essere trebbiato.

A quel punto, il grano del feudo Mondello sarà immediatamente macinato nel mulino a pietra che rinnova l’antica tradizione della molitura artigianale. L’ampio diametro della macina e la ridotta velocità di rotazione schiacciano il chicco senza bruciarlo e mantengono la crusca, il germe, le vitamine, i sali minerali. Una vera riserva di vitalità!

Infine, la semola grezza viene impastata secondo le regole dell’antica lavorazione manuale. La trama grossa della farina e la trafila in bronzo donano alla pasta una naturale rugosità, indispensabile per legarsi al condimento. Il passaggio conclusivo è l’essiccatura. Il segreto è la lentezza, unita anche in questo caso alla bassa temperatura.

«Pensate che occorrono fino a due giorni per asciugare la pasta! – esclama Davide davanti alla telecamera. – Una cosa impossibile per l’industria!»

Occorre pazienza, ma ne vale la pena: questa filiera è la base della nostra alimentazione.

Nel frattempo, nel cortile del pastificio, l’acqua bolle in pentola; il sale si scioglie, la pasta si cuoce e viene scolata perfettamente al dente. Il primo piatto dei primi spaghetti del feudo Mondello è pronto e viene servito al tavolo che abbiamo allestito in mezzo al campo arato di fresco, tra balle di fieno e sacchi di grano. Una festa che anticipa il raccolto. Osservo Davide mentre mangia quella pasta appena nata. Siamo nel mezzo del niente, e abbiamo tutto a disposizione.

Grano, farina, pasta: questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Sicilia, nella valle del Belice; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Il Panatè del Tanaro.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Rocchetta Tanaro, il paesaggio l’Alto Monferrato. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Ieri notte era scattata l’ora legale e non avevo regolato la sveglia. Quando al mattino mi sono alzato fresco e ben riposato, ho scoperto di avere un’ora di ritardo. Per fortuna Rocchetta Tanaro è un paese veloce da raggiungere, ad appena quindici chilometri da Asti. Il nostro regista mi telefona per sapere se sto bene. Lo rassicuro, mentre supero il casello e mi immergo nella campagna del Monferrato. Una manciata di curve ampie e brevi rettilinei che attraversano la pianura lungo il Tanaro, prima delle colline del Barbera e del Grignolino. Per raggiungere il forno di Mario – il protagonista della puntata – bisogna girare a destra subito dopo il fiume. Quando arrivo, Davide ha appena indossato il costume di scena ed è pronto per iniziare le riprese. Sono pronto anch’io.

Cominciamo dal paese, un borgo di origini antichissime di cui oggi rimangono alcune testimonianze medievali che affiorano tra le costruzioni più recenti. I primi abitanti giunsero attraverso il Tanaro oltre quattromila anni fa. Una lunga storia, di una comunità profondamente legata alla propria terra.

Sulle sponde del fiume, il bosco di querce è fitto come doveva essere una volta. Ma ci sono anche dei faggi, ricordo di una popolazione arborea diffusa al termine dell’ultima glaciazione. Ci incamminiamo nel bosco e percorriamo i piacevoli sentieri alla ricerca del grande faggio, un esemplare monumentale alto più di 25 metri e vecchio di secoli. Lo troviamo in posizione nascosta, su un costone scosceso in ombra. Davide abbraccia il tronco e scopre quanto sia grande. Percepisce il profumo della corteccia, la ruvidità del fusto, sente la linfa che scorre lungo le vene del legno fino ai rami più alti, che sembrano dissolversi nel cielo. Forse pensa all’albero del suo Padiglione Zero, che sfondava il pavimento e il tetto comunicando la generosa potenza della natura. Per rendere onore a questo monumento vivente, il nostro operatore dà fondo al repertorio di trucchi del mestiere e si sdraia nel fossato per inquadrare il faggio dal basso. Poi sceglie un grandangolare ed esalta con il controluce la chioma dei rami, con un diametro di oltre venti metri.

