Archive for 2016

« Previous Entries Next Entries »

La birra delle Fiandre piemontesi.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Marentino, il paesaggio le colline torinesi. Le coordinate geografiche sono 45°3’ Nord e 7°52’ Est.

Il nome è dolce. Marentino: piccolo mare di rilievi verdeggianti, dove tra ciuffi di bosco, greti di fiume e campi coltivati, spuntano tetti di case, pietre di castelli, insegne di osterie.

Ci troviamo a trecento metri sul livello del mare, una ventina di chilometri da Torino. Sotto di noi c’è la Pianura Padana; sopra, le cime dell’arco alpino. Una vista che immagino suggestiva, oggi un po’annebbiata dalla foschia.

Dovrebbe alzarsi un filo d’aria per pulire il cielo, ma quando il nostro piccolo drone si alza in volo, le montagne restano nascoste dietro un cielo bianco verticale, come una tenda. Giornate piemontesi, soleggiate eppure in ombra. Questa è una terra generosa e riservata, che va presa al momento, cogliendo il buono di tutto.

Raggiungiamo il punto più alto del paese: la Chiesa dell’Assunta, costruita sui resti dell’antico castello feudale dei Beccaria. Di quell’impianto difensivo medievale rimane la posizione di dominio e il possente campanile che un tempo era la torre del castello. Tra un decollo e un atterraggio del drone, che in andata scruta il paesaggio e al ritorno insegue Davide con la sedia in spalla, leggo un cartello turistico posto sull’edificio sacro. Scopro che nella chiesa è custodita una grande pala d’altare, copia dell’Assunta di Guido Reni. Mi riprometto di tornare. A Marentino non ci sono le montagne da vedere.

Lasciamo la cima del colle e scendiamo in paese. Qui a Marentino, forse in onore del silenzio piemontese, hanno deciso di far parlare i muri. Se avete un po’ di tempo libero, fermatevi a guardare le facciate delle case. Ci sono tanti rebus da risolvere: decori intriganti, di un’allegria un po’ dimessa, non troppo giovane. Colori tenui e figure d’altri tempi, con scorci mitologici incastrati nelle abitazioni di città anni Sessanta, dettagli di libri e locandine di cinema, chiese e frutti dei campi. Un mondo di parole piane e sdrucciole, sillabe che s’incastrano tra loro e con l’aiuto di qualche lettera formano frasi inutili, ma di senso compiuto.

«Brocca pieNA di viNO!» esclamo avvicinandomi a Davide.

Lui sorride. Sta cercando di risolvere un altro rebus con le stelle al posto delle lettere.

Questo è difficile. Però sullo sfondo del dipinto ci sono le montagne innevate. Ecco l’arco alpino che si nascondeva dietro il cielo! Lo faccio notare a Massimo, il nostro regista, che s’illumina e inquadra il dettaglio. Non sopporta che io scriva qualcosa nei testi che poi lui non riesce a riprendere nella realtà.

Noi però non siamo venuti per risolvere rebus, ma per conoscere Valter, uno dei più qualificati e interessanti mastri birrai italiani. Un artigiano tanto piemontese da sembrare quasi belga.

In Italia sono nati negli ultimi anni tantissimi microbirrifici e nel paese del vino si è diffusa la cultura della birra. Però non esiste un altro birraio come Valter.

Ha cominciato a produrre per passione, poi è nata una professione. Voleva recuperare l’antica tradizione delle Fiandre, dove le birre si producono in famiglia, seguendo ricette che si tramandano da generazioni. Valter ha incontrato quel mondo in via d’estinzione e lo ha messo in contatto con la nostra cultura contadina del vino. Le sue birre nascono dal legno, dalla frutta, dalle spezie, rielaborando e rinnovando antiche ricette.

Sono tutte birre sour, cioè acide: proprio come il vino. Valter ha cominciato subito a lavorare con fermentazioni spontanee, inoculo di lieviti selvatici, passaggi in legno, utilizzo di frutta e spezie locali, uva e mosti; poi, dopo anni di sperimentazioni, ha cominciato a vincere premi e a ricevere ordini da tutto il mondo.

È interessante notare come noi italiani – così abituati all’acidità del vino – associamo il gusto della birra all’amaro del luppolo. E infatti, le birre acide di Valter sono apprezzate soprattutto all’estero. Il suo Piemonte sour è sbarcato negli Stati Uniti, in Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Scozia, Irlanda, addirittura in Australia.

In Italia, le birre di Valter sono ancora un piccolo rebus. Per apprezzarle, bisogna conoscerle e capirle.

«Certo che hai fatto una scelta radicale!» gli dico in una pausa di lavorazione.

Lui mi guarda con un sorriso timido.

«Voglio dire, solo birre speciali, addirittura specialissime, con prodotti di stagione…»

Valter mi versa un goccio di birra al cardo e sorride ancora. Prende fiato, beve.
«È vero» dice infine «Mi sono imposto fin dall’inizio di vivere delle produzioni di nicchia».

«Potresti fare anche tu una birra tradizionale, da servire ghiacciata con la pizza, piena di buoni luppoli tedeschi».

«Potrei, ma non avrebbe senso. Non per me».

Ancora una volta mi lascio affascinare dalla mente dell’artigiano, che percorre sempre la strada che ha in mente. Artigiano e artista: un confine labile, indefinibile e sfumato. Si lavora per vivere, ma è il lavoro che dà la vita. E quando si lavora per gli altri, e sempre per sé stessi che ci si mette all’opera.

Artigiani e artisti: beni culturali viventi, come li chiama Davide nei suoi corsi all’università.

Proprio Davide si avvicina a noi e sorseggia una birra scura, fatta di spezie e caffè. Insieme a Valter scorriamo l’elenco delle ricette che negli anni ha faticosamente perfezionato. Accanto ai due tini di rovere delle fermentazioni naturali, ci sono circa duecento ettolitri di birra che affinano nel legno per mesi e mesi, anche più di un anno.

La produzione di Valter è scandita dai tempi della natura e dalle maturazioni delle materie prime che sono sempre tipicità piemontesi: uve Barbera e Nebbiolo, susine damaschine, albicocche, cardo, timo serpillo, e poi caffè, china calissaia, rabarbaro, genziana, zafferano…

Il luppolo nobile è opportunamente invecchiato, in modo che perda le proprietà amaricanti e possa essere utilizzato solo come conservante naturale.

«La birra si fa con il malto» ribadisce Valter «non con il luppolo».

Tutte queste birre sono piccole opere d’arte, realizzate a mano da Valter. E anche le etichette sono disegnate da lui. Il mastro birraio apre la cartella dei lavori, prende alcuni fogli bianchi e una scatola di matite colorate. Sotto l’occhio ravvicinato dell’obiettivo accenna il delineo di alcune delle sue figure tipiche. Con un segno molto personale, ironico e lieve, ripropone le raffigurazioni di affreschi medievali, con i prodotti della terra e i personaggi della cultura del tempo.

Contadini, monaci, dame, cavalieri… Ogni birra un’immagine, ogni sorso una storia.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi…

Venite a Marentino, sulle colline torinesi; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

La patata bianca di Oreno.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Oreno di Vimercate, il paesaggio la Brianza.
Le coordinate geografiche sono 45°37’ Nord e 9°21’ Est.

Quando Marco, il nostro direttore di produzione, mi telefona per sapere se sono già partito da Genova, sto svoltando per uscire dalla tangenziale a nord di Milano. Il paesaggio è piatto e uniforme, il cielo grigio. Aspettavamo il sole, invece sta per piovere. Il navigatore dice che sono alle porte di Vimercate, a un paio di chilometri da Oreno. Comincio a temere il peggio: cerco con lo sguardo il paesaggio che ho descritto nella sceneggiatura, ma vedo solo macchine in coda e strade e capannoni. Sempre al telefono, Marco mi spiega dove andare. Non capisco e procedo alla cieca per qualche centinaio di metri, poi di colpo entro in paese: una curva, una leggera salita, l’asfalto svanisce e il manto stradale si ricopre di un bel selciato antico. La via diventa strettissima, quasi pedonale. Colgo al volo una casa rurale ottocentesca sulla destra, un’altra più antica sulla sinistra; costeggio in rapidissima successione l’ingresso quasi nascosto della rinascimentale Villa Borromeo, poi un’altra curva e sono davanti alla monumentale Villa Gallarati ScottiIn una manciata di secondi, tutto è diventato silenzioso ed elegante; anche la gente si muove con passo felpato, come per non svegliare le pietre e la natura.

Oreno si rivela un paese nobile e inatteso. Anche il cimitero è impreziosito da una coppia di cappelle gentilizie. Quella dei Borromeo è particolarmente interessante, costruita con i materiali ricavati dalla demolizione del Lazzaretto di Milano.

Raggiungo i protagonisti della puntata: Paolo, Francesco e sua moglie Lucia. Hanno una bella azienda agricola proprio nel cuore del paese, tra le ville e il Convento dei Frati Minori Cappuccini. Coltivano i prodotti dell’orto, ma soprattutto le patate bianche di Oreno, con cui realizzano strepitosi gnocchi artigianali.

