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Il cicotto di Grutti.

Oggi siamo in Umbria. Il paese è Grutti, il paesaggio l’Altopiano Petroniano: un vasto pianoro sospeso a cinquecento metri di altezza. Le coordinate geografiche sono 42°50’ Nord e 12°28’ Est.

Arriviamo tardi e con il buio non riusciamo ad apprezzare l’ampiezza dello scenario. Rimandiamo all’indomani mattina, dal castello di Grutti, la vista d’insieme delle colline di Todi, Massa Martana e Montefalco. Siamo nel cuore dell’Umbria, nel centro esatto della regione. Il castello di Grutti è una suggestiva costruzione medievale del XII secolo con un torrione a base quadrata, alto una ventina di metri e largo otto. Accanto c’è la chiesa romanica di Santa Maria d’Agnello, realizzata in travertino sui resti di una precedente abbazia. È del XIII secolo, con alcuni tocchi gotici che slanciano le bifore, il portale della facciata e il tetto a capriata. Guizzi d’agilità in un’architettura solida e quieta.

Due giovani netturbini, un uomo e una donna, stanno pulendo con cura la piazza. Hanno bagnato il selciato, come avrebbero fatto due direttori della fotografia per renderla più luminosa. Attorno agli edifici storici si è creato un piccolo borgo di case in pietra. Davide cammina tra i vicoli, con il passo deciso e la sedia in spalla; i toni caldi degli abiti si riflettono sulla superficie lucida delle pietre umide. Ci allontaniamo dal centro abitato e ci avventuriamo nelle campagne alla ricerca di uno spazio aperto dove mettere la sedia. Procediamo verso nord e ci fermiamo nei pressi di un grande terreno scosceso appena seminato. Appollaiato sulla vetta del pianoro, Davide spiega che il paese si chiama Grutti perché il monte è pieno di grotte: profondi cunicoli scavati nel travertino che hanno offerto riparo e protezione alle prime comunità di cristiani. Quelle gallerie sono state catacombe, poi magazzini e ricoveri di campagna, infine rifugi antiaerei. Ci sforziamo di individuare almeno una delle grotte di Grutti, ma non è facile, perché molte sono nascoste dalla vegetazione dei campi, alcune sono interrate e altre sono impossibili da raggiungere.

Ci indicano una casa. Il proprietario ci accoglie e ci guida in uno spazio nascosto del suo terreno. Una ripida scala a chiocciola permette di scendere in uno stretto corridoio, tra un muro e il monte. Lì sul fondo c’è una piccola grotta, dove mi dicono sia stato partorito un bimbo; poi una galleria, lunga oltre venti metri, che s’insinua nel ventre della montagna. Marco, il nostro operatore, accende il faro della telecamera e si avventura ginocchia a terra nel cunicolo. Dopo poco sparisce e non sentiamo più i suoi passi.

– Non è un romanzo, non lo monterò mai! – grida Massimo, il regista – Basta un’inquadratura di un secondo!

Invece passano alcuni minuti. Massimo accende una sigaretta e sbuffa, un po’ di fumo e un po’ d’inquietudine. Poi Marco si materializza all’esterno della galleria, con l’espressione soddisfatta di chi sa di aver catturato delle buone immagini.

Il castello, il pianoro sospeso, la grotta; siamo felici delle prime riprese e possiamo iniziare a lavorare sul serio. Finora abbiamo giocato ai turisti – anzi, agli ospiti – lasciandoci guidare da Luca, il protagonista della puntata. Siamo venuti qui per parlare della porchetta e soprattutto del cicotto, la specialità di Grutti. Luca ha raccolto l’eredità del nonno Valeriano e con lo zio Mauro si dedica a questa antica arte della lavorazione del maiale che si tramanda di padre in figlio. A Grutti ci sono tre famiglie che producono la porchetta e il cicotto, ma quella di Luca è stata la prima. Mi racconta che il nonno possedeva il forno del paese e ogni volta che si ammazzava il maiale era una festa per tutti. La gente faceva la fila davanti al forno e le persone più povere aspettavano con una gavetta di metallo per raccogliere il grasso di cottura. Quel brodo avrebbe dato sapore alle zuppe e nutrimento ai bambini.

– E i mercati? – domando – Quando è nata la porchetta come cibo di strada?
– I mercati sono venuti dopo, negli anni sessanta – dice Luca – ma il nonno Valeriano aveva visto lungo e già nel dopoguerra andava con l’asino in giro per i paesi dell’Umbria, della Toscana e del Lazio. Con la bicicletta si recava a Viterbo per acquistare il sale migliore, poi cucinava la porchetta e la metteva in una cassa di legno, la caricava sull’asino e la vendeva nei mercati del bestiame, davanti alle chiese e nelle feste di paese. Stava fuori giornate intere e aveva tutta la sua rete di conventi e locande dove fermarsi.

– Oggi usate i furgoni.
– Moderni autonegozi: comodi, veloci, igienici.
– Un’altra vita?
– Un’altra vita.

In realtà non è proprio un’altra vita. La passione e l’impegno sono rimasti gli stessi, la fatica è simile e la professionalità è molto aumentata. Ogni giorno, Luca e Mauro vendono la porchetta e il cicotto nei mercati della zona, da Marsciano a Perugia, da Terni a Tavernelle. Alla mattina presto, prima di lasciare il laboratorio, infornano il maiale; nel pomeriggio, dopo il mercato, preparano una nuova porchetta per il giorno seguente.

Tutto inizia con la scelta del suino, che proviene dalla Media Valle del Tevere. Ogni settimana, Luca e Mauro si recano negli allevamenti di fiducia e scelgono i capi migliori. Poi, una volta in laboratorio, disossano e conciano le carni. Davide indossa la parannanza e si dispone ad apprendere. Per lui è questo il momento più bello di ogni puntata di Paesi, paesaggi. Io esco e osservo la sua ombra che lavora in controluce, insieme a quelle di Luca e Mauro, oltre il vetro satinato del laboratorio. Intuisco i gesti, senza vederli.

Innanzitutto la disossatura, l’arte di non praticare troppi tagli, affinché durante la cottura la carne rimanga compatta. Poi la concia, con pochissimi ingredienti e nessuna dose: tutto q.b. – quanto basta – né troppo né troppo poco. Sale, pepe, finocchio fresco, aglio rosso di Cannara, tutto battuto a mano e cosparso solo dove serve. Quindi la ricucitura, con ago e spago. Davide imita i gesti di Luca e a poco a poco impara i nodi, intuisce i punti dove far passare il filo. Difficile dire dove finisca la norcineria e dove inizi la tessitura. Non sono molti i gesti degli artigiani. Infine la cotturalenta e paziente, che dura in media una decina di ore.

E il cicotto? Ricordate il grasso di cottura del maiale che la gente aspettava in fila davanti al forno con la gavetta in mano? Quello è la chiave di tutto; unito agli scarti del maiale opportunamente puliti diventa il vanto di Grutti: una vera delizia in versione street food. Orecchie, zampetti, stinco, lingua, trippa e altre interiora vengono infornate sotto la porchetta, per raccoglierne il grasso e le spezie.
– Vi assicuro, non si può spiegare! – esclama Davide addentando un panino al cicotto davanti al furgone di Luca e Mauro, nel mercato di Marsciano.
Poi aggiunge – Si deve assaggiare!

Oggi si fa un gran parlare di cibo di strada. È diventato di moda. Ma quanta storia e quanta cultura racchiude un panino al cicotto come quello?

Evviva l’Italia della qualità: ovunque sia, anche in strada!

Venite in Umbria, a Grutti; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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I ragni di D’Annunzio.

Oggi siamo in Abruzzo. Il paese è Rocca San Giovanni, il paesaggio la Costa dei Trabocchi. Le coordinate geografiche sono 42°15’ Nord e 14°27’ Est.

Bisogna immaginarselo questo tratto di costa adriatica, con le insenature, le scogliere, le colline ricoperte di oliveti che si tuffano ripide sulla spiaggia.