Al termine della passeggiata, prima di tornare alle macchine, attraversiamo il Pometo della memoria, un luogo dedicato alla biodiversità dove si recuperano a scopo educativo antiche cultivar di mele dell’Astigiano ormai scomparse. Davide passeggia accanto agli alberelli e domanda alla guida i nomi delle varietà. Assomigliano ai versi di una poesia, con una seducente metrica interna: Carlo Bianco, Ciucarina, Calvin, Gamba fina, Piatlin, Pom Marcon, Ruscaio

In mezzo a tutto questo verde, Mario ha dedicato la sua vita all’arte bianca. È diventato un panettiere – panatè come si dice da queste parti – molto particolare.

Ha iniziato a lavorare all’età di otto anni. A dodici è andato a Torino e lì ha imparato il mestiere. Poi, con l’aiuto prezioso della moglie, ha saputo andare oltre il pane; ha inventato le lingue di suocera e ha rinnovato la tradizione dei grissini piemontesi.

Tutto fatto a mano, come una volta, eppure tutto nuovo.

Mi racconta che ad Acqui lavorava un anziano artigiano che preparava con l’impasto dei grissini delle sfoglie piatte, friabili e croccanti. Mario ha colto l’ispirazione e ha trasformato quella ricetta nelle sue lingue di suocera. Oggi realizza insieme al figlio Giovanni vere e proprie sfoglie di pane con tre lievitazioni successive che esporta in tutto il mondo. Sono stirate a mano e raggiungono la lunghezza di circa quaranta centimetri. Poi il panatè le buca perché non crescano troppo nel forno e le spazzola per togliere l’eccesso di farina. Infine le cuoce a bassa temperatura e anche il confezionamento è manuale.

«Per forza» esclama Davide «non ce n’è una uguale all’altra!».

Il ciclo di lavorazione comincia con la selezione delle farine, poi si aggiunge olio extra vergine di oliva Taggiasca non filtrato, piacevolmente abboccato e con un giusto grado di acidità. Ma il segreto del forno di Mario è il lievito madre, che aveva creato lo zio pasticcere e che oggi ha più di un secolo.

La lievitazione naturale si caratterizza per i tempi lunghi di maturazione e l’abbondanza di batteri lattici che permettono un’idrolisi più completa degli amidi della farina. Ne deriva una complessità di gusto superiore, una migliore digeribilità e una maggiore durata del prodotto che resta sempre croccante, come appena sfornato.

Mentre Davide, davanti alla telecamera, trasforma in racconto la chimica della lievitazione, Mario e Giovanni impastano e stirano a mano i grissini, il prodotto da forno più tipico del Piemonte.

L’obiettivo del regista segue con attenzione i gesti degli artigiani. Indaga la regolare irregolarità dei grissini e scopre che la loro lunghezza è determinata dall’apertura di braccia del fornaio. Poi osserva le dita che ruotano velocemente perché le estremità del grissino non siano troppo grosse.

Anche i tradizionali rubatà, che in piemontese significa “caduti”, sono lavorati a mano e presentano una tipica forma nodosa. Sono il grissino più antico: derivazione diretta di quei bastoncini di pane inventati nella seconda metà del Seicento dal fornaio di casa Savoia per nutrire il futuro Vittorio Amedeo II, che era cagionevole di salute e non riusciva a digerire la mollica del pane.

Medicina e gusto hanno trovato nei grissini un punto d’incontro ideale e un secolo dopo la loro invenzione, Napoleone ordinò che un corriere portasse regolarmente a Parigi les petits bâtons de Turin.

Anche Mario porta le sue creazioni in tutto il mondo. Grazie alle sue lingue di suocera e ai suoi grissini, alla Barbera di Braida e alle canzoni di Bruno Lauzi, il nome di Rocchetta Tanaro ha viaggiato ben oltre i confini del fiume e delle colline.