Ci accompagnano nel convento, il cui impianto originario risale addirittura al Duecento. Poi entriamo nel parco di Villa Borromeo. I custodi e i proprietari sono gentilissimi e ci guidano alla scoperta della proprietà. Il nostro operatore prepara il drone e lancia l’oggetto volante sui tronchi secolari del parco. Davide apre la porta di un magazzino e lo attraversa con la sedia in spalla; il drone dietro di lui accarezza le pareti in pietra e il soffitto basso in legno.

Ci avviciniamo alla casina di caccia. All’esterno noto un’interessante scultura inserita in una nicchia, con la Madonna che tiene sulle ginocchia un piccolo Gesù così umano e reale da strappare un sorriso. È tutto storto, con le gambe alzate, come fanno i neonati quando gli si cambia il pannolino. Una raffigurazione molto bella e credo insolita per la cultura del Cinquecento.

All’interno ci sono alcuni elementi d’arredo originali e un grande affresco che decora la stanza del piano superiore, con scene di caccia, animali e piante, volatili, levrieri, dame e cacciatori. Tutto molto bello: da visitare.

Tutt’intorno boschi e campagne che il nostro drone esplora dall’alto, con picchiate improvvise da sessanta metri sulla testa di Davide. Nel frattempo smette di piovigginare e si apre uno squarcio di luce, che bagna le Alpi sullo sfondo e il Resegone. È il momento di lasciare il centro abitato e andare nei campi di patate. Prima però Davide deve rendere omaggio alla statua dell’abate Müller, il religioso e botanico che per primo ha introdotto la coltivazione della patata bianca qui ad Oreno alla fine dell’Ottocento.

Due secoli fa, questi terreni erano coperti di vigneti e gelsi. Poi la filossera e l’invenzione delle fibre tessili hanno modificato l’economia e il paesaggio rurale, favorendo la coltivazione della patata bianca. Fino agli anni trenta del Novecento, queste terre erano tutte coltivate a patate e nel periodo della fioritura i campi sembravano prati ricoperti di minuscoli fiori bianchi e gialli. Poi le guerre, la modernità, la fuga dalle campagne e l’abbandono delle proprietà. Fa piacere vedere che oggi la biancona sia ancora coltivata – con eccellenti risultati – da giovani come Francesco, Lucia e Paolo, che hanno riscoperto le tecniche di produzione artigianali e hanno puntato sulla trasformazione del prodotto fresco, creando un alimento ad alto valore aggiunto.

«Il nonno di Paolo era chiamato “patàn”, l’uomo delle patate!» esclama Davide camminando con la sedia in spalla lungo i solchi che il trattore ha aperto di fresco.

Il terreno di Oreno è ricco di minerali e trattiene molto bene l’acqua, evitando dannosi ristagni. La pasta della patata di Oreno è naturalmente bianca, con un sapore ricco e intenso, la polpa molto soda e poco umida, ideale per gli gnocchi.

Per valorizzare la bianconaPaolo ha avviato la produzione artigianale proprio degli gnocchi di Oreno, secondo l’antica ricetta locale.

È tutto molto semplice e al tempo stesso difficile. La sfida era portare nei negozi di oggi gli gnocchi di casa di una volta. Per la dimostrazione, Paolo indossa la giacca da chef e seleziona le patate. Ne servono molte, oltre il 70% del peso totale, ben lessate, schiacciate, salate e impastate. In genere, negli gnocchi industriali, si trova poco più del trenta per cento di farina di patate estere liofilizzate. Una grande differenza, che si sente subito in bocca, già assaggiando il prodotto crudo, rubandolo dal canovaccio infarinato come i bambini impazienti che non vedono l’ora di sedersi al tavolo della festa.

Paolo taglia l’impasto e mette gli gnocchi ad asciugare. Nessuna aggiunta di additivi, né condensanti, né coloranti, né conservanti. Negli gnocchi di Oreno ci sono solo patate bianche locali e duecento anni di esperienza…

Per la gioia di Davide, appena pronti gli gnocchi, Paolo si mette ai fornelli. Gli basta una piastra elettrica montata sul ripiano di un furgone parcheggiato all’aperto. Lo stesso negozio ambulante che Francesco e Lucia utilizzano per andare nei mercati e proporre le patate bianche di Oreno fritte.

Paolo mette a bollire gli gnocchi, poi li scola e li fa saltare con il lardo e la pancetta. Una, due, tre giravolte della padella sotto l’occhio attento della telecamera che cattura al rallentatore il movimento del polso e il volo degli gnocchi.

Infine la presentazione, con un letto di crema di zafferano che accoglie gli gnocchi insieme a un tocco di panna. Il piatto è tutto per Davide:

«Anche questa è l’Italia della qualità!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Oreno di Vimercate, in Brianza; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

Biodiversità sulla Via del Sale.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Varzi, il paesaggio la Valle Staffora. Le coordinate geografiche sono 44°49’ Nord e 9°11’ Est.

È mattina presto, guido lentamente nella nebbia. A Tortona esco e imbocco la statale, lasciandomi portare dal navigatore che mi conduce a Rivanazzano. Tra il mercato e il palazzo comunale incontro Davide con il resto della troupe. Parcheggio, prendo gli stivali e monto svelto sulla macchina di Maurizio, il veterinario che ci farà da guida in questa puntata dedicata al recupero delle biodiversità bovine e alla tutela della razza Varzese.

Non mi sfiora neanche l’idea di continuare a guidare nella nebbia dello Staffora. Allaccio la cintura e mi rilasso, in attesa che il sole scaldi la terra e torni tra noi. Direzione Varzi, da qualche parte, là in mezzo.

Varzi è un’antica cittadina di origine romanica, con un centro storico medievale intatto.

Secoli di storia sono racchiusi nei vicoli del borgo, nelle architetture delle chiese e delle dimore feudali. Il paese sorge lungo il declivio della collina che sale dal fiume verso i primi rilievi, oggi imbiancati di neve.

Qui a Varzi giungeva la mitica Via del Sale, scambio continuo di merci e culture. All’imboccatura del ponte sullo Staffora c’è un cartello che indica il sentiero. Bisogna però immaginare una rete di strade di montagna che attraversava tutto il territorio al di qua e al di là dell’Appennino. Da un lato il mare, dall’altro la pianura. Un dedalo di sentieri che partivano dalla Liguria di Ponente e di Levante per poi collegarsi alla strada maestra che proveniva da Genova. I carri dei mercanti e gli asini dei contrabbandieri, che nascondevano il sale nelle botti sotto strati di acciughe, salivano le creuse, attraversavano la linea dei forti e procedevano in direzione Casella e Torriglia. La leggenda vuole che proprio su quelle pietre abbiano camminato le reliquie di sant’Agostino in fuga dai Saraceni. Poi Savignone, Bobbio e infine giù dai monti, verso la grande pianura.

L’antico mercato di Varzi è ancora vivo nella città, disposto su tre livelli coperti da soffitti con le travature in legno e le botteghe oggi utilizzate come cantine per affinare i salumi. Percorriamo questi camminamenti insieme a Davide e alla sua sedia, con il nostro regista e l’operatore che lo inseguono mentre lui si ferma di continuo per ammirare qualche dettaglio. Piccole iscrizioni scolpite nella pietra, edicole votive incassate negli angoli dei palazzi, dipinti a fresco che resistono al tempo, portali in legno e ferro.

Davvero Varzi merita una visita, specie nell’ora di merenda. Vino, formaggi e salumi qui hanno molto da raccontare.

Ma noi siamo venuti per parlare dell’importanza delle biodiversità bovine e della necessità di salvare la razza Varzese, la vacca autoctona fulva con il ciuffo in fronte che era già qui ai tempi di Annibale e che poi ha attraversato i secoli dando latte e carne a ogni fuoco (nell’antica accezione di nucleo famigliare) della valle. Quindi l’estinzione, degli allevatori e delle loro vacche, dovuta non solo al miraggio della città e all’abbandono delle campagne, ma anche alla scelta di animali apparentemente più produttivi e alla crescita di una zootecnia folle e malata.

A poco a poco – dopo lo scandalo della mucca pazza – è riemersa un’idea più antica e sana di allevamento. Tra mille difficoltà, è iniziato un percorso di valorizzazione dell’allevamento bovino, recuperando le caratteristiche specifiche di ogni razza. L’Italia è la terra dei vitelli (dal termine osco Viteliù, appunto terra dei vitelli) e dunque anche delle vacche. Solo che rischiamo di perderle per strada, uccise dall’avidità, dall’ignoranza e dall’inefficienza delle istituzioni. L’Aia – Associazione italiana degli allevatori – è l’organo operativo del Ministero dell’Agricoltura e gestisce la raccolta e la distribuzione del materiale seminale, indispensabile per la salvaguardia delle razze: Varzesi, Cabannine, Burline, Pontremolesi e tante altre. Ma la burocrazia degli uffici sembra non conoscere i tempi degli allevatori e le loro necessità.