Tra la terra e il mare corre la vecchia linea ferroviaria, ormai dismessa. Un passo più in là affiorano i trabocchii ragni di D’Annunzio, simili a preistoriche creature anfibie. Il poeta si ritirava spesso su queste colline e i trabocchi erano parte integrante del suo paesaggio. Costruzioni apparentemente precarie, capaci invece di resistere al mare e distendersi verso il largo appoggiandosi agli scogli.

– Bisogna avere un po’ di immaginazione – dico a Massimo, il nostro regista, e a Marco, l’operatore, mentre usciamo dall’autostrada e percorriamo gli ultimi chilometri lungo la litoranea. Sono ore che guidiamo e ormai è buio. Ma soprattutto siamo immersi nella nebbia e non riusciamo quasi a vedere i cartelli stradali.
– Qui in inverno è spesso così – ammette Marino, il protagonista della puntata. Ci incontriamo all’ingresso del nostro albergo, poco dopo.
– Certi giorni – prosegue – al mattino e alla sera la nebbia è molto fitta. Poi si alza, quando arriva il calore del sole.

Marino è un giovane pescatore e agricoltore, proprietario del grande trabocco di famiglia che ha recentemente restaurato, sotto la supervisione attenta del padre. Mi spiega che i trabocchi sono gli antichi strumenti di pesca degli agricoltori della zona. Quegli uomini ingegnosi e coraggiosi, non possedevano barche e nemmeno sapevano nuotare, così inventarono queste strutture in legno per spingersi al largo, senza muovere un passo da terra.

Il ristorante dove ceniamo è proprio sulla spiaggia, di fronte al trabocco di Marino. Prima di sederci a tavola, torce alla mano, ci avventuriamo sullo scheletro del dinosauro addormentato. La passerella affiora nella nebbia e il corrimano offre un appiglio sicuro.
– Un tempo non c’era – dice Marino camminando sulle acque davanti a noi. Poi esclama: Sul trabocco saliva solo il traboccante: era troppo pericoloso!
Il trabocco è bellissimo e suggestivo. Vorrei descriverlo, ma nella notte e nella nebbia, con la luce fioca della torcia che rimbalza negli occhi, posso solo immaginarlo. Tornati nel ristorante, definiamo il programma delle riprese. Massimo, il regista, è determinato a filmare la creatura lignea avvolta dai fumi della nebbia che si dissolvono tra i bagliori rosati dell’alba. Ha un’immagine precisa in mente. Domattina presto sarà lì, sulla spiaggia, ad aspettare che il quadro si formi nell’obiettivo della telecamera.

L’indomani mattina, appena sveglio, guardo fuori dalla finestra in cerca dell’alba. È ancora buio e la nebbia è sempre fitta. Mi vesto con calma e scendo a fare colazione. Sono tutti lì, tranne Massimo e Marco. Loro sono sulla spiaggia, ad aspettare l’immagine giusta, quella che non arriva mai se non le vai incontro. Li troviamo infreddoliti, con la telecamera spenta. Marino è con loro, un po’ dispiaciuto. Ha il telefonino pieno di immagini di tramonti e albe mozzafiato che fanno da sfondo al suo trabocco, il Sasso della Cajana.
– Cosa significa Sasso della Cajana? – domando.
– Sasso è lo scoglio, cajana il gabbiano: scoglio del gabbiano.

Guardo verso il mare. Scorgo la prua del Sasso della Cajana, da dove sporgono le antenne, due lunghi pali che sorreggono la rete. C’è una coppia di gabbiani in controluce che distendono il corpo mentre il sole affiora nel cielo. Aprono le ali; le sbattono nell’aria schizzando gocce d’acqua. È il segnale. La nebbia si sta dissolvendo e possiamo cominciare. Marco, l’operatore, accende la telecamera.
– Azione! – esclama Massimo, mentre Davide mette la sedia in spalla e s’incammina lungo la passerella del trabocco per raccontare una nuova storia.

Come dicevamo, i trabocchi sono le antiche costruzioni realizzate dai contadini per pescare. Sono enormi camminamenti costruiti sugli scogli: architetture d’aria, fatte con materiali di risulta e legni di pino o di acacia.

Marino è un moderno traboccante, un giovane pescatore che ha recentemente restaurato il trabocco che era del padre e prima ancora del nonno. I pali sembrano disposti a caso, ma sul trabocco niente è per caso. Su queste strutture essenziali e funzionali, c’è spazio solo per ciò che serve dove serve. Tutto deve essere leggero e solido, capace di parlare con la natura e resistere al vento e al mare. I legni si spaccano a mano e si toglie la corteccia, poi si infilano tra gli scogli e quando si gonfiano d’acqua formano delle strutture solide.

Il trabocco è una creatura viva: è sempre lui che chiede al suo traboccante dove mettere o togliere un palo. Marino mi racconta che quando restaurava il Sasso della Cajana, spesso gli capitava di mettere un palo che credeva fosse necessario. Poi, una volta terminato il lavoro, il trabocco gli tornava in mente e lo svegliava di notte, con il ricordo confuso del suo intreccio di pali. Marino non si dava pace, finché capiva l’errore. Allora tornava sul trabocco e toglieva il palo di troppo, quello che pensava giusto e che invece appesantiva la struttura. Il legno che irrigidiva invece di irrobustire.

In fondo alla passerella c’è la zona di pesca vera e propria, con le antenne e la rete, chiamata trabocchetto.
– Una trappola, un tranello, da cui il nome: trabocco! – dice Davide durante le riprese. Poi si alza di scatto e aiuta Marino e il padre a muovere il grande argano. D’istinto si butta all’estremità del palo. Il padre di Marino, l’anziano traboccante, lavora invece all’inizio del legno, proprio accanto alla ruota dell’argano. L’esperienza gli suggerisce di posizionarsi là, dove farà meno fatica e il gesto sarà più efficace.

La rete adesso è in acqua. Il pesce si avvicina. Marino scruta il mare dalla prua del trabocco: un pulpito che sembra una balconata sull’Adriatico. Quando il pesce arriva al centro della rete, lancia l’ordine di salpare. Gli uomini all’argano ricominciano a girare in senso contrario e sollevano la rete sopra la superficie del mare. È molto pesante, gonfia d’acqua. Per catturare il pescato, che guizza nell’aria al centro della rete, si usa uno speciale guadino chiamato volega. Anche questo viene azionato da bordo del trabocco con un ingegnoso sistema di cime e carrucole che permettono di manovrarlo a metri di distanza.

Pesce azzurro, spigole, cefali, novellame… Un tempo i pescatori erano contadinioggi sono anche ristoratori. Le leggi che avevano incentivato negli anni novanta il recupero dei trabocchi, permettono oggi di utilizzarli nei mesi estivi come piccoli ristoranti. Pochi tavoli, sospesi sull’acqua. E nei piatti, solo il pesce freschissimo del trabocco. La madre di Marino si mette ai fornelli e noi ci sediamo a tavola. Sarebbe tempo di andare, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi. Ma prima c’è una paranza da onorare. Nessuno cucina il pesce come il pescatore.

Massimo ci riprende con la telecamera a spalla, mentre mangiamo insieme a Marino e alla sua famiglia. La nostra gioia andrà in televisione.
– Anche questa è l’Italia della qualità!- esclama Davide, prima di chiudere la sedia e incamminarsi verso la terraferma lungo la passerella del trabocco.

Venite anche voi in Abruzzo, sulla Costa dei Trabocchi; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Backstage mulino di Bert.

Siamo stati in Friuli Venezia-Giulia, a Codroipo, nel Parco delle Risorgive. La zona di Codroipo – a un passo dal Tagliamento – è ricchissima di sorgenti d’acqua.  Il mulino di Bert (Umberto) prende acqua dalla roggia Sant’Odorico che scende da Gemona e si getta nel fiume Stella. È stato costruito nel ‘400 e appartiene alla famiglia di Umberto e di suo figlio Cristian dalla fine del ‘700.

È un gioiello di meccanica dove si macinano a pietra naturale antichi frumenti biologici e soprattutto si batte a mano lo stoccafisso. Il maglio in ferro batte sulla pietra e il calore si concentra sul pesce, che si stira senza che le fibre si rompano. Ormai non lavora pià nessuno così, nemmeno nei mari del Nord.