L’azienda di Mario sforna numeri importanti, eppure rimane una realtà artigianale, dove la mano e la mente umana comandano ogni fase del processo di produzione. La manualità è una scelta obbligata. Le macchine non sarebbero mai in grado di stendere prodotti come le lingue di suocera e i grissini senza rompere il fragile alveo dell’impasto. È una questione di sensibilità e di esperienza: la ricerca dell’equilibrio.

«Se si perde l’equilibrio, addio friabilità e fragranza!» esclama Davide.

Poi prende una lingua di suocera, la spezza e la porta alla bocca.

«Anche questa è l’Italia della qualità – esclama, – un paese dove la bontà del cibo non si rompe nemmeno quando si spezza!3

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Rocchetta Tanaro, nell’Alto Monferrato; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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La birra delle Fiandre piemontesi.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Marentino, il paesaggio le colline torinesi. Le coordinate geografiche sono 45°3’ Nord e 7°52’ Est.

Il nome è dolce. Marentino: piccolo mare di rilievi verdeggianti, dove tra ciuffi di bosco, greti di fiume e campi coltivati, spuntano tetti di case, pietre di castelli, insegne di osterie.

Ci troviamo a trecento metri sul livello del mare, una ventina di chilometri da Torino. Sotto di noi c’è la Pianura Padana; sopra, le cime dell’arco alpino. Una vista che immagino suggestiva, oggi un po’annebbiata dalla foschia.

Dovrebbe alzarsi un filo d’aria per pulire il cielo, ma quando il nostro piccolo drone si alza in volo, le montagne restano nascoste dietro un cielo bianco verticale, come una tenda. Giornate piemontesi, soleggiate eppure in ombra. Questa è una terra generosa e riservata, che va presa al momento, cogliendo il buono di tutto.

Raggiungiamo il punto più alto del paese: la Chiesa dell’Assunta, costruita sui resti dell’antico castello feudale dei Beccaria. Di quell’impianto difensivo medievale rimane la posizione di dominio e il possente campanile che un tempo era la torre del castello. Tra un decollo e un atterraggio del drone, che in andata scruta il paesaggio e al ritorno insegue Davide con la sedia in spalla, leggo un cartello turistico posto sull’edificio sacro. Scopro che nella chiesa è custodita una grande pala d’altare, copia dell’Assunta di Guido Reni. Mi riprometto di tornare. A Marentino non ci sono le montagne da vedere.

Lasciamo la cima del colle e scendiamo in paese. Qui a Marentino, forse in onore del silenzio piemontese, hanno deciso di far parlare i muri. Se avete un po’ di tempo libero, fermatevi a guardare le facciate delle case. Ci sono tanti rebus da risolvere: decori intriganti, di un’allegria un po’ dimessa, non troppo giovane. Colori tenui e figure d’altri tempi, con scorci mitologici incastrati nelle abitazioni di città anni Sessanta, dettagli di libri e locandine di cinema, chiese e frutti dei campi. Un mondo di parole piane e sdrucciole, sillabe che s’incastrano tra loro e con l’aiuto di qualche lettera formano frasi inutili, ma di senso compiuto.

«Brocca pieNA di viNO!» esclamo avvicinandomi a Davide.

Lui sorride. Sta cercando di risolvere un altro rebus con le stelle al posto delle lettere.

Questo è difficile. Però sullo sfondo del dipinto ci sono le montagne innevate. Ecco l’arco alpino che si nascondeva dietro il cielo! Lo faccio notare a Massimo, il nostro regista, che s’illumina e inquadra il dettaglio. Non sopporta che io scriva qualcosa nei testi che poi lui non riesce a riprendere nella realtà.

Noi però non siamo venuti per risolvere rebus, ma per conoscere Valter, uno dei più qualificati e interessanti mastri birrai italiani. Un artigiano tanto piemontese da sembrare quasi belga.

In Italia sono nati negli ultimi anni tantissimi microbirrifici e nel paese del vino si è diffusa la cultura della birra. Però non esiste un altro birraio come Valter.