Oggi ci occupiamo di Varzesi e raccontiamo due storie che riguardano questo territorio e questi animali, ma la terra dei vitelli è piena di vicende simili.

Il primo allevamento che visitiamo è quello di Lino, un appassionato che ci accoglie con un amico, vestito alla maniera degli antichi briganti, con il mantello di lana cotta e il cappello di feltro. Nel pascolo di fronte alla stalla hanno parcheggiato il carro e il giogo con i finimenti. Armeggiano con quegli oggetti lavorati nel legno e nel cuoio per unire la coppia di vacche e legarle al carro. Riprendiamo una scena che oggi non si vede più. Il veterinario ci chiede una copia del girato, per i suoi studenti. Poi entriamo in stalla; Lino accompagna Davide e la telecamera accanto a una delle sue Varzesi. Spiega che ha aspettato per mesi il materiale seminale, ma alla fine ha dovuto fecondare l’animale con il seme di un’altra razza, perché non poteva tenerla in asciutta forzata a vita.

Poi saliamo in montagna da Daniele, un giovane che ha deciso di costruire la sua fattoria sulla cresta di una roccia. Sembra l’Arca appollaiata sul vertice dell’Ararat dopo il diluvio. Vuole riportare le Varzesi sull’Appennino, dov’erano diffuse fino agli anni Sessanta. Oggi c’è solo lui.

Aveva un bel toro e bisognava prelevare il materiale seminale. L’appuntamento con i tecnici era stato fissato a febbraio del 2015, ma a ottobre non s’era ancora visto nessuno. Un toro ha tempi obbligati di macellazione, altrimenti la sua carne diventa immangiabile e senza valore. Si sono presentati dopo Natale, nel gennaio del 2016, ma il toro di Daniele ovviamente non c’era più. La sua linea genetica era stata persa per sempre. Sembra incredibile, ma è così.

Questi allevatori sono beni culturali viventi, ma la loro sopravvivenza dipende da quella dei loro animali. Mantenere la biodiversità di razze bovine autoctone non è solo una sfida, ma un obbligo morale. Allevatori come Lino e Daniele, che stanno coraggiosamente andando in questa direzione, devono essere accompagnati nelle loro scelte e avere la certezza del potenziale riproduttivo dei loro capi.

La qualità del nostro futuro, ambientale e nutrizionale, passa anche attraverso la costituzione di una rete diffusa di piccoli allevatori e agricoltori. Le tecnologie e le conoscenze per sostenerli non mancano. Occorre la volontà.

«Questa è l’Italia della qualità» esclama Davide al termine del servizio, assaggiando una fetta di toma di Varzese «ma perché sopravviva occorre anche la qualità delle istituzioni!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Varzi e in Valle Staffora; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

La cipolla rossa della mitologia.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Tropea, il paesaggio la costa tirrenica di Capo Vaticano. Le coordinate geografiche sono 38°40’ Nord e 15°53’ Est.

Arriviamo in paese poco prima di cena e ci avventuriamo nel borgo alla ricerca del nostro albergo, spingendo le valige che saltellano nervose sul selciato. La serata è fredda e ventosa, noi siamo stanchi e l’albergo si nasconde tra le insegne spente e i negozi chiusi. Alla fine troviamo il moderno bed & breakfast, ricavato all’interno di un antico palazzo. Tutto molto bello, ma freddo. Non nel senso dell’arredamento, insieme di legni e vetri e tappeti, ma del riscaldamento, evidentemente spento nella stagione morta.

Fuori il vento rinforza e la temperatura scende ancora, mentre all’ingresso incontriamo Domenico, il protagonista della puntata. È un appassionato coltivatore della specialità del luogo: la cipolla di Tropea. Un agricoltore che ha saputo andare oltre l’agricoltura, puntando sulla trasformazione del prodotto fresco e sulle sue infinite declinazioni in vasetto.

Siamo ospiti in un bel ristorante sulle alture di Capo Vaticano, dove lo chef ha preparato un menu a base di cipolle rosse di Tropea Calabria IGP e delle specialità di Domenico. Per raggiungere il ristorante passiamo accanto ai suoi terreni.

Domenico mi racconta che la zona costiera tra il Capo e Amantea è l’area di coltivazione della cipolla.

«Allora non è proprio corretto dire cipolla di Tropea – domando. – Dovremmo chiamarla cipolla di Capo Vaticano?» Domenico sorride e mi spiega che da sempre la cipolla si coltiva quima a Tropea arrivava la ferrovia e da lì partivano i prodotti per il nord. Per questo è conosciuta come cipolla di Tropea. Poi il nome comune è diventato una denominazione ufficiale: cipolla rossa di Tropea Calabria IGP.

L’indomani mattina, dopo una notte fredda e ventosa, ritorniamo nelle strade di Tropea con la telecamera in spalla. Il paese deserto di ieri sera, questa mattina brulica di macchine che attraversano i vicoli del centro storico e di ragazzi che si recano a scuola. La troupetelevisiva mette curiosità; qualcuno di loro farà tardi.

L’inizio del servizio è di sapore mitologico. Davide si affaccia sul mare e sfidando il vento urla rivolto alla macchina da presa: «La rocca di Tropea è un balcone affacciato sulla Costa degli Dei. Secondo la leggenda, qui approdò Ercole e fondò la città. Ma tutta questa terra è forgiata nel mito…»

Saliamo in macchina e raggiungiamo Capo Vaticano. Facendo capolino tra le pale di un fico d’India e le foglie di un arbusto di macchia mediterranea, Davide prosegue il racconto spiegando che il nome di Capo Vaticano deriva dai vaticinii dell’oracolo, una profetessa che i naviganti interrogavano prima di affrontare i gorghi di Scilla e Cariddi.

Il territorio del Capo è stato abitato dai Greci e dai Romani, poi da Bizantini, Arabi, Normanni e tutti hanno lasciato tracce del loro passaggio che si ritrovano ancora oggi, mescolate nella cultura locale e in un dialetto talmente ricco di suoni che l’alfabeto italiano non riesce a trascrivere.

Dietro al mare si distendono le campagne e naturalmente le cipolle. Raggiungiamo il campo di Domenico dove lavora anche il padre. La stagione è appena cominciata e dalla terra spuntano i primi cipollotti. Domenico ne raccoglie un mazzo per Davide che dovrebbe usarlo come oggetto di scena, invece lo addenta. Assaggio anch’io. Sono dolcissimi, freschi: un sapore inatteso.

Prima di diventare cipolla rossa di Tropea Calabria IGPla cipolla era coltivata da oltre duemila anni, portata su queste coste dai Fenici. Terreni fertili di tipo sabbioso, suoli profondi con tessitura argillosa, ricchi di sostanza organica e acqua. E poi un tipico microclima mediterraneo: freddo e umido d’inverno, caldo d’estate, senza eccessivi sbalzi di temperatura.

La cipolla rossa di Tropea è molto digeribile ed è l’unica cipolla al mondo dolce, proprio perché il microclima mite ne esalta le componenti zuccherine.

Domenico era emigrato al nord e in Francia per studiare e lavorare, poi la nostalgia della Calabria l’ha spinto a tornare, accompagnato dall’intuizione che negli antichi prodotti della sua terra potesse esserci un futuro di sviluppo e di benessere. Ha affiancato i genitori, dando un’impronta moderna all’azienda di famiglia che si occupava solo di coltivazione e commercio di ortaggi e frutta.

Da allora segue tutta la filiera di produzione, dalla semina alla trasformazione, lavorando la cipolla rossa di Tropea in maniera completamente artigianale. Nelle sue mani, le cipolle diventano raffinate specialità gastronomiche: alta qualità mediterranea in olio extravergine di oliva, senza conservanti né coloranti.

Ci trasferiamo nel suo laboratorio, tra moderne vasche in acciaio e tradizionali pentole di rame. Il prodotto fresco viene accuratamente pulito e preparato, poi la cottura è una questione da chef, con pochi ingredienti e molta sensibilità. Davide affianca Domenico e la moglie ai fornelli, mescolando, tritando, salando, soprattutto assaggiando.

La specialità di Domenico è la mousse di cipollauna particolare marmellata di cipolla rossa di Tropea con aggiunta di uva passa e aromi, da gustare soprattutto con i formaggi e le carni.

Un altro prodotto interessante è la cipolla marinata di Donna Canfora, realizzata secondo un’antica ricetta araba del Cinquecento. Ha un gusto delicatissimo, con un lieve sapore di menta, ideale con gli antipasti e le insalate. Mentre segue la cottura, Domenico racconta la storia di Donna Canfora, nobile e bellissima vedova, che aveva dedicato la propria esistenza al ricordo del marito, vivendo in cucina ed elaborando ricette segrete.

Un giorno, un avventuriero del mare sbarcò sulla costa, se ne innamorò e la rapì con l’inganno. Ma donna Canfora si uccise gettandosi in mare, preferendo la morte al disonore. Da quel momento, le sue ricette divennero popolari e giunsero fino a noi.

