20 maggio 2015 - Gli occhi della dolcezza.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Valpelline, il paesaggio quello dell’omonima valle. Le coordinate geografiche sono 45°49’ Nord e 7°19’ Est.

In realtà oggi abbiamo in programma di visitare molti luoghi diversi, tutti collegati a uno stesso prodotto, simbolo di questa regione. La fontina era documentata già nel Medio Evo e compare in un testo della seconda metà del Duecento, dove il termine indicava un appezzamento di terreno. C’è poi un affresco del XV secolo nel castello di Issogne, dove alcune forme sono raffigurate sul banco di un mercante, tra salumi e granaglie.

Si tratta di un formaggio antico ma dall’origine incerta, con un nome che potrebbe indicare un alpeggio, un paese o una famiglia.
– È bello che rimangano questi dubbi – mi confida Davide in una pausa di lavorazione.
– Un po’ di mistero aggiunge fascino al gusto – dico io a bassa voce.
Lui si aggiusta la giacca, poi esclama:
– Così appartiene a tutta la Valle!
È vero. Qualunque cosa significhino i nomi fontin o fontinazla fontina è un prodotto di queste montagne. Tanti luoghi, persone e animali per realizzare un solo prodotto, sempre diverso eppure uguale a se stesso, alle sue origini più antiche e autentiche.
Per raccontare la storia della fontina valdostana bisogna partire dal latte e dalle vacche. Adesso è ancora presto, ma l’aria tiepida di primavera sta già sciogliendo la neve e tra poco gli animali lasceranno le stalle per salire in alpeggio. Fanno sempre così, ogni anno da giugno a fine settembre.

Roberto è il nostro esperto di fontina, l’uomo che ci guiderà tra pascoli e stalle, centri di stagionatura e luoghi di degustazione. Ci incontriamo alle porte di Aosta, davanti all’officina di un gommista. Potrebbe sembrare un inizio poco poetico, ma non è così: in Valle d’Aosta anche le officine sono circondate da prati che in primavera si ricoprono di fiori. Appena sopra i pneumatici, la vista si perde tra le cime innevate e c’è sempre qualcuno pronto a chiamarle per nome, a una a una. Le vette sono luoghi sacri, lontani e al tempo stesso presenti, punti di riferimento cui aggrapparsi nel corso della vita. Alle volte mettono paura e quando cala la nebbia scompaiono, ma qualunque cosa accada loro sono sempre lì, come anziani genitori, il braccio allungato verso di noi.

Roberto mi indica alcuni prati poco distanti che si fanno largo tra le macchie scure del bosco.
– Le mucche a quest’ora saranno già in marcia – dice mettendo in moto il furgone.
Gli avevo chiesto di accompagnarci in un pascolo di bassa quota.
L’alpeggio estivo sarà un’altra cosa, ma questo prato scosceso subito sopra la città sembra già un buon inizio. Come un fine settimana al mare in riviera prima di partire per le vacanze. L’erba comincia a prendere il posto del fienosi respirano i profumi dei fiori, i cani abbaiano e corrono per tenere unito il branco, le regine danno vita ai primi combattimenti.
Le regine, così si chiamano le vacche tipiche della fontina valdostana, usano il combattimento come forma abituale di attività sociale. S’incornano spesso, ferendosi senza farsi troppo male, per stabilire gli equilibri del gruppo. Ci sono anche i loro muggiti nel latte della fontina; non solo erbe e fiori, ma tonfi sordi di incornate e il dolore delle ferite sui fianchi, l’esuberanza delle giovani manze e la calma delle regine più forti ed esperte.
– Perché fanno così? – chiedo a Roberto.
– Non fanno così, sono fatte così! È la loro natura.
Iniziano a litigare appena uscite dalla stalla, e ogni volta il pastore teme che possano distruggere qualche macchina parcheggiata appoggiandosi alla fiancata o strisciando le corna sulla carrozzeria.

Nella fattoria di Claudio – uno dei vincitori della Gran medaglia d’oro all’ultimo concorso Fontina d’alpage – conosciamo alcune regine bellissime, i loro vitelli e le pezzate rosse, le altre vacche tipiche. Sono tutti animali rustici, adatti ai sentieri di montagna, poco inclini ai mangimi e alle visite del veterinario; bastano a sé stesse e producono un latte eccezionale, vivono quasi vent’anni e mettono al mondo anche quindici vitelli. Davide si appoggia a una delle ultime balle di fieno della stalla e versa il latte appena munto in una ciotola. Lo beve di gusto davanti alla telecamera. Non potrebbe farlo, ma sta combattendo da anni una battaglia personale contro le leggi che gli hanno rubato i sapori dell’infanzia. Bevo anch’io un po’ di quel latte caldo e schiumoso; mi ricorda gli anni sessanta quando andavo in latteria con la bottiglia di vetro. Il latte veniva dalle fattorie del paese ed era in una vasca di marmo; la lattaia immergeva il mestolo e riempiva la bottiglia. Cominciavo già a bere sulla strada di casa. Proust mangiava madeleine, noi bevevamo latte. Oggi, con tenace determinazione, ricerchiamo il nostrotempo perduto.

Lasciamo la fattoria e ci si spostiamo nei prati di Ollomont, dove Davide passeggia con la sedia in spalla in un grande prato. L’erba è punteggiata di fiori che spuntano tra ciuffi di cicoria, ortica e tarassaco. La fioritura in montagna è uno spettacolo da non perdere; non solo da vedere, ma da provare, come un sentimento. C’è qualcosa di immenso in un prato fiorito dopo il disgelo: una cosa talmente grande da riuscire a farsi piccola, rinchiudersi nei dettagli di un prato e poi esplodere in un fiore. Da Ollomont alla grotta di stagionatura la strada è breve. Entriamo in una ex miniera di rame dove sulle scalere di abete rosso riposano oltre sessantamila forme di fontina. Pareti di roccia viva letteralmente tappezzate di formaggio che matura nelle viscere della terra. Anche questo è uno spettacolo da non perdere, imponente e ricco di significati simbolici. È interessante ad esempio notare come la fontina nasca sullamontagna, negli alpeggi e nelle casere d’alta quota, ma poi diventi grande nella montagna, all’interno di grotte come questa, dove l’umidità è costante attorno al 90 per cento e la temperatura stabile sui 10 °C. I rumori del mondo restano fuori: qui le fontine riposano in pace, nel silenzio più assoluto, rotto solo dalle note lievi delle gocce d’acqua che affiorano sulla roccia e cadono a terra. Richiamano il ventre materno: la montagna come madre, al tempo stesso generatrice e custode.

Questa miniera di fontine è in realtà una raffigurazione della Valle d’Aosta. Le forme sono tutte numerate e registrate con i nomi degli alpeggi di provenienza. Vengono dalle montagne di tutta la regione e si ritrovano qui, dopo l’estate, per raccontarsi storie di pascoli, acque, erbe e fiori, combattimenti di regine e acquazzoni improvvisi. Tutti gli anni così: ogni piccola fetta racchiude una grande storia. Ci spiegano che per conoscere la fontina bisogna guardarla negli occhi. Davide ne taglia un pezzo e mostra alla telecamera i buchi perfettamente circolari che affiorano sulla pasta morbida e compatta del formaggio.
– Devono essere tondi – dice prima di assaggiare – sono gli occhi della dolcezza...

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Valle d’Aosta, a Valpelline, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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