Ha cominciato a produrre per passione, poi è nata una professione. Voleva recuperare l’antica tradizione delle Fiandre, dove le birre si producono in famiglia, seguendo ricette che si tramandano da generazioni. Valter ha incontrato quel mondo in via d’estinzione e lo ha messo in contatto con la nostra cultura contadina del vino. Le sue birre nascono dal legno, dalla frutta, dalle spezie, rielaborando e rinnovando antiche ricette.

Sono tutte birre sour, cioè acide: proprio come il vino. Valter ha cominciato subito a lavorare con fermentazioni spontanee, inoculo di lieviti selvatici, passaggi in legno, utilizzo di frutta e spezie locali, uva e mosti; poi, dopo anni di sperimentazioni, ha cominciato a vincere premi e a ricevere ordini da tutto il mondo.

È interessante notare come noi italiani – così abituati all’acidità del vino – associamo il gusto della birra all’amaro del luppolo. E infatti, le birre acide di Valter sono apprezzate soprattutto all’estero. Il suo Piemonte sour è sbarcato negli Stati Uniti, in Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Scozia, Irlanda, addirittura in Australia.

In Italia, le birre di Valter sono ancora un piccolo rebus. Per apprezzarle, bisogna conoscerle e capirle.

«Certo che hai fatto una scelta radicale!» gli dico in una pausa di lavorazione.

Lui mi guarda con un sorriso timido.

«Voglio dire, solo birre speciali, addirittura specialissime, con prodotti di stagione…»

Valter mi versa un goccio di birra al cardo e sorride ancora. Prende fiato, beve.
«È vero» dice infine «Mi sono imposto fin dall’inizio di vivere delle produzioni di nicchia».

«Potresti fare anche tu una birra tradizionale, da servire ghiacciata con la pizza, piena di buoni luppoli tedeschi».

«Potrei, ma non avrebbe senso. Non per me».

Ancora una volta mi lascio affascinare dalla mente dell’artigiano, che percorre sempre la strada che ha in mente. Artigiano e artista: un confine labile, indefinibile e sfumato. Si lavora per vivere, ma è il lavoro che dà la vita. E quando si lavora per gli altri, e sempre per sé stessi che ci si mette all’opera.

Artigiani e artisti: beni culturali viventi, come li chiama Davide nei suoi corsi all’università.

Proprio Davide si avvicina a noi e sorseggia una birra scura, fatta di spezie e caffè. Insieme a Valter scorriamo l’elenco delle ricette che negli anni ha faticosamente perfezionato. Accanto ai due tini di rovere delle fermentazioni naturali, ci sono circa duecento ettolitri di birra che affinano nel legno per mesi e mesi, anche più di un anno.

La produzione di Valter è scandita dai tempi della natura e dalle maturazioni delle materie prime che sono sempre tipicità piemontesi: uve Barbera e Nebbiolo, susine damaschine, albicocche, cardo, timo serpillo, e poi caffè, china calissaia, rabarbaro, genziana, zafferano…

Il luppolo nobile è opportunamente invecchiato, in modo che perda le proprietà amaricanti e possa essere utilizzato solo come conservante naturale.

«La birra si fa con il malto» ribadisce Valter «non con il luppolo».

Tutte queste birre sono piccole opere d’arte, realizzate a mano da Valter. E anche le etichette sono disegnate da lui. Il mastro birraio apre la cartella dei lavori, prende alcuni fogli bianchi e una scatola di matite colorate. Sotto l’occhio ravvicinato dell’obiettivo accenna il delineo di alcune delle sue figure tipiche. Con un segno molto personale, ironico e lieve, ripropone le raffigurazioni di affreschi medievali, con i prodotti della terra e i personaggi della cultura del tempo.

Contadini, monaci, dame, cavalieri… Ogni birra un’immagine, ogni sorso una storia.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi…

Venite a Marentino, sulle colline torinesi; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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