Come si diceva, questa è una terra forgiata nel mito e insaporita al fuoco lento della leggenda. Una costa meravigliosa, spesso abbandonata e dimenticata, dove ogni pietra potrebbe costituire un tesoro e il capitolo di una narrazione.

Davide si toglie la parannanza e indossa gli abiti civili. Nel corso del servizio ha tagliato un bel po’ di cipolle. Dietro gli occhiali argentati, noto però occhi asciutti e senza arrossamenti.

«Non hai mai pianto tagliando tutte quelle cipolle?» gli domando un po’ stupidamente. Lui mi guarda serio e probabilmente ripensando alle tante cose viste e pensate in questa trasferta in Calabria mi risponde:

«La cipolla di Tropea non fa mai piangere». Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Tropea e sulla costa di Capo Vaticano; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

Il bergamotto della salute.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Brancaleone, il paesaggio la Costa Jonica Meridionale. Le coordinate geografiche sono 37°58’ Nord e 16°5’ Est.

Veniamo dalla piana di Sibari, all’estremità meridionale del Golfo di Taranto: la culla della Magna Grecia, stretta tra lo Jonio e la Sila. Un territorio dal clima favorevole dove cresce spontanea la liquirizia, una vera eccellenza d’Italia e di Calabria. Dopo trecento chilometri di macchina raggiungiamo la punta più a sud della penisolanel punto dove le onde del Tirreno si distendono oltre lo Stretto e incontrano quelle dello Jonio. Una specie di accoppiamento liquido, che crea un ambiente marino suggestivo e selvaggio, con i piedi delle montagne che affondano nelle lingue di spiaggia. Su questo litorale vengono a riprodursi le tartarughe Caretta caretta, mentre nei campi a ridosso della costa crescono i bergamotti. Anche qui siamo stretti tra le onde e le rocce – in questo caso dell’Aspromonte – e anche qui il clima permette una coltivazione esclusiva. Non ci sono altri posti al mondo dove il bergamotto fiorisca e fruttifichi: un’altra eccellenza d’Italia e di Calabria.

Incontriamo Fabio, il protagonista della puntata, e lo seguiamo nei suoi campi. L’erba alta, punteggiata di fiori di campo, è zuppa d’acqua della pioggia di ieri. Sullo sfondo del mare il sole si sta alzando e illumina le montagne alle nostre spalle. La luce ha una magia particolare e Massimo, il nostro regista, mette fretta al gruppo. Prima però c’è il rito della vestizione ed è proprio Massimo a guidare le operazioni. Non avendo stivali a disposizione, era stato lui – previdente – a chiedere in albergo alcuni sacchi neri della spazzatura, degli elastici e un rotolo di nastro adesivo. Con quell’armamentario copriamo le scarpe e quando infine entriamo nel campo assomigliamo a un gruppo di bambini che giocano agli astronauti. Siamo ridicoli, però il sistema funziona e ci permette di muoverci in libertà, scegliendo gli angoli più inusuali e seguendo Davide che si appassiona ai bergamotti e ne mangia in continuazione, respirando il profumo intenso dei frutti.

Quando si siede dice:
«Qui mi sento come a casa! Una casa molto profumata!». Poi coglie un altro bergamotto e lo addenta come fosse una mela.

Il bergamotto è un agrume particolareLa scorza è ricchissima di olii essenzialiprofumatissimi, che può essere mangiata insieme alla polpa. Il frutto è piacevolmente aspro, ma la buccia lo ingentilisce, come un tocco di zucchero naturale.

Il profumo è amplificato dall’acqua della pioggia e della rugiada che si sta asciugando al sole. Davide continua a mangiare e io lo imito. Taglio il frutto a spicchi con un coltello e lo gusto mente Fabio mi racconta la sua storia di coltivatore e trasformatore di bergamotti. La sua famiglia coltiva questa pianta da molte generazioni.

«Ma è sempre stato un prodotto povero e locale, – spiega. – Certe annate non valeva nemmeno la pena raccoglierlo».

Lui però ha dato uno sviluppo imprenditoriale all’attività, creando un’azienda interamente dedicata alla lavorazione del bergamotto, pensata e realizzata per seguire tutta la filiera e sfuggire ai vincoli degli intermediari.

«Negli ultimi anni è stato provato scientificamente che il succo del bergamotto è un potente anticolesterolo naturale ricco di flavonoidi, – aggiunge Fabio, – e questo ha permesso di rivalutare il prodotto fresco che prima era considerato quasi uno scarto».

Oggi, i migliori bergamotti sono venduti al mercato e richiesti da un pubblico di consumatori sempre più ampio e attento. Adesso siamo in piena raccolta, una fase delicatissima che si svolge a mano per non rovinare i frutti, soprattutto la buccia da cui si ricava l’olio essenziale.

Il bergamotto è un agrume generoso, pieno di qualità. Ricapitolando: appena colto si mangia fresco, dalla polpa si realizzano marmellate e succhi, con gli olii essenziali si producono – oltre ai profumi – anche liquori, miele aromatizzato e biscotti di vario genere. Fabio mi parla con orgoglio del suo attuale prodotto di punta: il succo di bergamotto congelato. Ha appena installato in laboratorio una cella di sedici metri quadrati, dove abbatte il succo purissimo ricavato dalla prima spremitura del bergamotto, subito dopo l’estrazione degli olii. Un prodotto ideale per le pasticcerie, le gelaterie e i ristoranti, che espande ulteriormente i confini del mercato.

«Ma quanto è grande il vostro campo?» chiedo incuriosito.

«Il nostro è una decina di ettari, tutti a bergamotto, – risponde Fabio, – ma acquistiamo e trasformiamo il raccolto di oltre centocinquanta piccoli produttori locali. Oggi gestiamo circa un quarto di tutta la produzione di bergamotto della costa jonica meridionale».

«Cioè del mondo?»

«Cioè del mondo!»

E allora, terminate le riprese nei campi ci trasferiamo in laboratorio, per vedere cosa succede al frutto dopo la raccolta. La tecnica di estrazione è semplice, ma vanta un’antica tradizione che risale addirittura al Settecento e appartiene anch’essa alla storia di Calabria. All’inizio era un processo manuale che consisteva nel tagliare i frutti a metà, cavare la polpa e comprimere con un movimento rotatorio delle mani la scorza contro una spugna naturale che assorbiva l’essenza sprizzata dagli otricoli del frutto.

Alla metà dell’800, sempre in Calabria, è stato ideato il primo sistema meccanico di estrazione dell’olio essenziale: lo stesso principio viene utilizzato ancora oggi.

C’è una grande vasca piena d’acqua, costantemente riempita di frutti, con una linea di cestelli che s’immergono e pescano i bergamotti portandoli in lavorazione. La macchina è semplice, con i rulli e i meccanismi quasi a vista. Per la gioia della nostra telecamera, gli operai di Fabio la smontano mentre lavora e ci permettono di filmare tutto il processo. Un lavoro lungo, delicato e minuzioso. Davide tocca con un dito il filo di olio essenziale che cola nel recipiente di raccolta. Guardando la telecamera spiega che «per produrre un chilo di essenza servono oltre duecento chili di frutti freschi!».

Decido di scattare alcune fotografie che documentino le fasi di lavorazione. Giro attorno alla macchina quasi inebriato dal profumo di bergamotto e noto un residuo di polpa e scorza che immagino sia l’unico materiale di scarto. Ma il bergamotto è un frutto generoso.

«Si chiama pastazzo, – mi dice Fabio. – Lo usiamo per estrarre le pectine ed è molto richiesto dall’industria farmaceutica».

Respiro profondamente le ultime boccate d’aria al bergamotto. Abbiamo quasi terminato il lavoro. Fabio sorride e aggiunge:

«Sai che l’aroma del bergamotto combatte l’ansia, la depressione ed è un efficace calmante. E poi è antibatterico e antinfiammatorio: un vero toccasana per le vie respiratorie».

Davide e io ci guardiamo mentre Fabio si allontana e scompare tra le centinaia di cassette colme di bergamotti ancora da lavorare.

«Un vero frutto della salute!» esclamo.
Lui annuisce e assume un’espressione seria:
«Un dono della terra, che trascuriamo e disprezziamo. Siamo avidi, e nemmeno conosciamo le nostre ricchezze…»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Brancaleone, sulla costa jonica meridionale; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

Le alchimie dell’olfattorio.

Oggi siamo in Emilia-Romagna, a 25 km da Rimini. Il paese è Torriana, il paesaggio la Val Marecchia. Le coordinate geografiche sono 43°59’ Nord e 12°23’ Est.

Dall’Appennino centrale alla riviera romagnola è tutto un susseguirsi di balconi panoramici. La vista si distende come un vento largo e lo sguardo ondeggia tra le colline, le rocce, le foreste e i vigneti. Il territorio sembra modellato dall’aria: sempre in movimento, con ondulazioni lievi d’argilla e una vegetazione compatta da cui sbucano qua e là speroni di arenaria. Ci spostiamo da un’altura all’altra, cercando di catturare con la telecamera le emozioni degli occhi. Inseguiamo la luce, i contrasti, le forme di questi luoghi: ciò che abbiamo imparato a vedere nei quadri del Rinascimento.

