4 maggio 2015 - La nduja che accende la passione.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Spìlinga, il paesaggio l’altipiano del Monte Poro. Le coordinate geografiche sono 38°37’ Nord e 15°54’ Est.
Atterriamo sulle rive dello Stretto e con la macchina risaliamo verso nord percorrendo la A3 fino a Rosarno. La prima parte del tragitto – benché autostradale – è già interessante. Come in un parco tematico, dove la prima cosa da fare è salire sul trenino sopraelevato per vedere le cose dall’alto; così adesso la strada sale, spaziando sul Tirreno e fiancheggiando i declivi rocciosi e boschivi dell’Aspromonte.

Poi si scende e ci si perde nella piana degli agrumeti, tra chioschi ambulanti di frutta ai margini delle strade, case sparse e camion che vanno e vengono dai campi ai mercati del nord. Ripenso alle scene della rivolta dei braccianti, alle inchieste sul caporalato bianco e nero, alle cassette di mandarini pagate 50 centesimi l’una: una giornata di otto ore per metterne insieme una ventina. Verrebbe voglia di fermarsi e parlare. Cercare di capire. Però tiro dritto e in pochi chilometri la strada torna a salire. Questa è per molti aspetti una terra dimenticata e sofferente, però bellissima. La costa di Tropea sale morbida, curva dopo curva, tra macchia mediterranea e scorci di mare aperto. Una vista ampia che apre il cuore. Oggi il cielo è in continuo fermento, dalle nuvole al sole: cambiamenti repentini d’umore che rendono ancora più affascinante il paesaggio.

Arriviamo rapidamente a Spìlingaun paese costruito su un’unica strada principale in discesa, che nasce dal monte e si ramifica a valle in un dedalo di viuzze con case antiche in pietra, intonaco grigio e ferri battuti ai balconi e alle finestre. Mi ricorda un fiume, con la sorgente in alto e il delta in basso, in riva al mare. L’azienda modello di Luigi, il protagonista della puntata, è posta su un’altura alle porte del paese, dal lato dell’immaginaria sorgente.

Spìlinga è la capitale della nduja e Luigi il principale produttore. Si tratta di un insaccato molto particolare, piccante e spalmabile, che potrebbe essere prodotto ovunque e che invece si realizza solo qui. Domando perché, ma nessuno sa darmi una risposta precisa. Certo, qui si allevano maiali, ma Luigi mi spiega che sono pochi e insufficienti per una produzione di nduja poco più che domestica; ci sono anche i peperoncini, e quelli del Monte Poro sono davvero speciali: grandi, carnosi e asciutti. Qui il terreno è umido e non serve bagnarli. Adesso siamo fuori stagione e i campi sembrano pascoli, con l’erba verde alta. All’inizio dell’estate saranno preparati e seminati. Poi la natura farà il suo corso e il raccolto sarà come ogni anno abbondante. I peperoncini saranno messi a seccare all’aria aperta, protetti dal sole diretto e dalla pioggia; poi saranno ben spicciolati a mano e infine tritati e impastati per farne una crema piccanteMolto piccante. Forse sono proprio i peperoncini l’origine della nduja a Spilinga. In realtà il nome viene fatto risalire al francese andouille, un insaccato realizzato con tagli di scarto e frattaglie del maiale. Quale che sia l’origine, la nduja si produce a Spìlinga da moltissimo tempo, ma è solo da pochi anni che ha varcato i confini del paese e della regione.