Guardate il backstage della puntata, che andrà in onda su Striscia la notizia nei giorni di Natale. All’inizio ci fermiamo sul Tagliamento e blocchiamo il traffico, poi il nostro regista danza con una simpatica passante al suono delle campane dell’Immacolata, infine andiamo nel Parco delle Risorgive e nel mulino.

 

Il grano della Majella.

Oggi siamo in Abruzzo. Il paese è Guardiagrele, il paesaggio il Parco Nazionale della Majella. Le coordinate geografiche sono 42°11′ Nord e 14°13 Est.

In Abruzzo basta mezz’ora per passare dalle onde dell’Adriatico alla neve della Majella. Lasciamo nel pomeriggio la costa dei trabocchi, dove abbiamo girato una bella puntata sui ragni di D’Annunzio, e saliamo verso le alture di Guardiagrele. È buio e fa fresco. La serata però è limpida e c’è una bellissima stellata. Tra le stelle della Majella brilla quella di Peppino – il protagonista della puntata – uno chef che divide gli onori della guida Michelin con la sua famiglia. Innanzitutto la madre Ginetta, che molti anni prima aveva aperto una piccola osteria vicino al mulino, come rivendita di panini e bibite e vino per gli operai della zona; poi la moglie Angela – un vero angelo dei fornelli – e i figli: Arcangelo in cucina e Pascal in sala. Sono stati entrambi alla scuola di grandi maestri francesi e italiani, poi sono tornati sulle pendici della Majella. Nelle grandi città farebbero chissà quali numeri, ma qui hanno l’aria e i cibi che servono alla loro cucina. Il ristorante da un latola fattoria dall’altro: le verdure dell’orto, gli animali della stalla, le ricette di casa.

Anche Peppino, da ragazzo, era stato nel mondo a imparare il mestiere. Quando era tornato a Guardiagrele aveva capito che non c’era la possibilità di cucinare come aveva imparato a fare alla Giudecca, da Cipriani; così, a poco a poco, ha plasmato le sue capacità con le qualità della sua terra, inventando una cucina raffinata ma gustosa, sempre a misura di palato. Chi meglio di lui può guidarci alla conoscenza della Solina, la madre di tutti i frumenti abruzzesi?

La Solina è un grano tenero molto antico, documentato già nel Cinquecento, che cresce in montagna oltre i mille metri di altitudine. Un frumento biologico, perché in inverno a quelle altezze nessun parassita si azzarda ad avvicinare le piantine che fanno capolino tra il ghiaccio e la neve. Peppino ci accompagna tra le zolle dei suoi luoghi, presentandoci agricoltori e mugnai. Quando impiega la Solina per fare il pane e la pasta in casa, reinventando i piatti della tradizione, lavora anche al rammendo del territorio. Se ci pensiamo bene, un ristoratore è un narratore che mette in scena le vicende della comunità, la sua storia e la sua cultura. Il convivio ha da sempre la forza del teatro. Forse più del teatro.

Domani ci arrampicheremo sulla Majella, tra i campi appena seminati di Solina. Adesso invece, prima di cena, diamo un’occhiata al paese. Guardiagrele è un antico borgo di origine medievale, della cui cinta muraria resiste la torre a fare da argine. Poco più in là c’è la porta di San Giovanni: la varchiamo e percorriamo il corso in leggera salita. Alcune costruzioni restano splendide. Colpiscono i ferri battuti dei balconi, sottili e slanciati, come realizzati per sottrazione. Infine la cattedrale di Santa Maria Maggiore. Mi appoggio al muro e tocco la pietra della Majella, alzo la testa e mi perdo nella torre campanaria del Trecento, poi giro intorno alla facciata e scopro un porticato che sembra l’antica loggia del mercato. Al buio non vedo subito l’affresco di San Cristoforo, poi ne scorgo la monumentalità e la finezza scrostata dal tempo. Domani mattina torneremo qui, con la luce del sole e la sedia di Davide.

Tutto questo domani. Adesso dobbiamo tornare al ristorante: Peppino batte il tempo. Prima però passiamo in pasticceria a prendere le sise delle monacheil dolce tipico di Guardiagrele. Due strati di pan di spagna farciti di crema pasticcera. Il nome è bizzarro. Peppino diventa serio e ci fa notare la forma del dolce, con tre protuberanze.
– Le monache di Guardiagrele avevano tre seni? – domanda Gianluca, il nostro scenografo, esperto di dolci e di seni.
– Pare di sì – ammette Peppino – Due erano veri, il terzo lo mettevano al centro del petto per rendere meno evidenti gli altri…
Incartiamo le sise e torniamo al ristorante. Non abbiamo prenotato e siamo ospiti; non possiamo arrivare in ritardo.

Peppino si siede al tavolo con noi. Arcangelo, il figlio chef, lavora nell’ombra della cucina e sforna con la madre piatti ricchi di personalità e al tempo stesso equilibrati, garbati. Una semplicità che arriva al palato e dà gioia. La semplicità è la cosa più difficile da raggiungere: arrivare al cuore delle cose, fermandosi quando non c’è più niente da togliere. In genere si fa il contrario e ci si ferma quando non c’è più niente da aggiungere.

Pascal, il figlio minore, tiene le redini della sala: presenta i piatti con passione e li accompagna con i vini giusti: su tutti il Cerasuolo e il Montepulciano d’Abruzzo in tre declinazioni diverse. Davide si sente davvero come a casa. Si lascia guidare e noi gli andiamo dietro. La cucina di Peppino e della sua famiglia assomiglia a un’aria lirica, quando l’interpretazione non intacca la dizione, che rimane perfetta. Le parole del cantante devono sentirsi tutte, tra un respiro e l’altro, così come gli ingredienti nel piatto.

L’indomani, la montagna. La Majella è stupenda, colorata d’autunno. I boschi di faggio ci accompagnano lungo la via. Poi scompaiono le piante e restano i pascoli, sotto il ghiacciaio. Raggiungiamo la cresta e mettiamo la sedia di Davide al centro di un palcoscenico immenso, con il Gran Sasso di sfondo e i Monti Sibillini più indietro.

Scatto alcune fotografie, mentre Davide interpreta le battute. Sembra seduto nel cielo, sospeso nell’aria. Lo scenario ideale per parlare della Solina, di questo grano tenero abruzzese che faceva dire ai vecchi: Sopra la neve la fame, sotto la neve il pane. Un frumento di montagna che cresce bene anche su terreni poco fertili e pietrosi. Una volta macinato, rigorosamente a pietra naturale, sprigiona profumi e sapori dimenticati. La morbidezza dell’impasto di Solina, povero di glutine, è molto piacevole da lavorare.

Sul banco di legno della cucina, Davide imita i gesti di Peppino: intensità e ampiezza, il tempo necessario. Prepara insieme a lui alcuni filoni di pane da cuocere nel forno a legna e poi degli gnocchi di Solinadove al posto delle patate utilizza il pane raffermo. Poi condisce con una passata di verdure di stagione e il piatto è pronto da servire in tavola. Infine un guizzo creativo: Davide esce di scena e Peppino realizza sotto l’occhio della telecamera una speciale sfoglia di Solina con ragù di cinghiale. La macchina da presa è tutta per lui. Ma la famiglia è accanto: Angela, Arcangelo e Pascal lavorano a un passo dall’inquadratura. Sorridono, si scambiano occhiate, si prendono in giro. Sono quattrosommati fanno unoUna famiglia.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite in Abruzzo, nel Parco Nazionale della Majella; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Venezia, Giudecca: pesca alle moeche.

Oggi siamo in Veneto. Il paese è un’isola: la Giudecca. Il paesaggio, la laguna di Venezia. Le coordinate geografiche sono 45°25’ Nord e 12°19’ Est.

È un mare strano quello di Venezia, un mondo di acque basse in continuo movimento e trasformazione. Visto dall’alto, sembra un merletto. Tra briccole, tralicci, barene e reti, le rotte sono sentieri nascosti, come le vie dei canti. La prima volta che avevo visto Venezia ero insieme a Corto Maltese. L’avevo conosciuto da ragazzino nel mare salato e lo ritrovavo da adolescente tra le calli della Serenissima. Era il mio eroe: navigava la vita come solo i marinai sanno fare, abituati a galleggiare sull’ignoto. Il futuro, per un marinaio, non è davanti, ma sotto. Danzava la vita, in bilico sull’Equatore, dai mari del Sud alla laguna di Venezia. Luoghi di simboli e magie, animali che mutano pelle e terre che affiorano dall’acqua. Moeche che tornano granchi, barene che si dissolvono nella marea.

Ivan – il protagonista della puntata – è uno degli ultimi pescatori di moeche. È un uomo solido, con un sorriso aperto che sfoggia con parsimonia. Sarà lui il nostro Corto Maltese, il marinaio che ci guiderà in laguna. Cesare, il ristoratore di Venezia che ci aveva messo in contatto, mi aveva parlato molto di lui.
– È un uomo forte – aveva detto – molto forte.
Così, lavorando alla sceneggiatura, avevo cercato qualche sua fotografia. Ne avevo scelto un paio e le avevo mandate a Massimo, il regista, e a Marco, il direttore di produzione. Tanto per mettere le cose in chiaro. Per far sapere ai miei amici di città che una parola di troppo, in barca con Ivan, sarebbe stato bene non dirla. Ci incontriamo in un locale sulla fondamenta. Me l’aspettavo più alto. Nelle foto aveva la faccia ruvida per lo sforzo, mentre maneggiava cògoli gonfi d’acqua e pesci e granchi. Adesso sorride. Gli stringo la mano. Davide dice qualcosa in veneziano, che è la sua lingua madre. Parliamo di moeche, ripassiamo la lezione. Siamo già in laguna.

L’indomani mattina abbiamo appuntamento sul pelo dell’acqua, come usa a Venezia. Su una comoda lancia viene a prenderci Manuel, il fratello di Ivan. È più giovane, cordiale, un grande conoscitore della città e della laguna. È un piacere stargli accanto e ascoltarlo parlare. A un tratto ha un dubbio su una data: non ricorda bene quando un certo doge abbia deviato il corso di un fiume. Intendiamoci, una cosa da niente. Però per lui importante.
– Sono cose che ho studiato qualche anno fa, per il mio lavoro…
– Che mestiere fai?
– Ho sempre fatto il pescatore, ma adesso sono gondoliere.
Spero che molti turisti colgano l’opportunità di stare in barca con Manuel. Un pescatore con il talento del racconto. Passando nel canale avevo notato una gondola ormeggiata vicino alla loro casa. Un po’ mal messa.
– Era quella la tua gondola? – chiedo eccitato.
Lui mi guarda e sorride.
– La mia gondola è bellissima…
Rido anch’io, di me stesso. Alle volte diciamo cose proprio stupide.

Ivan accelera e Manuel gli tiene dietro. Passiamo dentro e fuori la barena, scivoliamo tra i canneti e voliamo sulle onde nella laguna aperta. Fa fresco e c’è un po’ di mare. Poi ci fermiamo. Ivan ha raggiunto le reti e salpa un cògolo, che è una specie di lunga nassa. La marea è alta e si vedono solo i pali conficcati nella sabbia. L’uomo si sporge, immerge le braccia nell’acqua gelida e comincia a tirare. In una giornata di lavoro, mi spiega Manuel, il pescatore salpa alcune decine di cògoli.

Fare il gondoliere è duro, ma in confronto è una vacanza.

Nella nassa c’è una grossa anguillatanti pesci e tantissimi granchi. Oggi si pesca bene perché è venuto il freddo e si è alzato il vento da nord. Allora il fango si muove e i pesci finiscono nelle reti. Per essere precisi, le reti si chiamano trezze e sono disposte sulle secche in prossimità delle acque più profonde, in genere a 45° rispetto alla corrente. Formano dei corridoi che chiudono il pesce e lo indirizzano versi i cògoli, che sono gli attrezzi di pesca veri e propri. Hanno la forma allungata, con una serie di imbuti di rete posti uno all’interno dell’altro. Il pesce entra, nuota e va avanti finché non può più tornare indietro.

Sulla barca c’è anche una tavola di legno con i bordi rialzati, al centro dello scafo. È lì che Ivan rovescia il pesce ed è lì che effettua la prima selezione. I granchi vengono messi nei sacchiumidi di iuta e si portano a terra, nei casoni, dove si svolge la parte veramente difficile del lavoro del moecante, quella che lo distingue da qualsiasi altro pescatore. A terra, nel casone accanto ai rimorchiatori, tutta la famiglia e i dipendenti lavorano alla cernita. Le moeche sono i granchi maschi, che due volte l’anno – in primavera e in autunno – mutano il carapace e per poche ore restano senza corazza. Allora sono moe – molli – e per questo si chiamano moeche. Fritte sono uno dei piatti più ricercati della cucina veneziana e al mercato possono raggiungere cifre altissime. Come dice Davide, sono da copparse.

Vedere i moecanti al lavoro è uno spettacolo. Questi uomini grandi e forti, muovono le dita callose con la rapidità delle merlettaie. Separano a colpo d’occhio i granchi matti, che non faranno la muta, dai cosiddetti boni, che invece cambieranno corazza nel giro di poco. Sono come cercatori d’oro. Rivoltano i granchi alla ricerca degli spiàntani, le pepite d’oro del mare, che faranno la muta nel giro di poche ore. Quante? Nessuno lo sa, nemmeno il moecante. Certo, lui conosce la natura e intuisce cose che agli altri sfuggono. Però non ha certezze e così mette i granchi boni e gli spiàntani nei vièri, speciali casse di legno immerse nell’acqua.

Nei vièri i granchi attendono che la natura compia il miracolo. Il moecante, due volte al giorno, controlla. L’intero ciclo della muta dura al massimo una decina di ore.

Quando il granchio perde la corazza diventa moeca, poi torna granchio e non serve più.

Quanta fatica per portare in tavola questi piccoli animali semplicemente buoni da mangiare. Io avevo assaggiato le moeche solo una volta, da ragazzo. Adesso sono affascinato dal lavoro dell’uomo, capace di cogliere ciò che la natura offre. Credo che la vicenda quotidiana di una moeca e del suo moecante vadano molto al di là di una frittura. Mi affascina la dimensione simbolica del granchio che muta. Ancora una volta torna alla mente Corto Maltese con la sua Favola di Venezia, così densa di simboli e significati nascosti. Lo stesso Pratt, nell’introduzione al libro, diceva che i simboli seducono l’animo intrigante di un veneziano nel cuore.

La moeca è il simbolo della trasformazione, l’attimo della rincorsa prima di spiccare il volo. Come il leone di San Marco, che spiega le ali sorgendo dalle acque. El leon en moeca.

E comunque, buone sono buone. Anzi ottime. A patto di mangiarle con i pescatori, cucinate da loro. All’una in punto, siamo tutti a tavola. Ivan è già dietro ai fornelli, un altro pescatore lo aiuta. Il padre è il capo. Ha più di ottant’anni e ancora oggi, tutti i giorni, costruisce cògoli. Un altro merlettaio dalle dita grezze ma svelte, gli occhi sempre buoni. Lo filmiamo come merita, poi lo seguiamo mentre siede a tavola. Siamo in tanti e tutti parlano e ridono. La televisione è accesa. Ma la gerarchia è scolpita, come le leggi. Il padre in fondo, a capotavola. Alla destra il figlio maggiore. Ivan di fronte. Manuel accanto a Ivan. Poi i pescatori. Poi noi. Il vino è sincero e la pasta con le canocchie merita una manciata di stelle. Quando arrivano le moeche, il mondo si ferma.

Quasi quasi mi fermo anch’io, qui. Ma è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite alla Giudecca e nella laguna di Venezia; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le pietre della Lessinia.

Oggi siamo in Veneto. Il paese è Bosco Chiesanuova, il paesaggio la Lessinia. Le coordinate geografiche sono 45°37’ Nord e 11°1’ Est.

I servizi di Paesi, paesaggi nascono sempre prima della messa in onda. Bisogna individuare le storie, scriverle, girarle e montarle. Un lavoro lungo e minuzioso, che può cominciare da una segnalazione, un articolo, una parola ascoltata per caso. Può anche capitare che tutto nasca da un festival cinematografico. Massimo, il nostro regista, era stato al Lessinia Film Festival e si era innamorato dei luoghi e delle persone. Dietro le pietre di Prun aveva scoperto volti e lingue: culture come quella cimbra da conoscere e valorizzare.
– Luca dobbiamo assolutamente andare in Lessinia – mi aveva detto al telefono.
– Bene – avevo risposto io – andiamo in Lessinia.

Il mio viaggio, come sempre, inizia leggendo. Per alcune sere ho esplorato il territorio e mi sono immerso nella storia dei Cimbri sfogliando i libri. Sapevo qualcosa dell’architettura vernacolare a nord di Verona, ma non immaginavo tanta potenza e bellezza. Una cultura della pietra arcaica e al tempo stesso moderna; la forza delle costruzioni e la loro leggerezza, frutto di semplicità e funzionalità.

Per capire la pietra della Lessinia, bisogna partire dalle origini di queste montagne nate dal mare. Occorre attraversare i boschi fitti delle terre emerse, tagliati poi dai Veneziani affamati di legna per le barche e la città. Bisogna infine bussare alle porte dei Cimbri: generazioni di anonimi scalpellini, falegnami, agricoltori e pastori che hanno plasmato la Lessinia trasformandola in un’opera d’arte, con scorci unici al mondo. Boschi, sentieri, malghe e contrade sono diventati elementi vivi di un paesaggio naturale modellato dall’uomo.

Dopo lo studio, l’azione. Raggiungo in serata Bosco Chiesanuova dove ho appuntamento con Davide, Massimo e il resto della troupe. Ci vediamo in piazza, dove c’è un bel ristorante. La proprietaria ci accoglie con un sorriso contagioso; indossa il costume tipico ed è un vulcano di vita. Parla un po’ di Cimbro: è la prima volta che ascolto questa lingua lontanaspigolosa e ruvida. Vibrazioni che riportano alla Terra prima di Adamo, alla formazione delle rocce intarsiate di fossili marini. Dopo cena ci fermiamo al bar. Sul banco c’è un grosso libro fotografico, l’oste lo apre e lo sfoglia insieme a noi. Si tratta di un volume sulla Lessinia con immagini stupende scattate in ogni stagione dell’anno.

– Massimo – dico sottovoce al regista – potremmo filmare le pagine di questo libro e avremmo già pronto il servizio.
– È un’idea! Non riusciremo mai a realizzare immagini così belle.
– Avranno impiegato anni.
– Noi abbiamo solo un giorno.
Già, solo un giorno: e allora tutti a letto, a riposare. Domani sarà un lungo, unico giorno di lavoro. Mi addormento pensando ai libri e alle pagine sulla Lessinia.

Capitolo primo: la geologia e il dono della natura, che ha deposto nel terreno dell’altopiano sottili strati di rocce sovrapposte, separati da un velo di argilla. Ha fornito agli esseri umani la pietra già pronta per essere usata come fosse legno. Lastre intere da conficcare nel terreno per tracciare i sentieri e delimitare le proprietà, oppure da mettere una sull’altra per formare i muri delle case, le pareti delle stalle, i tetti dei fienili.

La pietra in Lessinia è diventata l’elemento ordinatore del paesaggio.

Capitolo secondo: i Cimbri. Una popolazione di origine germanica, scesa a sud delle Alpi intorno all’anno Mille. In Lessinia, i Cimbri hanno trovato una terra libera dove costruire strade e villaggi, bonificare campi, creare comunità.

Capitolo terzo: l’architettura e la cultura della pietra. Lo sfruttamento della pietra di Lessinia, o pietra di Prun, è iniziato intorno all’età del ferro. Paolo Portoghesi, l’architetto, ha affermato che la pietra della Lessinia ha suggerito agli scalpellini e ai muratori il modo in cui fare le case, sviluppando una grammatica architettonica costruita sul materiale. In altri termini è stata la pietra a comandare, dicendo agli uomini cosa fare e come fare.

Al mattino partiamo con l’abituale determinazione. I miei contatti però si sommano a quelli di Massimo, le persone e i luoghi si moltiplicano e andiamo in confusione. La giornata è appena cominciata e abbiamo già accumulato tanto materiale da montare un’intera puntata di Striscia. Delle tante cose fatte e viste, vale la pena di ricordarne almeno due: la contrada e la stalla del Modesto.

La contrada è in una vallata. Per raggiungerla bisogna percorrere una strada sterrata in salita, con salti violenti provocati dalle piogge che hanno scavato profondi solchi nel terreno. Sono felice di non essere a bordo della mia auto. Monto invece sulla coupè di un amico di Massimo, che guida senza incertezze verso la contrada Zamberlini. In estate è abitata, ma adesso è deserta ed esprime un fascino sospeso, da città metafisica. La pietra è ovunque, dalle pareti delle case ai tetti dei fienili, dalle fontane agli archi, ai muretti, alle decorazioni. Sopra le costruzioni, i boschi si distendono come tappeti sui crinali della montagna. Ci sono tutti i colori del disco cromatico, con qualche accenno di blu e viola, e ogni sfumatura di verde, rosso e giallo.

A un tratto usciamo dal borgo e raggiungiamo una casa isolata. Sul sentiero c’è una poetessa. Recita in Cimbro una propria lirica; noi ne cogliamo le suggestioni, perdendone i significati. Indossa una gonna azzurra che sembra anch’essa scolpita. Davide le si avvicina per un’ultima inquadratura, poi saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la stalla del Modesto. Prima però facciamo tappa da Roberto, uno degli ultimi lapicidi, i lavoratori della pietra. Roberto realizza sculture di carattere religiosoma anche grandi fontane e elementi d’arredo. Usa solo scalpelli, martelli e mazzette. Fa tutto a mano ed è uno spettacolo vederlo lavorare sbalzando le figure e le scritte dal blocco di pietra. Anche il padre era uno scalpellino, così come il nonno, nato nel 1848.

Tre generazioni di artisti: un vita per la pietra.

Quando lasciamo la casa di Roberto è già sera. La stalla del Modesto è un vero capolavoro rurale costruito tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Le pareti sono realizzate con gigantesche lastre di pietra disposte a coltello, legate sugli spigoli con un sistema che ricorda gli incastri angolari dei tronchi di legno nelle baite di montagna.

La luce del sole al tramonto filtra tra i rami degli alberi in livrea autunnale e illumina le pietre della ghiacciaia. Verso la vallata c’è un muro di roccia e muschio che la sostiene, come una diga. Lo sguardo si perde oltre l’edificio, negli spazi delle malghe. La solitudine dei luoghi e l’essenzialità delle costruzioni ispirano un senso di raccoglimento. Vorremmo continuare a filmare per riempire la memoria della telecamera di quadri come quelli del libro. Per fortuna giunge il buio e cancella le nostre esitazioni.

È tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

In un attimo, la Lessinia svanisce e con la mente siamo già al prossimo servizio. Massimo invece rimane qui. Ci saluta e sparisce nella notte, con il cuore che rifiuta di staccarsi dalla pietra. Me lo immagino che si aggira sui monti della Lessinia come una creatura del bosco. Un’ombra, che saltella e fuma. Macchina da presa in spalla, continua a filmare e a dire:
– Qui, mi sento come a casa…

Venite in Lessinia, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Venezia, Giudecca: pesca alle moecche.

 

 

 

 
Con “Paesi, paesaggi” siamo a Venezia, alla Giudecca, con gli ultimi pescatori di moecche.
Ma cosa sono le moecche?
Sono i granchi, che due volte all’anno – in primavera e in autunno – mutano il carapace e rimangono senza corazza. Allora sono commestibili e diventano uno dei piatti più ricercati della tavola veneziana.

Questo è il backstage del servizio che andrà in onda su Striscia la notizia.

I fagioli bianchi di Conio.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Conio, il paesaggio l’Alta Valle del Maro. Le coordinate geografiche sono 43°58’ Nord e 7°53’ Est.

Partiamo da Imperia e seguiamo la strada in salita. L’abbiamo vista sulla carta e non abbiamo dubbi. Qualche curva morbida: Davide accanto a me chiacchiera, racconta di nuovi progetti e idee che srotola tra le pareti boschive dell’entroterra, sempre più fitte a mano a mano che saliamo. Dietro di noi c’è la macchina di Gianluca, il nostro scenografo e arredatore: un uomo con il cervello nelle mani, a modo suo un genio capace di costruire pozzi di petrolio in miniatura con una manciata di fiammiferi.
Scolliniamo e qualcosa non torna.
– Ci siamo quasi, vero? – domanda Davide.
Io non rispondo, accosto e imposto il navigatore di cui pensavo di fare a meno.
– Credo che abbiamo sbagliato strada.
Proseguiamo dritti ancora un po’. Davanti al cartello di Vessalico ci fermiamo e accostiamo nuovamente.
– Abbiamo sicuramente sbagliato strada.
Esco dalla macchina e raggiungo Gianluca. Lui è molte cose insieme: uno scenografo – appunto – ma anche un pittore e un pilota di auto da corsa. Possiede un telefonino spettacolare che aggancia i satelliti come un cane affamato azzanna l’osso.
– Ho perso il segnale e siamo andati lunghi – dico per giustificarmi.
Gian non batte ciglio: i problemi sono opportunità. Ripartiamo, lui davanti e noi dietro. Attraversiamo una lunga cresta pianeggiante aperta su tutti i versanti. La giornata è magnifica e il paesaggio è nitido, come appena lucidato.

A un tratto, Gianluca imbocca una strada stretta in discesa. È molto bella, con l’asfalto autunnale coperto di foglie. È anche molto ripida.
– Questa strada non si fa col ghiaccio – dice Davide.
– Nemmeno con la neve – aggiungo io.
– In salita ci vuole la prima.
– Ma sarà la strada giusta?
È la strada giusta. Forse non la migliore, ma comunque giusta. Quando arriviamo ai piedi di Conio, Massimo è già al lavoro. Il nostro regista cattura scorci di vallate, tra olivi taggiaschi, terrazzamenti, sentieri impervi e case in pietra che sbucano dai boschi.

Giusi, la protagonista della puntata, ci accoglie in piazza. Altrove, in piazza avremmo bevuto un caffè, ma a Conio non c’è il bar. Non c’è nemmeno un tabaccaio per le sigarette di Massimo, che risale in auto e si avvia verso Borgomaro. Noi invece andiamo su al castello, per vedere dove gireremo la parte finale del servizio. Non bisogna immaginarsi un castello medievale fortificato, piuttosto una signorile dimora di campagna, proprio in cima al paese arroccato sul colle. La posizioneperòè degna di una fortezza.

– Bello vero – dice il figlio di Giusi avvicinandosi a me e indicando il paesaggio che si stende sotto di noi fino al mare.
– Bellissimo. Cercheremo di filmarlo come merita, appena torna Massimo.
Appena torna Massimo, cerchiamo invece di recuperare il tempo perduto e ci dirigiamo nei campi. Lasciamo le nostre macchine davanti al cimitero e saliamo sui mezzi dei padroni di casa: un ottimo sistema per non restare indietro e non sbagliare direzione, sui tratturi aspri dell’entroterra ligure. La giornata resta calda e luminosa, l’ideale per raccontare la storia del fagiolo bianco di Conio. Si tratta di una coltivazione antica che si pratica oggi come secoli fa. Poche famiglie di agricoltori locali tengono in vita una tradizione che è anche un tratto distintivo del territorio. Si sono riuniti in un consorzio di tutela e applicano un rigoroso disciplinare di produzione.

Si comincia a giugno, con la semina. Poi si tengono puliti i campi senza impiegare diserbanti e si concima solo con stallatico naturale.
– Usate il concime di Aldo? – chiedo a Giusi, sapendo che conosce bene il nostro amico delle pecore brigasche.
– No – mi risponde lei – Aldo è troppo lontano. Ci sono un po’ di mucche qui intorno.

In autunno, quando i baccelli seccano sulle piante, si raccolgono e si pestano sulle reti per separare i semi dalle scorze. Infine, si svolgono le delicate operazioni di cernita e di selezione, quindi il confezionamento nei sacchetti bianchi di tela grezza con il marchio di qualità. Naturalmente, tutto viene fatto a mano. A nessuna macchina è permesso di entrare nel ciclo di lavorazione.

Ma il segreto di questo lungo e faticoso processo di produzione, oltre alla tenacia degli agricoltori, al clima favorevole e alle caratteristiche del terreno, è la qualità dell’acquarigorosamente sorgiva.
– Dove scorre il fiume? – domanda Massimo, pensando alle riprese.
– Qui è pieno di corsi d’acqua – esclama Giusi.
– Sì, ma il più bello, il più spettacolare?
– Il mulino.
E allora tutti su, verso il vecchio mulino a acqua ristrutturato e abitato da una coppia di tedeschi.

Ci avviciniamo con cautela: siamo in casa d’altri. Il cane – tedesco – abbaia e noi ci fermiamo. Lui avanza e noi indietreggiamo. Giusi, che lo conosce bene, gli urla qualcosa in dialetto. Si capiscono al volo. Nel frattempo esce di casa il padrone del mulino e ci saluta cordialmente. Noi gli chiediamo se possiamo effettuare delle riprese nella sua proprietà. Cerchiamo l’acqua sorgiva. Lui sorride e ci lascia entrare. Superiamo la grande ruota del mulino, giriamo intorno alla casa e raggiungiamo il torrente. Non potevamo immaginare tanta bellezza. Sotto il mulino, dove la valle si stringe nel bosco, l’acqua scorre saltando da una pietra all’altra, scivolando sul muschio.

Davide si china e beve.
– Peccato che sia in ombra – dice Massimo puntando su di lui la telecamera.
– Qui è sempre in ombra – esclama il tedesco.
Davide solleva la testa verso di noi.
– I mulini a acqua in montagna sono spesso nelle gole – dice asciugandosi le labbra. – Fateci caso, sono sempre dove l’acqua salta sulle rocce e scende con forza.

Giusto, non ci avevo mai pensato. Anche il tedesco, che nel frattempo è diventato un esperto di storia dei mulini a acqua, annuisce con evidente soddisfazione.
– Complimenti – aggiunge Davide stringendogli la mano – un bel restauro.

Era venuto da queste parti in moto molti anni fa. Poi aveva visto il mulino abbandonato ed era tornato per capire se si poteva acquistare. L’ha preso, restaurato e adesso che è in pensione ci vive con la moglie. Ha lasciato la Germania e sembra contento di questa pace, condita di buona musica, letture, passeggiate nei boschi, camino acceso e vista ampia, dalle creste al mare. Il suo cane torna ad abbaiare mentre ci allontaniamo per tornare a Conio. Questa volta è solo un saluto.

Raggiungiamo il castello, dove Giusi ha preparato la tavola e sta cucinando una zuppa. Ore di cottura a fuoco lento, con carni, verdure e naturalmente i fagioli bianchi di Conio. Davide non si lascia sfuggire l’occasione. Prima però prende tra le dita alcuni fagioli e li schiaccia delicatamente per mostrare alla telecamera la morbidezza della buccia, talmente sottile da sembrare inesistente. I fagioli bianchi di Conio sono talmente delicati che si legano benissimo anche al pesce: un vero prodotto ligure, che unisce i sapori del mare a quelli della montagna.

A proposito di Liguria che guarda il mare dalla montagna, è venuto a trovarci anche Aldo, il nostro amico delle pecore brigasche che domani guiderà la transumanza al contrario, dal Monte Saccarello a Bastia. Sarà un viaggio di tre giorni, per boschi e strade, sentieri e villaggi, con centinaia di capi al seguito. Sarà anche una grande festa, com’è sempre stata e com’è giusto che sia.

Anche noi facciamo festa, con la zuppa di Giusi e i suoi fagioli bianchi.

Venite a Conio, nell’Alta Valle del Maro; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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La musica della natura.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Cogne, il paesaggio il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Mentre guido verso Aosta, sento di avere bisogno di una doccia. Lo dico a Davide, che sorride e tace. Abbiamo ancora sulla pelle le emozioni vissute nella valle del Loo, dove siamo stati a conoscere Simone e la sua toma di Gressoney. La corsa su è giù per le montagne, la grandine mista al sole, il vento e l’umido affumicato della baita: il ricordo scorre fluido dal Lys al Gran Paradiso. Usciamo dall’autostrada e cominciamo a salire le curve morbide che ci portano ai prati di Sant’Orso. Abbiamo appuntamento per cena con Laura, il nostro angelo custode a Cogne. Insieme abbiamo deciso di dedicare un servizio alla musica della sua vallemusica della natura e degli uomini. Percorriamo lentamente gli ultimi tornanti dietro a un pullman di turisti slavi; Davide legge ad alta voce la sceneggiatura. Sottolinea alcuni passaggi che ritiene importanti e mi chiede dove gireremo le scene. Sono preparatissimo perché lavorare con Laura significa pianificare tutto e non lasciare niente al caso. Tra poco ceneremo insieme e avremo modo di ripassare i dettagli. Prima però dobbiamo assolutamente fare una doccia.

Alle otto in punto, Laura viene a prenderci con il suo grosso fuoristrada, le fiancate macchiate di fango, le ruote rese lisce dai sentieri di montagna. Ci accompagna nell’albergo di famiglia, forse il più bello della valle. Non quella di Cogne, ma la Valle d’Aosta. Davide, che se ne intende, dice così. Io non ero mai stato in questo luogo delizioso, però mi ero spesso fermato ad annusare il profumo intenso di eucalipto e oli essenziali che proviene dal terreno sottostante. La spa dell’albergo è lì sotto, con la piscina, la grotta di sale, la sauna agli agrumi e quella al fieno. Passeggi per Cogne e ti avvicini al punto magico del centro benessere: quando ci sei sopra e come se ci fossi dentro. Rilassante anche a distanza.

Laura indossa gli abiti tipici. Non proprio i costumi tradizionali, ma gonna e gilet di lana cottacamicia bianca ricamata di cotone grezzo: una specie di uniforme che le permette di essere sempre ambasciatrice della sua terra.

Mangiamo con la calma che il luogo merita, ma poi ci dirigiamo subito nella casa museo dove è in corso una specie di festa e ci attendono alcuni protagonisti della puntata di domani. Nella vecchia abitazione dove sono state recuperate le antiche architetture in legno e pietra, ci sono i bambini che suonano e ballano e s’inseguono tra le gambe dei genitori pazienti, alcuni membri dei gruppi musicali di Cogne e gli artigiani del legno e del cuoio, accanto alle signore che ricamano al tombolo. Ci sono due campanacci che vorremmo avere per le riprese. Laura contratta il prestito e garantisce la restituzione, sotto sua responsabilità. Il campanaccio è una vera opera d’arte in lega d’ottone e cuoio lavorato: lo strumento che ogni mucca impara a suonare fin dalla più tenera età.

L’indomani cominciamo dalla natura. Davide cammina con la sedia in spalla sul prato che guarda il ghiacciaio. Si siede e chiede di fare silenzio. La valle è un’immensa sala da concerto, con le pareti ripide di rocce e boschi che la chiudono come i palchi di un teatro. Acustica perfetta, con il vento che scivola tra le foglie, l’acqua del ruscello che scorre tra i sassi, le vacche che escono dalla stalla e si disperdono sul pascolo attorno a noi. Melodie d’aria e note cristalline appena sussurrate.

Ma a Cogne la musica è ovunque, fa parte della comunità. Tra poco ci raggiungeranno una ventina di ragazzi e ragazze, con qualche anziano a fare da guida e i bambini a mettere ordinato scompiglio. Canteranno, danzeranno e suoneranno gli strumenti tipici: il tamburo e la fisarmonica cromatica. Però, prima che arrivino, dobbiamo tornare in paese per conoscere Adolfoil conciatore delle pelli e il realizzatore dei tamburi. Oggi è rimasto solo lui a fabbricarli, nel suo piccolo laboratorio domestico. Avremmo potuto filmarlo nelle belle stanze in legno della casa museo, ma abbiamo da tempo imparato che l’artigiano ricava il suo spazio attorno a sé e al suo lavoro. Così montiamo le luci e facciamo silenzio.

Adolfo ha già preparato alcune pelli di camoscio che concia nella cantina di casa.
– L’odore alle volte è insopportabile – mi confida con un sorriso – ma ci si fa l’abitudine, con il tempo.
Accarezzo la pelle prima che venga tesata sul cerchio di legno. È morbidissima.
– Vuole che le dica cosa uso per conciare le pelli? – aggiunge con un sorriso.
Io scrollo le spalle: i segreti sono segreti. Lui però me lo dice lo stesso e ci mettiamo a ridere. Tutti ci guardano e a loro volta ridono, senza capire. L’allegria è contagiosa e non ha bisogno di ragioni, come la musica. Quando la pelle è ben tesata sul cerchio, si aggiungono le parti in metallo, i campanelli e i fiocchi colorati. Alle pareti della bottega sono appesi alcuni tamburi molto più grandi di quello che Adolfo sta realizzando per noi. Gli chiedo come mai e mi spiega che un tempo erano tutti così.
– Perché?
– Oggi i giovani li vogliono più piccoli e leggeri.
In effetti, dopo una giornata di musica passata a reggere il tamburo, le braccia devono far male come se avessero spaccato legna. Mi domando se un tempo le persone fossero più forti, oppure se avessero più capacità di sopportazione. Adolfo non risponde e sorride nuovamente, mentre ci mostra il tamburo finito. È bellissimo. Ma la cosa più bella è che non è in vendita. Qui a Cogne i tamburi si realizzano solo per passione; gli strumenti sono destinati ai musicisti locali, che li suonano per se stessi e per la comunità. La musica popolare è come un gioco, e il gioco è un rito che scalda i cuori e tiene unite le persone, forma le coppie, rasserena i vecchi, incoraggia i bambini a diventare grandi.

Nel frattempo siamo tornati all’aperto, con i Lou Tintamaro che si dispongono in cerchio e si aggiustano gli abiti. Le donne in nero, con le gonne ampie che coprono le gambe lasciandole però libere di volare. Le camicie bianche, le maniche al gomito e le cuffie in testa, con le code che cadono sulle spalle come lunghe trecce. E poi il sorriso, che fa parte del costume. La musica popolare corale vuole sempre il sorriso, altrimenti non si lascia suonare. Gli uomini portano il cappello con la tesa larga su cui poggiano dei piccoli fiori colorati, i pantaloni scuri e la giacca di lana bianca con i profili verde e rosso. Uno di loro si volta di spalle e all’improvviso emette un fischio acuto e selvaggio, una specie di grido berbero. Fossimo in primavera, con la neve alta sulle creste, ci sarebbe da temere una valanga. Ma non c’è neve e il ghiacciaio sembra sudare sotto il sole d’autunno. Il gruppo inizia a suonare e cantare e ballare. Davanti alla telecamera si svolge il rituale dell’incontro tra le coppie, il gioco di sguardi e movimenti rapidi dei piedi, messi il più vicino possibile che si tocchino il meno possibile.

Mi piacerebbe che Davide provasse quel grido: reinterpretazione musicale del fischio della marmotta. Ma è in un angolo nascosto, che batte il ritmo con il piede e la mano che intinge una fetta di mecoulin nella crema di Cogne. Quando il brano terminerà, per noi sarà tempo di andare. Una nota lunga, accompagnata dal fischio della marmotta, ci accompagnerà verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.

Venite a Cogne, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Il chinotto di Finalborgo.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Finalborgo, il paesaggio il Marchesato di Finale. Le coordinate geografiche sono 44°10’ Nord e 8°19’ Est. Mi sveglio presto e metto il caffè sul fuoco. Fuori è ancora buio. Dalla finestra della cucina vedo il faro di Capo Mele. Finale Ligure è ancora più vicinopotrei andarci in bicicletta. È un’idea che dura il tempo della colazione, poi salgo in macchina, imbocco l’autostrada e dopo una manciata di chilometri esco a Feglino.

Bastano un paio di curve per capire come mai i marchesi Del Carretto abbiano scelto di costruire qui le fortificazioni contro i saraceni. La valle è lunga e stretta, gli alvei dell’Aquila e del Prora abbracciano il borgo e formano dei fossati naturali ai piedi delle mura. I boschi sono fittissimi, attraversati da sentieri invisibili: il paradiso di chi corre nella natura e di chi in bicicletta vuole allontanarsi dall’asfalto. A mezza costa, i resti diroccati di Castel Govone sono ancora imponenti. Sbucano chiari e luminosi dallo scuro del bosco. Poco sopra sono le palestre di roccia a farsi largo tra la vegetazione. Ci sono uomini e donne che vengono da tutto il mondo per scalarle, le mani bianche di magnesite e le scarpette due numeri più piccoli per aderire alla roccia. Dal basso li vedi salire come ragni, oppure precipitare nel vuoto appesi a una corda e un moschettone. Altre volte restano immobili a metà strada, né su né giù, con la ghisa nelle braccia. Finalborgo è unica anche per questo. Dentro le mura è uno dei borghi più belli d’Italiama fuori è un misto di selva e mare e roccia. Solo Finalborgo unisce alla storia delle pietre il fascino dei volti. Qui è tutto un via vai di giovani che si ritrovano per fare sport, con le frontali accese di notte e la maglietta anche d’inverno. Il microclima di questa valle è meravigliosamente temperato, ed è alla base della storia di agricoltura che siamo venuti a raccontare.

Davide è già lì che aspetta, davanti alle mura, subito dopo il ponte. Il torrente Aquila scorre asciutto verso il mare. Le campagne di Giacomo – il protagonista della puntata – sono poco più in là. Agrumeti ritagliati ai piedi del bosco: piccoli giardini mediterranei dove sono tornati a crescere rigogliosi i chinotti di Savona. Davide non era mai stato qui. Rimane affascinato dall’atmosfera, misto di luoghi e di persone. Sedia in spalla attraversa il chiostro di Santa Caterina, sfila davanti al palazzo del Tribunale, poi s’infila nei carruggi tra le botteghe e le case antiche. Sui muri sono appoggiate le mountain bike, una sopra l’altra a gruppi di tre o quattro. Non ci sono lucchetti, tanto qui non ruba nessuno. Creature meccaniche vagamente mostruose, con telai in carbonio e gomme artigliate, rinforzi sui manubri che sembrano palchi di cervi.

Davide le guarda ammirato. Poi però dice: «Mia mamma partiva da Bassano del Grappa e andava in bici sui passi delle Alpi Bellunesi con qualunque tempo. Un rapporto solo, freni a bacchetta e ruote lisce». Chissà come si divertirebbe adesso la madre di Davide, qui nel finalese, a pedalare su e giù dalle rocce, saltando sulle radici smosse dai cinghiali.
Intanto Giacomo ci accompagna nella fortezza di Castel San Giovanni, dove pensiamo di girare alcune scene. La strada lastricata per raggiungere il castello parte dal centro abitato e sale per qualche tornante. Massimo – il nostro regista – è affaticato. Per stimolare la respirazione accende una sigaretta. Intanto si è alzata una leggera brezza e il sole è apparso tra le nuvole. Dalle feritoie della fortezza la vista è impagabile, con i raggi di luce che bagnano la valle, si riflettono sulle rocce e si immergono nella vegetazione. Fotosintesi clorofilliana, fabbrica di ossigeno.

Anche Massimo torna a respirare, mentre dall’alto inquadra la valle e i campi di chinotto.
– Sembrano mostriciattoli verdi, – mi dice Giacomo mostrandomi una pianta carica di frutti pronti per essere raccolti. Quando pensiamo a un chinotto maturo lo immaginiamo grosso, morbido e dorato. I chinotti invece si raccolgono piccoli e duriverdi come fossero acerbi. In realtà sono sempre acerbi: impossibili da mangiare crudi. Davide ne assaggia uno e giura che non è vero.
– Sono buonissimi – esclama, mentre fotografo la sua smorfia.

La storia narra che nel Cinquecento qualche anonimo viaggiatore abbia portato dalla Cina questi strani frutti. Il nome chinotto deriva propria da China, ovvero Cina. Chissà per quanto tempo l’uomo primitivo, frugivoro e raccoglitore, ha provato a mangiare i chinotti. Poi qualche genio – laggiù in Oriente – deve aver pensato a cuocerli, qualcun altro a spremerli, dolcificarli, addirittura candirli. Giacomo mi racconta che l’entroterra ligure di Savona e Finale era pieno di chinotti. C’erano le piante e c’era la bevanda, che non piaceva a tutti ma aveva grandi estimatori nei bar di paese. Un gusto adulto un po’ difficile, come il trinciato da fumare senza filtro e il caffè da bere senza zucchero.

Ma la vera fortuna del chinotto è stata la guerra allo scorbuto. Cito a memoria un passaggio di un libro di Bill Bryson, dove l’autore ricorda che tra il Cinquecento e la metà dell’Ottocento sono morti di scorbuto oltre due milioni di marinai: ogni nave, durante una lunga traversata, perdeva circa metà dell’equipaggio. Sempre Bryson annota le cifre di una spedizione navale britannica alla metà del Settecento: dopo tre anni di viaggi e di battaglie, l’equipaggio di duemila uomini aveva perso millequattrocento unità. Di queste, solo quattro uccise dal nemico: il resto dallo scorbuto.

All’inizio del Novecento, anche il nonno di Giacomo vendeva i suoi chinotti in banchina al porto di Savona. Ma un conto è la medicina, un altro la delizia per il palato. Proprio qui nel Ponente ligure tra Savona e Genova, i maestri francesi avevano portato nel XIX secolo l’arte della canditura. Nei nostri frutteti avevano trovato il clima ideale e la qualità di frutta che cercavano. Famiglie come i Besio di Savona e i Romanengo di Genova hanno acquisito le ricette e le conoscenze per fare dei chinotti canditi delle vere eccellenze, cibi preziosi da gustare nelle grandi occasioni. Ma attenzione, solo i veri chinotti di Savona possono essere canditi. Sono profumatissimi, hanno la buccia sottile e sono privi di semi. Piante basse – poco più che arbusti – che temono il vento e il freddo. Sono state fonte di ricchezza fino all’inizio del secolo scorso, quando le gelate degli anni venti e cinquanta hanno distrutto le coltivazioni.

Oggi, Giacomo e pochi altri agricoltori locali hanno deciso di riunirsi per riportare in vita il chinotto di Savona. Hanno fatto la conta delle piante rimaste e stanno lavorando con passione alla rinascita del prodotto simbolo di questa zona. C’è da riscoprire l’arte della canditura e tutta una filiera da rimettere in piedi, dalla coltivazione alla trasformazione. Giacomo lavora con i figli nei campi, mentre le donne di casa – la moglie e la nuora – lavorano in cucina e ripropongono in chiave moderna le antiche ricette di famiglia, fatte di cotture lunghe e prolungate, pochissimo zucchero, niente conservanti, né coloranti né additivi. Oltre al succo puro e al nettare di chinotto, producono anche i canditi al maraschino e marmellate da gustare non solo sul pane ma con il gelato, la ricotta e formaggi ben stagionati.

Mentre Davide e Giacomo inseguono con il palato i piaceri del chinotto, suonano le campane della basilica di San Biagio. È tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Massimo, il regista, accende la telecamera e grida: «Azione!». Davide chiude la sedia e si allontana verso il mare, camminando lungo la bialera d’acqua sorgiva che irriga il campo. Passa accanto a un melo innestato su un pero. Allunga una mano e coglie un frutto. Succoso, dolcissimo.

Venite a Finalborgo, nelle terre del Marchesato; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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