Questa terra, contesa e di confine, custodisce un patrimonio culturale unico al mondo. Le grandi famiglie se la sono disputata per secoli e mi piace pensare che le gocce di sudore e sangue dei contadini e dei soldati siano diventate castelli, abbazie, poemi, affreschi. Davide si arrampica sulla punta che sovrasta Torriana. Lui che soffre di vertigini allarga le braccia e si aggrappa con lo sguardo alla rocca di San Marino. Poi gira su sé stesso; la macchina da presa lo insegue a spalla e noi ruotiamo dietro l’operatore per non finire in campo. Tengo lo sguardo basso e lo sento dire:
– Queste sono le terre dei Malatesta e dei Montefeltro, di Dante e Piero della Francesca… Signori, questa è l’Italia.

Ripetiamo la scena alcune volte, finché Massimo – il nostro regista – dice che è venuta bene. Solo allora cancello la battuta dalla sceneggiatura. Poi saliamo in macchina e attraversiamo la tenuta di Saiano, diretti all’Olfattorio di Baldo e Tommaso.

Se la Val Marecchia è una sintesi dell’Italia, la tenuta di Saiano è una sintesi della Val Marecchia. Sessanta ettari di armonia dove la mano dell’uomo ha stretto quella della natura. Il bosco è pieno di animali selvatici, i campi sono generosi e i filari di Sangiovese si distendono regolari, irrigati da quattro laghetti che raccolgono l’acqua piovana. Nel cuore della tenuta esisteva un piccolo borgo di agricoltori e pastori, le cui origini potrebbero essere addirittura etrusche. Oggi, al posto degli antichi casoni c’è il ristorante di un giovane e sensibile cuoco della valle, con alcune camere intonate all’ambiente e alla sua storia.

Poco più in là c’è l’Olfattorio, dove Baldo e Tommaso – i protagonisti della puntata – realizzano vermut e liquori artigianali di qualità inimitabile. Tommaso è un vero e proprio chef del bar, che sa leggere i gusti del pubblico e li reinterpreta miscelando liquori e spezie. Baldo invece è un alchimista, un naso eccezionale e un palato infallibile. Conosce i profumi e i sapori, li ascolta, li accosta, li unisce. Gli scrittori fanno grosso modo la stessa cosa con le parole, i musicisti con le note e i pittori con i colori.

Nell’Olfattorio sono custodite oltre 1500 botaniche: radici, rizomi, spezie, bacche e resine che Baldo e Tommaso tagliano, grattano, pelano, pesano, filtrano e mettono in infusione per realizzare le loro creazioni alcoliche. Sono artisti della sensorialità. L’Olfattorio è il loro mondo segreto, un laboratorio di creatività che si presenta come un corridoio sospeso, con un grande tavolo in legno e centinaia di barattoli scuri disposti ai lati. Su ogni barattolo c’è un’etichetta dipinta a mano da Baldo, alla maniera benedettina. In fondo c’è una piccola sala da concerto. Un tavolo che assomiglia a un palcoscenico, sovrastato da un palco semicircolare come la platea di un teatro greco. Baldo siede al tavolo con un foglio di carta crespa davanti a sé, il calamaio e un pennino. Tutt’intorno, le boccette di essenze.

Come un direttore d’orchestra che gioca con l’udito maneggiando le note di ogni strumento, così Baldo gioca con il gusto e l’odorato, armonizzando profumi e sapori capaci di regalare emozioni, oppure di avvelenare. Lui insegue un’idea, spesso impossibile da esprimere, assaggia e annusa. Cerca una boccetta, la apre, ne cattura le informazioni. Poi le scrive: inchiostro su carta, pensieri che a poco a poco prendono forma e diventano ricette. Un modo di lavorare lento e minuzioso, l’unico possibile per Baldo e Tommaso.

Tra le loro creazioni più recenti ci sono un vermut rubino con due tipologie di assenzio e una resina balsamica, un liquore di noci invecchiato quattro anni e un infuso di carciofo ed erbe. Ma soprattutto l’elisir degli elisir: il bitter di Baldo, con oltre sessanta botaniche. Occorrono centoventi giorni di lavorazione e più di quindici anni per armonizzare tutti questi aromi. Baldo e Tommaso stanno recuperando la grande tradizione italiana del vermut, nata a Torino con Antonio Benedetto Carpano nel 1700, ma già nota fin dall’antichità.

Chiedo a Tommaso da dove derivi il termine vermut, con cui è stato chiamato questo vino aromatizzato con assenzio e altre piante.
– Esistono diverse ipotesi – mi spiega – La più accreditata è che sia una rielaborazione del tedesco Vermuth,che significa appunto assenzio. Ma potrebbe anche essere un francesismo, da verre “bicchiere” e mouth, “bocca”.
– È davvero un’invenzione italiana?
– Carpano ha creato il prodotto e il marchio – dice Baldo – ma in Algarve era già noto nel ‘500 e anche i Romani preparavano l’Absinthiatum vinum, un succo d’uva fermentato e impreziosito conassenzio e spezie. Una storia antica, che porta lontano nei secoli, lungo rotte di commerci e culture.

L’ultimo atto della giornata è il cuore del servizio. Ormai abbiamo capito che la vera arte di Baldo e Tommaso è creare liquori sperimentali, individuando accordi aromatici personalizzati. Un po’ come fa un sarto quando cuce un abito su misura e veste un caratterenon un corpo. Chiediamo se possono fare qualcosa del genere anche per noi – cioè per Davide – davanti alla telecamera. Non aspettavano altro. Lo invitano a sedersi al centro dell’Olfattorio e lo bendano. Poi gli chiedono dei suoi colori, della sua musica, dei suoi materiali preferiti. Ogni tanto Baldo individua una boccetta, la porge a Davide e ne registra la reazione.

Si procede a lungo così, tra profumi e olii essenziali, finché sul foglio di carta crespa il pennino dell’alchimista traccia le linee guida della personalità sensoriale di Davide.Il suo mondo interiore,la cuvée che sarà la base per realizzare il suo liquore o il suo profumo. Prendo il foglio dal tavolo e leggo a voce alta, sforzandomi di decifrare la grafia amanuense di Baldo. Sono nomi di piante e fiori e spezie, ma in certa misura anche il carattere di Davide, il suo spirito.
– Giaggiolo, Galanga, Pepe di Goa, Pepe rosso, Sassofrasso
– Questo sono io? – chiede Davide, annusando la boccetta che racchiude il suo accordo aromatico.
– Bisogna ancora lavorare sulle dosi – risponde Baldo – smussare gli angoli e raggiungere la perfetta armonia. Ma quello sei tu.
– Meraviglioso – esclama Davide.
Poi si volta verso la macchina da presa e aggiunge:
– Questa è l’Italia della qualità.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Torriana, in Val Marecchia; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

Liquirizia di Calabria.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Rossano, il paesaggio la Piana di Sibari.

Le coordinate geografiche sono 39°34’ Nord e 16°38’ Est. Rossano è un’antica città affacciata sullo Jonio e sulla Sila. Da un lato onde lunghe, stirate dal vento; dall’altro pareti ripide e distese di conifere che custodiscono abitazioni in pietra, piccoli borghi e chiese bizantine come l’abbazia di Santa Maria del Patire. Proprio qui saliremo nel tardo pomeriggio, cogliendo gli ultimi istanti di luce, per filmare Davide che passeggiatra i mosaici.

La piana di Sibari è un territorio unico, armonia di culture di mare e di montagna. Questo era il cuore della Magna Grecia; fa un certo effetto camminare oggi tra capannoni selvaggi e scheletri di edifici, pensando alla terra dei padri: Erodoto e la storia, Pitagora e la matematica, Alcmeone e la medicina, Milone e lo sport.

Ignoranza e avidità sono armi potenti, capaci di distruggere.
In questi terreni, così ricchi di storia, la natura ha nascosto un vero tesoro: la liquiriziaUna radice selvatica che cresce praticamente solo qui in Calabria.

La famiglia di Fortunato – il protagonista della puntata – lavora da tredici generazioni in maniera artigianale la migliore liquirizia del mondo. La sua azienda è una delle pochissime a seguire tutta la filiera, partendo proprio dalla radice. Probabilmente è anche la più antica; l’attività era iniziata nel ‘500 e l’impresa è stata fondata nel 1731.

Trecento anni, tra quindici d’anni. Un patrimonio di cultura e di conoscenze che si sarebbe perso nel vortice della modernità, tra dolciumi di zucchero raffinato, coloranti e aromi artificiali.

Iniziamo le riprese nel campo, per seguire da vicino il cammino della liquirizia: dalla nuda terra a un’elegante scatoletta di latta. Tutto inizia con una pianta infestante, che cresce spontaneamente e si raccoglie ogni quattro anni, perché dopo l’estirpazione bisogna attendere che la radice si riformi.

La pianta ha un fusto esile e delicato, però dotato di radici potenti e profonde, spesso lunghe più di un metro. Un tempo si credeva che scendessero fino all’inferno!