Anche in casa di Luigi si preparava la nduja, però il prodotto era sempre diverso, di stagione in stagione. Più era piccante, più era considerato buono. Quando Luigi decise di diventare un produttore professionale di nduja e portare il prodotto della sua terra nel resto d’Italia e nel mondo, aveva bisogno di un maestro. Per fortuna aveva una suocera. Una donna speciale, che produceva una nduja altrettanto speciale, senza quelle incertezze tipiche dei prodotti amatoriali domestici. Eppure lavorava anche lei a occhio, e quando Luigi le chiedeva quanto peperoncino si dovesse mettere, rispondeva «quanto serve». Per cogliere i suoi segreti bisognava stare con lei: tacere e osservarla mentre lavorava. Poi imitare i suoi gesti, cercare di riprodurre la lievità tipica dei maestri. Credo sia molto difficile incontrare un uomo più legato di Luigi alla propria suocera. Ce la presenta direttamente nella sua casa, nel centro del paese. Lei ci apre la porta, affacciata sulla strada principale. È una signora anziana, con il volto segnato da rughe profonde che sembrano tanti sorrisi. Vede Luigi e s’illumina. Lui si era già illuminato. Davide le chiede se conosca la tradizione della battitura delle ginestre per ottenere tessuti. Lei dice di no, che la ginestra non l’ha mai vista battere da nessuno in Calabria. Però si alza e si avvicina a un armadio. Prende una tovaglietta di un bel tessuto grezzo e morbido, l’avvolge in una carta dorata e la offre a Davide.
– Questa è di canapa – dice – La lavoriamo noi, qui in Calabria.
Davide la prende e ringrazia. So che la conserverà come un dono prezioso.

La signora della nduja ci fa strada mentre scendiamo in cantina e realizziamo la parte forse più spettacolare delle riprese. Le sue nduje affinano tra pareti di pietra, con il camino acceso e la finestra che viene aperta e chiusa a seconda del tempo. Il laboratorio di Luigi è invece un luogo molto diverso, dove è stato finalmente possibile riprodurre su vasta scala e senza improvvisazioni le procedure della tradizione. Corridoi bianchi immacolati; Luigi e i suoi collaboratori indossano camici puliti, guanti, soprascarpe e cuffie in testa. Li seguiamo nei loro gesti quotidiani e entriamo nel vivo della produzione. Li vediamo tagliare il guanciale, la pancetta e il lardo, impastare le carni sminuzzate e mischiarle al peperoncino, insaccare l’orba – il budello cieco del maiale – legare le nduje e appenderle a stagionare. In queste celle non c’è il camino – che serve solo a togliere l’umidità – e la temperatura è tenuta costante da moderni termostati. Qui le nduje riposano almeno tre mesi, si tingono di rosso rubino e diventano eccezionali dopo anni.

– Vedi, Luca, – mi spiega Luigi, – per me era fondamentale realizzare una nduja di
altissima qualità, lavorando però in condizioni igieniche perfette. Volevo racchiudere nel mio prodotto tutto il gusto della mia terra.
– Un gusto piccante…
– Non troppo piccante: solo il giusto. Finora la nduja era sinonimo di piccante, invece deve essere sinonimo di qualità.
– Dicono che la nduja sia anche afrodisiaca…
– La nduja accende la passione!

Capisco che non parla di passione amorosa, ma di passione per la vita. Il piacere di fare qualcosa in cui si crede, e continuare a farlo nonostante tutto. Luigi si accalora, parlando della sua nduja. Allora scivola con la voce sulla j che pronuncia alla francese. Una consonante rara nella nostra lingua, che a Spìlinga è di casa come nei paesi d’Oltralpe.

La mattinata si conclude con Davide che esplora il territorio. Lo seguiamo tra le arcate del grande acquedotto romano, mentre perlustra le grotte del Monte Poro e visita la Madonna delle acque. Sempre con la sedia in spalla attraversa campi di cereali e pascoli, mentre la moglie di Luigi scola la pasta. Torniamo in laboratorio e mangiamo un piatt strepitoso. Mezzi paccheri artigianali prodotti da un fornaio locale: lisci fuori e rigati all’interno, perché il sugo di pomodoro, melanzane e nduja si raccolga come un ripieno, mentre sul palato la pasta resta morbida e liscia, quasi vellutata, con un filo d’olio a fare da velo. La nduja è protagonista del piatto e della tavola. Davide la mangia di gusto, spalmandola sul pane come fosse una pietanza.
– È davvero qualcosa di speciale – dice.
Tutti dovrebbero provarla e conoscerla.

Luigi taglia per noi alcune fette di una forma di oltre cinquanta chili invecchiata cinque anni. C’è tanta Calabria in questa nduja: non la Calabria dimenticata, ma quella da ricordare.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Calabria, a Spìlinga, il paese della nduja; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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