La tecnica di raccolta è interessante. Immaginavo di passeggiare insieme a Davide e Fortunato in mezzo alle sterpaglie, strappando a braccia le radici di liquirizia dalle viscere della terra. Invece arriviamo con le macchine ai margini di un grande campo. Il terreno è perfettamente arato. Gli agricoltori hanno scavato profondi solchi con il trattore e sono entrati come soldati in quelle trincee per prendere le radici di liquirizia. Per raccogliere qualcosa dall’inferno, bisogna essere disposti ad andare molto vicino all’inferno.

Dopo il campo, la fabbrica; terminata la raccolta, inizia la lavorazione. Nell’azienda di Fortunatoè stato recuperato lo storico concio settecentesco, l’antico laboratorio dove le radici vengono tagliate e lavorate. Qui, la mano dell’uomo – con l’aiuto della tecnica – trasforma una semplice radice in un prodotto di altissima qualità, tutto naturale, senza additivi e dal sapore inimitabile.

La prima stanza di lavorazione è proprio il piazzale, dove le radici vengono depositate e selezionate in base alle caratteristiche. Ci sono mucchi di tronchetti di liquirizia, ancora sporchi di terra, ammassati sui bancali. Vengono continuamente movimentati dai muletti che li portano al taglio. L’odore è fortissimo, misto alla polvere di terra sospesa a mezz’aria. Anche il rumore delle macchine è assordante. Ce n’è una dotata di nastro trasportatore che taglia le radici, riducendole a una poltiglia fibrosa e verdastra. La massa grezza viene poi portata all’interno e caricata in una speciale caldaia dove un getto di vapore ne estrae il succo.

Sembra di essere in una distilleria. Il liquido esce dalla caldaia e passa nella conca, dove bolle e perde l’acqua. Diventerà una massa solida che poi sarà tagliata, lucidata e confezionata. Le conche sono due grandi contenitori di ghisa, dove la liquirizia si prosciuga fino a diventare una pasta. Attorno a queste grandi pentole sembra invece di essere in cucina. Il mastro liquiriziaio si muove come uno chef. Gli chiediamo di togliere il coperchio per permetterci di filmare il liquido scuro che gorgoglia smosso dalle pale. Impostiamo le luci e vediamo lo chef agitarsi, guardare l’orologio, annusare il fumo che fuoriesce dalla conca. Siamo troppo lenti e la liquirizia potrebbe bruciarsi. Così, per non avere sulla coscienza un turno di lavorazione, lasciamo perdere le luci e accendiamo il faretto a mano. Nella penombra portiamo a casa una delle inquadrature più suggestive di tutto il servizio.

Mentre ci trasferiamo nell’ultima stanza, Fortunato mi racconta che le conche sono state realizzate all’inizio del Novecento da pezzi unici di ghisa. Nel corso del secolo, la sua famiglia ha cercato più volte di sostituirle con altre d’acciaio, ma finora tutti gli esperimenti sono falliti. Solo quelle vecchie conche, scavate nella ghisa come Ulisse aveva scavato il suo letto nel tronco di un albero, resistono alle altissime temperature senza deformarsi.

Per lui è un problema, ma anche una bella storia da raccontare. Nel reparto del taglio scopriamo un altro mondo ancora. Adesso sembra di essere da un panettiere. C’è una macchina di metallo che sforna a intervalli regolari la pasta di liquirizia. L’operaio la taglia e la mette sul tavolo. Mi perdo con la macchina fotografica a inseguire i dettagli della trama di liquirizia grezza. Pani scuri che sembrano foche e leoni marini distesi sulla spiaggia. La testa e la coda alle estremità, la pancia debordante al centro. Il tutto racchiuso da una pelle grinzosa e ruvida.

Usciamo dal concio e procediamo verso il museo d’impresa. Uno spazio curatissimo, visitato da decine di migliaia di persone ogni anno. L’edificio che lo accoglie è la storica residenza di famiglia, che risale alla fine del Quattrocento. Per arrivarci bisogna passare sotto la strada statale. Chiedo a Fortunato se non si senta assediato da questa strada e dalle costruzioni intorno, che sembrano soffocare l’edificio e la sua storia. Mi racconta che il nonno aveva provato a opporsi alla costruzione. In famiglia conservano ancora la lettera dove le autorità spiegavano che il futuro non si poteva fermare.

Nel museo, Davide assaggia la liquirizia e davanti alla telecamera afferma che «è un potente tonificante, antinfiammatorio, antiossidante, cardiotonico, disinfettante della gola, dell’apparato respiratorio e di quello digestivo…»

Io ascolto con interesse, pensando a tutta la liquirizia che abbiamo mangiato e respirato oggi.

Scopro anche che questa radice prodigiosa si usa nell’alta cucina, nella produzione di liquori, distillati e in prodotti cosmetici come dentifrici, saponi e creme.

Quando Davide chiude la sedia, si chiude anche il servizio. Guarda verso la macchina da presa ed esclama: «La liquirizia pura è una vera delizia per tutto il corpo, sempre a portata di mano. Altro che caramelle!».

Bene, ora è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Rossano, nella piana di Sibari; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

La Rosa di Gorizia.

Oggi siamo in Friuli Venezia-Giulia. Il paese è Gorizia; il paesaggio la Piana dell’Isonzo al confine con la Slovenia. Le coordinate geografiche sono 45°56’ Nord e 13°37’ Est.

Lasciamo Udine al mattino presto sotto un cielo grigio. Sulla statale, subito dopo Manzano, comincia a piovere. A Mossa, mezz’ora dopo, entriamo nella nebbia e la giornata di riprese sembra finire prima ancora di cominciare. Invece Davide – seduto in macchina accanto a me – esulta. Adora girare sotto la pioggia e non vede l’ora di aprire il grande ombrello rosso. La sua energia positiva è contagiosa e si diffonde rapidamente tra di noi mentre superiamo l’Isonzo. Oggi il fiume appare dimesso e spento, ma Davide ce lo descrive nella sua forma migliore, quando si tinge di verde smeraldo. Parcheggiamo in città. Quando si pensa a un luogo di frontiera, ecco Gorizia: un piede in Italia, l’altro in Slovenia. Qui si sono incontrate le grandi culture europee, intreccio di atmosfere latine, slave e germaniche che si ritrovano nelle architetture, nei monumenti, nei caffè del centro storico.

Percorriamo il viale principale e entriamo in uno di quei caffè descritti dalla sceneggiatura. Legno alle pareti, legno in terra, legno sul bancone, e poi vetri e specchi ovunque, anche sul soffitto. Il contesto è affascinante ma pericoloso, per Davide e la sua sedia. Gli suggeriamo movimenti lenti e misurati. Gianluca, lo scenografo, lo segue e controlla le curve dell’oggetto. Però Massimo, il regista, ha già acceso la telecamera e grida:
– Siete tutti in campo! Fuori!

Mentre usciamo, la gente nel bar si volta verso di lui.
– Non guardate in camera.
Davide intanto si è avvicinato al banco. La sua sedia ondeggia, ma non urta niente di delicato. La situazione è surreale. La ragazza del bar gli sorride. Un sorriso luminoso e lieve. Noi lo osserviamo dalla strada e cogliamo la prima rosa di Gorizia della giornata.

Quando Davide e Massimo escono dal caffè, ha smesso di piovere. Come al solito creiamo scompiglio mentre attraversiamo le strade e filmiamo i passaggi di Davide in città. La gente lo riconosce e gli chiede quando andrà in onda la trasmissione. Lui non lo sa, però lo dice lo stesso. Ogni persona una data diversa, una battuta, un sorriso. È sempre molto disponibile con le persone, gli piace stare in mezzo alla gente che rende vivi i luoghi. E parlando di luoghi vivi, la cosa che forse stupisce di più qui a Gorizia è il verde. Le dimore storiche si susseguono e ogni cortile è un parco. Questione di antiche ricchezze, certamente, ma anche di amore per la terra e di un radicato rispetto per la natura.

Clima e terreno, in queste terre di confine, di contrasti e armonie, sono ideali per l’agricoltura. Negli orti e nelle campagne, si coltiva da sempre una varietà di radicchio che sembra una rosa appena sbocciata: la rosa di Gorizia. Francesco – il protagonista della puntata – è uno di questi agricoltori. Aveva iniziato il nonno, poi il padre e adesso i figli. La rosa di Gorizia è la specialità di famiglia. Un’opera d’arte da gustare con gli occhi, oltre che con il palato. Si comincia nel campo, che deve essere di medio impasto, ricco di ferro e ben drenante. Raggiungiamo i campi di Francesco in macchina e per fortuna ho portato gli stivali di gomma. Infatti ha ripreso a piovere, per la gioia di Davide che saltella nel fango con l’ombrello in mano e la sedia in spalla.

Il radicchio destinato a diventare una rosa si semina in primavera.
– Non è certo questo il momento – dice simpaticamente il nostro inviato alla macchina da presa, sotto la pioggia battente.
La pianta si coltiva insieme al frumento o all’avena. Una scelta sapiente, che viene dagli antichi e che permette di tenere i diserbanti lontani dal campo. Poi, dopo la mietitura, il radicchio prosegue da solo la crescita. In inverno, infine, quando il gelo brucia le grandi foglie esterne che si ripiegano su se stesse per proteggere il cuore, le piante vengono raccolte, legate in mazzetti e portate al coperto.

I coltivatori realizzano delle speciali stanze di forzatura, dove il radicchio rimane un paio di settimane alla temperatura costante di dieci, quindici gradi, e viene innaffiato spesso per stimolare la vegetazione. Quando la maturazione è completata, la rosa è quasi pronta per sbocciare. La pulitura è l’operazione fondamentale, che le donne di casa realizzano a mano, impiegando ore e ore. Con un coltellino tolgono la terra e poi, foglia dopo foglia, raggiungono il cuore.
– Pensate che da un chilo di raccolto si ottengono solo due etti di prodotto – esclama Davide alla telecamera, seduto nel magazzino in mezzo a un cumulo di terra e foglie.

A questo punto ci trasferiamo in casa, dove Francesco e la sua famiglia hanno preparato due ceste piene di rose di Gorizia. Sono bellissime, sembrano davvero dei fiori appena sbocciati. Il colore è rosso carico, brillante, oppure bianco nella variante “canarino”. Ogni famiglia riconosce le proprie rose, perché da generazioni conserva le sementi e le combina per ottenere varianti cromatiche esclusive. Sono agricoltori o stilisti? A sentirli parlare, sembra che raccontino delle loro orchidee. Provo a chiedere qualcosa di più. Francesco sorride e tace. Si nasconde dietro il suo viso sereno, i capelli bianchi, la pelle arrossata, gli occhi trasparenti. Accenna qualcosa a proposito delle fasi lunari, mi racconta del piacere che prova a disegnarele foglie del suo radicchio e mi parla della semenza che di anno in anno, di generazione in generazione, viene preparata e conservata per la semina successiva.

Poi dice:
– Nessuno di noi darebbe mai le sue sementi ad altri produttori. Sono il nostro patrimonio.

Ma la rosa di Gorizia non è solo bella, anzi bellissima; è anche buona, anzi buonissima. Croccante, con un sapore intenso, appena amarognolo. In cucina si può preparare in molti modi, ma io suggerisco di gustarla al naturale, come la natura e la mano del contadino l’hanno creata.

Gli anziani conservano anche le radici e le condiscono assieme al radicchio. Giurano che siano fantastiche con le verze e la polenta. Il nostro amico Josko – quello dell’aceto di d’uva – prepara le rose saltate nel burro, distese su mele tagliate finissime con una spruzzata di kren. Oppure realizza uno strudel di radicchio con burro, pane grattugiato e ricotta affumicata.

Davide conosce bene tutte queste ricette. Lui – a telecamere spenta – mi confessa che gli basta condire il radicchio con un filo di aceto balsamico e un po’ di olio extravergine di oliva, magari con l’aggiunta di un mestolo di fagioli caldi e una fetta di pane rustico appena riscaldato nel forno a legna. Piatti semplici, capaci di emozionare.

Infine, Davide prende un bocciolo di rosa di Gorizia e lo porta alla bocca. Ma invece di mangiarlo, lo annusa e lo infila delicatamente nel taschino della giacca, come fosse un’elegante pochette. Terrà quella rosa dell’orto anche più tardi, quando verrà il momento di lasciare Francesco e andare verso altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Gorizia, nelle campagne dell’Isonzo al confine con la Slovenia; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

Il prosciutto di San Daniele Dok.

Oggi siamo in Friuli Venezia-Giulia. Il paese è San Daniele, il paesaggio l’Anfiteatro morenico friulano. Le coordinate geografiche sono 46°9’ Nord e 13°0’ Est.

Eravamo già stati qui, per parlare delle acque limpide del Tagliamento e delle sue trote. Ma questo antico borgo, arroccato su un colle tra le montagne e il mare, ha ricevuto in dono dalla natura anche l’aria. Ed è proprio la qualità dell’aria che rende unico il prosciutto crudo di San Daniele Dop.

Davide e io veniamo da Udine e procediamo lentamente sulla statale. Con noi c’è anche Daniele, suo figlio, un ragazzone di vent’anni con la passione per il cinema e la recitazione. Ha già lavorato con registi importanti e adesso è intrappolato in una lunga serie televisiva per la Walt Disney. Appena ha un giorno libero si aggrega a noi e diventa uno di Paesi, paesaggi.
– Sei contento di andare nella tua città? – gli domando.
Lui sorride e non risponde. Uguale al padre.
Cambio discorso e ragiono a voce alta sulla conformazione del territorio. Immaginate una pianura con a sud il mare e a nord le montagne. Da un lato le correnti d’aria calda e umida accompagnate da temperature miti, dall’altro i venti freddi e secchi, con un clima rigido. In mezzo San Daniele, in cima a un colle proprio di fronte all’anfiteatro morenico. Il Tagliamento attraversa la regione e collega i mondi di sopra e di sotto come un enorme convettore naturale che rimescola l’aria e produce frequenti sbalzi termici e variazioni climatiche. Come già abbiamo imparato con altri cibi – ad esempio l’uva e il peperoncino – anche la coscia di suino ha bisogno di caldo e di freddo per invecchiare bene e trasformarsi in prosciutto di qualità.

Entriamo in paese e passiamo davanti al cartello di benvenuto.
– Hanno messo anche un’insegna in tuo onore – dico a Daniele.
– Qui mi sento come a casa! – esclama con un sorriso. Davvero uguale al padre. Parcheggiamo accanto al Duomo, poi beviamo un caffè al bar di fronte e giriamo le prime inquadrature dietro la Chiesa di Santa Maria della Fratta. Lì c’è un bel giardino pubblico, con una vista magnifica sulla piana.

Il prosciuttificio di Carlo – il protagonista della puntata – è laggiù, poco distante. Si chiamaDok, un acronimo che deriva dai nomi delle precedenti aziende del padre e ricorda la denominazione di origine controllata. Uno spazio moderno, ma realizzato con molta attenzione ai dettagli del tempo. L’esterno, ad esempio, è tutto rivestito con antiche liste di legno e anche all’interno i tavoli sono realizzati recuperando le assi del precedente prosciuttificio. Ci sediamo a uno di quei tavoli e cominciamo a chiacchierare con Carlo, che ci racconta la storia della sua famiglia. Intanto mi guardo intorno e noto prosciutti ovunqueappesi a invecchiare e arredare al tempo stesso.
– Il prosciutto sta bene dove stiamo bene noi – dice Carlo – Puoi metterlo anche in salotto, sopra la televisione. È fatto solo di carne, con un po’ di sale.

Ribadisce il concetto chiave che la qualità del prosciutto crudo nasce dalla qualità del suino. Lui ha raccolto l’eredità del padre e ha cominciato a viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, la Spagna e la Cina, che a sorpresa scopriamo essere un grande e eccellente produttore di prosciutto. Nel corso degli anni ha selezionato i migliori allevamenti e ha investito nella qualità, compiendo una scelta radicale: è uscito dalla grande distribuzione, ha ridotto le quantità e ha aumentato l’invecchiamento, realizzando delle vere e proprie verticali di prosciutto crudo che dai tradizionali dodici o diciotto mesi, esplorano i mondi dei due, tre, quattro, addirittura cinque anni.

Per capirci qualcosa, dobbiamo andare a scuola. Così indossiamo il camice e seguiamo il maestro nella sua prosciuttaia. È un gioiello, il luogo dove l’estetica incontra il gusto e gli antichi saperi dei maestri convergono nella moderna tecnologia. Dove prima c’erano grotte e assi di legno, adesso c’è vetro. Migliaia di cosce di suino invecchiano a vista in questa immensa sala dove la climatizzazione è controllata minuziosamente. Carlo ci ricorda che il prosciutto non è un insaccato e per affinare bene non ha bisogno di nebbie e cantine scavate nella roccia; al contrario gli occorrono aria e tempo.

La parola chiave è lentezza. Il tempo qui ha un grande valore e ogni giorno rende prezioso il prosciutto crudo di San Daniele Dop. Dalla stanza dell’affinamento passiamo a ritroso in quelle di lavorazione, dove le cosce vengono salate a mano, con sale marino pugliese Margherita di Savoia. Poi gli ambienti di prima stagionatura, dove uno speciale sistema di irrigazione inumidisce la sala a intervalli regolari. Prima di tornare ai tavoli della prosciutteria e imparare a tagliare a mano, Carlo ci fa notare una polvere giallastra che si è depositata a terra, sotto le forme.
– Sai cos’è questa? – mi domanda.
– Polvere?
– Non proprio: acari!
Lo guardo incuriosito. Lui mi spiega che gli acari sono uno dei tesori del prosciuttificio.
– Quando ci siamo trasferiti in questo nuovo spazio, abbiamo ricostruito tutto, tranne gli acari. Loro sono un prodotto della natura, capisci?
– No.
– Gli acari vanno sulla carne. Se ne cibano e sono i regolatori naturali del processo di invecchiamento. Poi cadono a terra e mi piace pensare che abbiano la pancia troppo piena e non riescano più a restare appesi!
– E come hai fatto a portarli qui?
– Sono venuti da soli. Adesso si trasmettono da un prosciutto anziano a uno più giovane e formano preziose colonie. Sono amici invisibili, una componente essenziale del microsistema di un prosciuttificio.
Pensavo che gli acari fossero dei nemici, ma capisco che non c’è peggior nemico della non conoscenza.

Raggiungiamo infine il tavolo predisposto per il taglio e la degustazione. L’allievo è Davide: lui lavora, noi osserviamo. Comincia subito a mettere il prosciutto nella morsa e impara che il coltello – lungo, flessibile e affilatissimo – deve essere solo appoggiato alla carne. Non bisogna spingerlo, ma accompagnarlo nel taglio. Le fette devono essere sottiliomogeneecon la giusta quantità di grassoognuna racchiude una storia e regala un’emozione.

L’ultimo passo è la degustazione. Per mangiare bisogna usare le mani, perché il cibo non si infilza, si accarezza. In genere, noi abbiamo i sensi addormentati e non ci accorgiamo più di nulla. Ma vi assicuro che messi lì sul piatto, uno accanto all’altro, quei petali di prosciutto crudo di 18, 24, 36 e 48 mesi sono come libri aperti. Li assaggi in silenzio, li assapori, ed è come leggerli. Li capisci. Non serve essere degli esperti. La bontà è dentro di noi, dobbiamo solo lasciarla parlare e imparare ad ascoltarla.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a San Daniele, nella patria del prosciutto crudo Dop (e anche Dok); ma con come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

Olive cento per cento.

Oggi siamo in Trentino Alto-Adige. Il paese è Riva del Garda, il paesaggio l’Alto Lago. Le coordinate geografiche sono 45°53’ Nord e 10°50’ Est.

Sono in macchina con Marco, il nostro operatore. Ormai è buio, quasi ora di cena.
– Fame? – domando.
– Un po’… è lunga da Genova…
Lo guardo e sorrido. Questo è forse l’ultimo viaggio che facciamo insieme. La vita gli ha offerto un nuovo lavoro e lui ha accettato. Ci mancheranno molto, Marco e le sue inquadrature.
– Forse passando da Peschiera e Affi avremmo fatto prima – dico a bassa voce, tanto per cambiare discorso e non pensare alle riprese di Paesi, paesaggi dopo di lui.
– Però – aggiungo subito dopo – vuoi mettere l’autostrada con il lungolago?

Abbiamo entrambi fame, ma la strada è bellissima. Sarebbe da fare in moto al tramonto, ma anche in macchina e di notte ha il suo fascino. Curve e controcurve, gallerie scavate nella roccia viva, la montagna ripida sulla sinistra e il lago sulla destra, con le luci dei paesi che si riflettono sull’acqua ferma e scura. Il tempo vola e all’ora di cena siamo pronti a incontrare il resto della troupe. Davide è in gran forma, rilassato e brillante. Massimo, il regista, è invece un po’ stanco mentre Gianluca, lo scenografo, è eccitato. Ha appena terminato una serie di nuovi quadri, ha trovato un gallerista e pensa solo a dipingere. Infine Marco, il nostro direttore di produzione. Se non ci fosse lui, durante le riprese ci perderemmo per strada.

Con noi ci sono anche Massimo e Furio, i protagonisti della puntata. Furio è il tecnico, un ragazzo alto che viene dall’enologia; Massimo è il manager, l’organizzatore, il commerciale, tante cose insieme che producono tutte ottimi risultati. La loro creatura è una grande cooperativa agricola, con oltre 350 soci che conferiscono olive e uva. Noi ci occuperemo di olio biologico di altissima qualità, ma affronteremo il tema da una prospettiva insolita e parleremo di un’idea rivoluzionaria che Massimo e Furio stanno sperimentando da un paio d’anni con l’Università di Perugia. Si tratta di una macchina che permette di utilizzare e trasformare ogni parte dell’oliva, senza scarti.

Mentre ceniamo e discutiamo della sceneggiatura, entriamo nel vivo della puntata. Massimo spiega che dopo la frangitura solo il 15% dell’oliva diventa olio. Il resto è un mondo tutto da scoprire, a partire dal nocciolino che è un eccellente combustibile naturale con un altissimo potere calorifico.
– Pensate che un chilo di nocciolini di oliva riscalda come mezzo chilo di petrolio! – esclama Massimo.

Poi c’è la sansa, la parte solida della spremitura: ottimo cibo per gli animali, ricchissimo di polifenoli. Il resto dell’oliva, circa il 50%, invece è liquido. L’ingegnosa macchina che scopriremo domani nel frantoio, rielabora proprio questa parte di scarto del frutto. Come una marmitta catalitica la trasforma in acqua vegetale, priva di sali minerali, che può essere addirittura bevuta oppure impiegata per altri scopi, legati ad esempio alla detergenza o al raffreddamento. Facciamo un po’ di conti, considerando che quest’acqua costituisce grosso modo il 30% dell’oliva. Il frantoio di Massimo e Furio spreme circa 9000 quintali di olive all’anno, ricavando oltre 3000 quintali d’acqua che non viene prelevata da alcun pozzo. La legislazione non è ancora pronta, ma è facile immaginare che in un prossimo futuro potrà essere impiegata anche per uso alimentare.

polifenoli antiossidanti sono infine presenti in concentrazione altissima nel restante 20% dell’oliva. Ed è proprio questo sciroppo denso, dalla colorazione dorata, il vero tesoro. Un concentrato di sicuro interesse per l’industria farmaceutica e cosmetica. Al momento, Massimo e Furio lo usano come concime fogliare per le viti e gli olivi. Restituiscono alla terra ciò che la terra ha donato.
– Se pensiamo che in Italia si raccolgono oltre 30 milioni di quintali di olive all’anno – conclude Massimo – quanto concime, quanto combustibile e soprattutto quanta acqua potremmo avere dalla natura?
– E se fosse proprio l’oliva il nostro oro verde? – domanda Davide.
Massimo e Furio sorridono e tacciono. Domani scopriremo tutto con i nostri occhi.

L’indomani mattina arriviamo presto in azienda. La cooperativa è nata dal legame degli agricoltori per la loro terra, bellissima e generosa. Ieri sera, Marco e io potevamo solo intuirla, oggi invece catturiamo con la macchina da presa distese di oliveti e vigneti che circondano il lago attorno a Riva e a Torbole, arrampicandosi sui primi declivi delle Dolomiti. L’azienda è stata fondata nel 1926, ma nasce da un precedente e antico consorzio di origine austro-ungarica. Oggi è diventata un punto di riferimento per tutti gli agricoltori della zona: il cuore pulsante di un sistema integrato di sviluppo del territorio che offre consulenza e trasforma, commercializza e valorizza i raccolti.

L’infilata spettacolare di botti d’acciaio nasconde la macchina sperimentale per il riuso delle olive, parcheggiata in un angolo un po’ defilato del frantoio. È particolarmente bella nella sua essenzialità. Sembra il computer di un hacker, groviglio di fili e cavi e parti meccaniche che una volta in funzione vibrano e scuotono l’ambiente. Mi ricorda la macchina magica del professor Balthasar, il protagonista di un cartone animato che guardavo da bambino. Con quella macchina, Balthasar reinventava il mondo. Ma quella era fantasia, questa invece è realtà che supera la fantasia.

In chiusura ci occupiamo del territorio e realizziamo le inquadrature che nel servizio monteremo per prime. Davide cammina nel porticciolo lungo la riva del lago, percorre le vie selciate del centro storico, poi attraversa i filari di olivi cercando il luogo dove posare la sedia e sentirsi come a casaRiva del Garda è un piccolo paradiso, l’antica residenza estiva dei principi di casa d’Austria. Siamo lontani dalle grandi vie di transito; da queste parti si viene, non si passa. Da un lato il blu intenso dell’acqua, striata di bianco quando si alza l’Ora, il vento del pomeriggio; più in là, verso i monti, il verde dei campi, e in mezzo l’eleganza della città con le sue testimonianze scaligere e veneziane.

A un tratto vedo un anziano signore che attraversa di corsa la piazza e raggiunge Davide. Gli stringe la mano e gli parla della sua terra d’origine, la Valvestino. Una zona di mezza montagna, poco distante, a circa mille metri d’altezza. Lì ci sono pascoli di malga e si produce il Tombea, un formaggio d’alpeggio tipico. Mi avvicino e ascolto con interesse le parole di quel misterioso signore mentre descrive le case della sua valle, con i tetti spioventi ricoperti di fieno e paglia. Non abbiamo ancora terminato di girare una puntata e già ne cominciamo un’altra.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Riva del Garda, tra gli oliveti dell’Alto Lago; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 

 

« Previous Entries Next Entries »


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |