Archive for 2014

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Farine integrali e pietre naturali.

Oggi siamo in Piemonte; il paese è Cossano Belbo, il paesaggio quello dell’omonima valle.
Vento lieve, aria di primavera, strada dritta e piatta. L’autostrada fuori Torino tace, finché il paesaggio comincia a muoversi. Nei finestrini laterali s’inquadrano piccole scosse superficiali, come l’inizio di un racconto. Quando il terreno si alza con decisione, è tempo di uscire.

Ad Asti imbocco la strada per Alba, poi a Isola svolto a sinistra, verso Sud, e comincio a curvare. Sono curve della strada, ma anche della vita. Nei paesi cerco i volti dei figli e dei nipoti del partigiano Johnny, nelle campagne gli scorci aspri della “malora”.
Pagine letterarie macinate dalla pietra naturale dell’esistenza.

Attraverso la terra di Fenoglio e Pavese e mi fermo a Cossano Belbo, un piccolo centro racchiuso tra i vigneti del Moscato d’Asti e i noccioleti delle Langhe dove è ancora in attività un mulino che macina a pietra naturale.

Pietra di cava della fine dell’Ottocento, da martellare a mano per mantenerne la giusta rugosità. Piccoli rilievi che il mugnaio incide a colpi di scalpello, il braccio appoggiato su un sacco di farina per dare stabilità al polso impegnato in un gesto che non ammette errori.

Il nonno Felice aveva acquistato il mulino negli anni cinquanta, spinto dalla necessità di un’attività che garantisse cibo. Scoprì invece un lavoro artigianale con il sapore dell’industria e l’aroma della terra.
Bisogna vederla girare, la macina del mulino, quando il motore muove la pietra e genera attriti che sprigionano profumi di pane e dolci. Tutt’intorno la campagna. Uno spettacolo.

Arrivo al mulino all’ora di pranzo. Il nonno Felice siede a capotavola, com’è giusto che sia. È ancora lui il tronco dell’albero. Ai lati, i rami della sua numerosa famiglia: Flavio, Ferdinando, Fulvio, Fausto, Federico… Tutti mugnai, con i nomi che iniziano per “effe”, come farina.

Davide siede tra loro, in cerca di riposo. Oggi non sta bene, ha la febbre e l’influenza. La voce roca, il fiato corto che brucia in gola.
Gli leggo il testo e gli suggerisco di recitare lentamente, senza affanni, mentre gli offro una caramella svizzera. Lui è stanco ma tiene duro. Mi stupisco ogni volta della sua tenacia, della sua resistenza mentale che diventa fisica.
Il corpo fa ciò che la mente comanda.

Si alza, imbraccia la sedia e raggiunge il grande albero cresciuto di fronte al mulino. Lo sfondo è un muro di pietra. Lui è un puntino elegante alla base dell’inquadratura. Con un sospiro dice: «Ecco, qui mio sento come a casa…».

Poi legge il testo, con la voce di cui oggi dispone. È paziente e disciplinato, se sbaglia ripete, senza scuse. Davide possiede una cultura del lavoro contadina, misto di tenacia, volontà d’azione e capacità d’attesa.

Dopo aver descritto il territorio e le sue curve, ci trasferiamo nel mulino. A motore spento, assomiglia a una cantina o a un’antica stazione ferroviaria. La struttura è in legno, come una grande botte posta su un piano rialzato davanti ai binari. C’è anche una campanella di ottone che ricorda i tempi degli arrivi e delle partenze.
Flavio accende il motore mentre Fulvio, Fausto e Federico lavorano sulla macina. Sbuffi di polvere biancastra spazzano l’oblò e diventano farina che scivola sulla piastra di metallo e si deposita nel sacco.

Davide osserva le fasi di questa lavorazione artigianale, quasi a freddo, che permette di ottenere una farina viva, con tutte le fibre del chicco: crusca, cruschello, germe, e poi vitamine, oligoelementi e sali minerali.

Infine guarda nella telecamera e spiega che «Fulvio e la sua famiglia lavorano cereali a chilometro ‘doppio zero’: segale, farro, meliga e grano saraceno che vengono dall’Alta Langa, a un passo da Cossano Belbo, coltivati nei terreni in quota dove l’uva e la nocciola non maturano».

Fulvio mi presenta le farine del mulino come fossero altri membri della famiglia. Ci accomuna la passione per il pane e la pasta madre; parliamo di lievitazioni, impasti e cotture. La sua però non è solo passione, ma professione. Scopro infatti che un buon mugnaio deve essere anche fornaio, per conoscere le sue farine e sapere come diventano cibo.

Davide ascolta le nostre discussioni. Annuisce e insegue con lo sguardo Massimo che gli gira intorno, uno stacco dopo l’altro. Pronuncia brandelli di frasi che una volta montati diranno al pubblico: «Le farine sono ingredienti primari di tanti cibi, come i colori di un quadro…».

Poi la macchina da presa si ferma e lui, tutto d’un fiato, aggiunge: «Mi chiedo cosa aspettino i nostri artisti chef e pasticceri a usare solo farine biologiche, integrali e naturali, come queste!»

Al termine della giornata, mi trattengo ancora un po’ a chiacchierare con Fulvio. Lo scrittore e il mugnaio: echi di fiabe nordiche e pagine di Pavese e Fenoglio, amico di gioventù del nonno Felice.

Quando risalgo in macchina non è per tornare a casa. Voglio prima salire alla Madonna della Rovere.
La gola è selvaggia ma docile al tempo stesso. I vigneti si distendono lungo le curve di livello, interrompendosi quando incontrano rocce, anfratti, oppure cascinali in pietra abbandonati.

Il partigiano Johnny è ancora qui, da qualche parte. Forse in compagnia di un gatto con gli stivali, lasciato in eredità dal vecchio mugnaio.
La vista dal Santuario è davvero notevole. Calata la sera, il tramonto s’accende a ponente mentre la luna gli sorride di fronte.
È un attimo che si prolunga senza fretta.

Leggo Pavese, il libro illuminato da questa luce di taglio. Il racconto Storia segreta parla anche del Santuario della Madonna della Rovere e della sua collina.

Una siepe di prugnole chiude l’orizzonte, e l’orizzonte sono nuvole, cose lontane, strade, che basta sapere che esistono…

Dentro, la luce è colorata, il cielo tace…

Se una vetrata della volta è schiusa, si sente un soffio di cielo più caldo, qualcosa di vivo, che sono le piante, i sapori, le nuvole…

Bene, adesso è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Mi dirigo verso l’autostrada ma la Valle del Belbo mi cattura. Così mi ritrovo al buio, sulla statale per Ovada, con il finestrino mezzo abbassato e la musica in sottofondo. Ascolto Verdi; Macbeth e le voci delle streghe che danzano tra i filari. Il paesaggio comincia a popolarsi di ombre. Ancora una volta mi pare di scorgere un gatto che attraversa la strada…

Venite nella Valle del Belbo, terra di letteratura e grano macinati a pietra naturale; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Il gianduiotto ai funghi.

Oggi siamo in Piemonte; il paese è Giaveno, il paesaggio quello della Val Sangone.
Arriviamo bagnati fradici. Le stagioni sanno essere perfide con la gente di mare che si avventura ai piedi delle montagne senza guardare le previsioni del tempo.

L’appuntamento è in piazza, tra i torrioni che cingono il villaggio e la sua trama di vie che si allontanano dal centro per tornare sempre al punto di partenza.
Impossibile capire dove andare; impossibile perdersi. Adoro vagare nei luoghi che non conosco, vedere le cose senza osservarle. Fiori sui balconi, facce inumidite di persone, vetrine di negozi appena aperti e ancora senza clienti, qualche portone, dettagli del selciato di pietra.
Cose da niente, l’inizio di nuovi pensieri…

Quando le vie di Giaveno ci riportano in piazza – sopra il mosaico della rosa dei venti – Davide è già sotto il campanile. I passanti lo guardano incuriositi e chiedono di lui a Guido, il protagonista della puntata. Facciamo già audience, prima ancora di andare in onda.

La sceneggiatura prevede che Davide salga fino in cima, ma non può farlo perché soffre di vertigini. Anche Massimo non se la sente e allora monta l’operatore da solo, con la macchina da presa in spalla.
Farà una soggettiva di Davide che dirà fuori campo: «Giaveno è un paese composto da cento antiche borgate, difese da torri medievali e protette da un alto campanile. Anche voi, appena potete, guardate le cose dall’alto. Allargare lo sguardo apre la mente…».

Da lassù, la telecamera inquadra una valle che nasce appena fuori Torino e lentamente sale verso le montagne olimpiche. Fin dall’antichità, questa non è mai stata una via di transito, ma una terra abitata da popolazioni che qui hanno trovato riparo, lavoro e funghi!
Proprio così, la Val Sangone è la terra dei funghi, oltre che del cioccolato.

Il protagonista della nostra puntata è infatti Guido, un artista del cioccolato. Il nome esatto per definirlo è cacaotier. Un artigiano che non rielabora preparati di pasticceria, ma segue tutta la filiera dalle fave di cacao fino alle tavolette di cioccolato.
La ricetta è l’ultima cosa. Non la meno importante, ma quella che viene alla fine di tutto.

Andremo nel suo laboratorio nel pomeriggio. Adesso giriamo gli esterni e le sequenze di Davide che attraversa Giaveno con la sedia in spalla e l’incedere sicuro. È un viaggiatore lento ma inesorabile.
Un passo dopo l’altro; piccoli spostamenti del corpo verso mete provvisorie e mutevoli. Indefinite come la vita.

All’improvviso ricomincia a piovere. All’inizio piano, poi sempre più forte. Massimo indossa eleganti mocassini che cerca di proteggere camminando raso i muri della chiesa dei Batù, i Flagellanti che si punivano per pentirsi.
L’edificio risale alla metà del Cinquecento e mescola tratti classici a decori barocchi. All’interno conserva gli arredi originali e un organo settecentesco di grande pregio.
La pioggia battente ci percuote le schiene ingobbite. Sembriamo moderni Batù, mentre fuggiamo nel vicolo e corriamo verso il parcheggio.

Ci ripariamo nel laboratorio di Guido. Le scarpe di Massimo, per il momento, sono salve.
Siamo entrati in una vera “fabbrica del cioccolato”, ma in miniatura; uno spazio intriso di profumi, dove ogni centimetro quadrato è progettato perché vi accada qualcosa. Le macchine sono poche e sembrano semplici estensioni delle mani dell’uomo, come in ogni bottega artigiana.

I gesti di Guido sono esatti, come quelli dei suoi collaboratori. Si sfiorano senza urtarsi, si vedono senza guardarsi e si parlano senza dirsi niente. Affascinante vederli vivere come l’equipaggio di un sommergibile.
Fuori continua a diluviare. Davvero siamo all’interno di un sommergibile.

Davide dice che «in ottobre, Guido sceglie le fave di cacao in Equador, in Messico, in Venezuela, nell’isola di Madagascar o nelle Filippine; poi le porta a Giaveno e le seleziona a una a una, sterilizza le bucce, asciuga le fave e caramella gli zuccheri…».

Poi spiega che la concatura dura due giorni e che il temperaggio è un processo delicato che serve ad armonizzare gli acidi grassi del cacao.
Vedere Guido che spatola la massa di cioccolato sul piano di metallo è uno spettacolo. I suoi movimenti sono ipnotici, come quelli di una bacchetta che danza nell’aria e produce musica.

Davide fissa la macchina da presa ed esclama: «Tanto per capirci, da quando le fave di cacao entrano nel laboratorio di Guido a quando escono sotto forma di creme spalmabili, tavolette e cioccolatini, è passato un anno intero!»
Un tempo lunghissimo, se confrontato con le logiche dell’industria.

Mentre osservo Guido lavorare, vedo l’artigiano confondersi nell’artista. Non c’è niente da dire; solo osservare e, se possibile, imparare.

Nel pomeriggio smette di piovere e il sole diventa rabbioso. Lasciamo la piccola fabbrica del cioccolato e raggiungiamo il grande prato del Santuario della Beata Vergine del Bussone. Chissà quante coppie hanno amoreggiato da queste parti.

Questo luogo racchiude bene lo spirito della Val Sangone; abbastanza alto da anticipare la montagna e abbastanza piatto da ricordare la pianura. Davide posa la sedia sotto il portico seicentesco della chiesa in ristrutturazione. Dietro di lui, un telo di plastica da cantiere cade come il sipario di un teatro dismesso. Poco distante c’è una ragazza, immersa nella tuta da lavoro; carteggia il muro per ridare la tinta.

Cerchiamo di fare il nostro mestiere senza intralciare il suo, ma la ragazza è attratta dalla televisione. Teme e al tempo stesso desidera essere filmata.
Davide la incoraggia a farsi avanti ma lei arretra.
Per esigenze di scena, il nostro inviato assaggia un cioccolatino. Però sbaglia la battuta e ne mangia un altro. Poi un altro ancora perché l’audio è disturbato e uno perché l’inquadratura viene meglio di lato; alla fine, Davide ha divorato una scatola di gianduiotti dicendo: «Migliori le materie prime, più semplici le ricette. Pensate che questo cioccolatino è fatto solo con nocciole delle Langhe, zucchero di canna e il pregiato cacao Chuao del Venezuela. Ed è il gianduiotto migliore d’Italia!»

La ragazza accetta l’ultimo cioccolatino e sorride alla machina da presa. Non sa che Massimo l’ha già spenta.
Mentre smontiamo le nostre attrezzature, Guido mi ricorda che in epoca napoleonica il gianduia era stato il primo surrogato del cioccolato. Veniva tagliato con la nocciola per ottenere un prodotto più economico. Poi è diventato il simbolo di un territorio.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Quando venite in Val Sangone – oltre a gustare le specialità di Guido – ricordatevi di visitare la Sacra di San Michele, l’antica abbazia costruita dagli angeli e proprio per questo chiamata “sacra”.
Sorge sulla cresta del monte Porchiriano, una guglia rocciosa che sembra spuntare dal niente al confine tra la Val Sangone e la Valle di Susa. Il nome del monte è forse una derivazione di “Porcarianus”, monte dei Porci. Qui vicino c’è anche il Capraio, monte delle Capre, e il Musinè, monte degli Asini.
Tutti animali dei Celti, che un tempo abitavano la valle.

Allora, come dice Davide: «Venite a Giaveno, in Val Sangone, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Questa è anche casa vostra!»

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Note di birra.

Oggi siamo in Emilia-Romagna. Il paese è Roncole di Busseto, il paesaggio quella della Bassa Padana.
Sono qui con Davide, in piedi, immobile nel piazzale di fronte alla casa di Giuseppe Verdi. In fondo alla strada vediamo l’auto di Massimo che procede verso di noi. Un sorriso, un cenno della mano, poi lui accelera e sterza bruscamente.

Il botto è inatteso. Un tonfo sordo di ferro e gomma e aria compressa che si avventano sul rilievo del marciapiede…
Molti anni fa, durante un colloquio di lavoro, un celebre direttore creativo mi disse una cosa che non ho mai dimenticato: «Gli oggetti vedono e sentono tutto, non dimenticano niente e parlano a chi li sa ascoltare. Quando fai un colloquio di lavoro, per capire se quel posto va bene per te, non ascoltare le persone ma i muri!»

Aveva ragione; gli oggetti assistono alle vicende umane e registrano anche i segnali più deboli. Nulla sfugge alla memoria delle cose.
Da oggi in poi, gli alberi che guardano la casa di Giuseppe Verdi e i muri del bar di Giovannino Guareschi non ricorderanno solo le arie del maestro e le frasi dello scrittore, ma anche il dolore della ruota di Massimo, le sue imprecazioni, le telefonate alla ricerca di un gommista il sabato mattina nel cuore nebbioso della Bassa Padana.

Manuel e Giovanni ci vengono incontro. Il padre di Manuel individua anche un meccanico disposto a «dare un’occhiata» alla macchina del nostro regista. Le cose si mettono bene e dalla campagna giunge l’eco della forza del destino. Poche note appena abbozzate che ci suggeriscono d’iniziare a lavorare.

Decidiamo che l’anima di questo territorio sarà un luogo sulle rive del Po. Il fiume è la chiave di questa zona, capace di regalare emozioni che emergono da una coltre di apparente anonimato.
Davide – che ama la Bassa Padana – sceglie con cura un’ansa del fiume con gli arbusti di spalle e l’acqua sempre presente. Acqua corrente, sonora come un basso continuo; un moto perpetuo di ricordi e pensieri che scivolano da monte a valle. Li registriamo tutti, mentre Davide dice: «Ecco, qui mi sento come a casa! Siamo sulle rive del Po. Per secoli, questa è stata una terra d’acqua: distese d’acquitrini strappati al grande fiume. Una terra fertile, calda e umida; spesso nebbiosa e misteriosa…».

Non oggi, però! La foschia del primo mattino si è dissolta e la luce del sole è abbagliante. Nella macchina da presa tutto si deposita nitido e brillante, come fossimo su un ghiacciaio alpino. I monti di Bergamo e Brescia sono proprio lì, di fronte a noi, e sembrano vicinissimi.

Giovanni è il protagonista della puntata insieme a Manuel. Sono due amici che nel 2006 hanno deciso di trasformare la loro passione in un’impresa. Manuel si occupava di logistica nel settore alimentare mentre Giovanni era un aspirante birraio con una naturale inclinazione per le questioni umanistiche.

Gli studi di agraria lo avevano reso un tecnico di cibi e bevande anche quando era un dilettante. Poi l’amore per i luppoli e i lieviti è diventato un mestiere. Così, la professionalità si è messa al servizio della passione, la ragione al fianco del cuore.

Troviamo continuamente punti di contatto. Giovanni è stato allevato dal padre alla scuola del cinema. Anche per lui, all’origine di tutto c’è la parola. La narrazione è una grande rete di sostegno delle cose del mondo.

«Fare birra è un atto creativo, come dipingere o suonare,» mi dice mostrandomi alcune delle sue creazioni. «La birra la fanno i lieviti,» continua Giovanni, «ma è la creatività del birraio che li guida e li ispira».

Le sue birre sono le più premiate al mondo e ognuna ha una storia da raccontare. Nascono da emozioni racchiuse nello spazio di un boccale.
La sua idea di riferimento è l’equilibrio. Un concetto sfumato, di cui tanti parlano ma che pochi realizzano.

Molti cercano di fare una birra sensazionale, che stupisca al primo sorso. Le birre di Giovanni devono invece piacere fin dal primo sorso, e poi continuare ad appagare il naturale bisogno di equilibrio degli esseri umani.
«Come la musica immortale di Verdi,» aggiungo io.
«Come la musica immortale di Mozart,» precisa lui.

Davide ci ascolta e sorride. Poi guarda nella macchina da presa ed esclama: «Le birre di Giovanni sono diverse da tutte ma godibili da tutti; puro piacere dal primo all’ultimo sorso!»
Le bevono anche i contadini tedeschi che da generazioni coltivano il luppolo. Le espongono con orgoglio sui davanzali delle finestre e affermano che siano le uniche dove ritrovano i profumi e i sapori della loro materia prima.

«Che senso ha coltivare il luppolo dietro casa», mi domanda Giovanni, «se poi devo ammazzarlo di chimica per tenerlo in vita?»
Giusto. Meglio abbandonare il concetto di filiera corta se diventa un mito da inseguire a tutti i costi. Meglio cercare altre forme di dialogo con la terra e i suoi frutti.

Nel birrificio di Giovanni e Manuel, ad esempio, c’è una cantina dove alcune birre invecchiano in botti di rovere che erano state usate per affinare grandi vini, whisky o liquori. Una di queste birre speciali matura addirittura trenta mesi in botti di Amarone. Ha una vita di cinquant’anni e andrebbe stappata un mese prima di berla!
Chissà quante storie e quali emozioni hanno da scambiarsi la giovane birra e l’anziano legno…

Bene, abbiamo appena terminato le riprese ed è già tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Salgo in macchina e guido verso Parma pensando alle birre del Maestro e alle loro storie. A poco a poco i pensieri prendono forma, accompagnati dal piano di Brad Mehldau che suona My favorite thing. Li appunto nella mente, poi in albergo li scrivo di getto.

Ecco, sembrano un racconto. Dedicato a Giovanni, a Manuel e alle loro birre.

La stagione della pesca stava per cominciare e la locanda era piena di fumo e di marinai. Il ragazzo raggiunse il tavolo dell’armatore; davanti a lui, una ciotola di zuppa.
«So che cercate uno strumentista di bordo», disse.

L’armatore alzò gli occhi sul giovane. Poi li riabbassò e iniziò a mangiare.
«Tu non sei uno strumentista».

«Di preciso no», ammise il ragazzo. «Non suono alcuno strumento, se è questo che intendete. Però canto, e molto bene anche. Con la voce, posso fare qualsiasi strumento».

L’armatore sorrise. A lui serviva gente esperta, capace di leggere sul quadrante dello scandaglio i movimenti segreti del pesce. E tuttavia quel ragazzo gli era simpatico.

Si guardò intorno alla ricerca di un’idea, e quando vide l’oste che versava della birra spillandola da una botticella metallica sospesa sopra il bancone disse: «Cantami la birra».

Il ragazzo prese tempo e seguì il movimento del liquido che scorreva lungo il vetro inclinato del boccale. S’infilò in quella materia fluida, orlata di schiuma e pervasa di bollicine. S’immaginò la vita prima dell’inizio, quando la birra riposa al buio e i colori ancora non esistono.

Iniziò con una nota lunga, bassa e sofferta. Affiorava dal suo corpo e una volta nell’aria vibrava aggrappandosi alle pareti della locanda.
L’armatore appoggiò il cucchiaio sul bordo del piatto.

Il ragazzo socchiuse gli occhi e inclinò la testa. Dalle sue labbra usciva sempre la stessa nota, ma di una tonalità leggermente più alta. Una nota sola, niente di più, ma era già il primo movimento di una sinfonia.
Un rapido fraseggio s’appoggiò a quella base e salutò la gioia della nascita. La birra usciva dalla botte e incontrava la luce, i colori, si tingeva di giallo e se ne meravigliava producendo una cascata di note cristalline che si ammassavano le une accanto alle altre.

Non era un virtuosismo fine a se stesso. Il ragazzo non cantava più per essere assunto, non cercava di stupire nessuno. Ancora una volta era diventato musica. Non la suonava, ma la portava dentro di sé.

Poi vide la mano dell’oste che reggeva il boccale e lo offriva a un marinaio. Era giunto il momento dell’ordine, la maturità delle cose. Le note divennero più severe, il ritmo cadenzato. Con un angolo del corpo, il ragazzo produsse una coppia di archi e picchiando con forza le mani contro il petto anche dei timpani.

Lunghe sorsate. Il marinaio si asciugò con cura le labbra con il bavero della giacca.

Alla fine, sulla parete verticale del boccale rimanevano solo tracce di schiuma che scivolavano sul fondo. Il ragazzo si avviò a concludere con un’altra nota lunga. Con la coda dell’occhio si accorse però che intorno a lui altra birra veniva versata.

Allora ebbe un sussulto e da qualche parte, tra il palato e la lingua, scovò un flauto. Vi soffiò delicatamente e chiuse con un ricciolo di speranza. Una delicata linea di note che saliva verso l’alto e spariva alla vista e all’udito, lasciando di sé un piacevole ricordo, un’emozione lieve.

L’armatore si asciugò le labbra. Non aveva bevuto, eppure qualcosa gli era scivolato fino in fondo al corpo, pizzicandogli le corde dell’anima.

«La paga non è alta e la vita a bordo è dura», disse infine, «ma se ancora lo vuoi, quel posto di strumentista è tuo».

Bene, adesso è proprio tempo di andare. Venite a Roncole di Busseto e lasciatevi pizzicare le corde dell’anima dalle birre di Giovanni e Manuel; ma non venite come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Il richiamo del vitello.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Rignano, il paesaggio quello del Gargano.
Abbiamo appena trascorso una notte quieta a San Giovanni Rotondo, sotto lo sguardo benevolo di Padre Pio. Saliamo in macchina e percorriamo la strada in discesa verso Rignano parlando del santo e dell’industria diffusa che si è sviluppata nel suo nome.

Naturalmente sbagliamo strada e scendiamo sul Tavoliere. Poi svoltiamo e chiediamo indicazioni a un gruppo di contadini rumeni; infine proseguiamo sulla linea di confine tra la pianura e la montagna.

La nostra auto è un puntino rosso che scorre sul quadrante del navigatore e disegna una traiettoria che sembra immaginaria. Non capita spesso d’incontrare una montagna appoggiata direttamente sulla pianura. Il Gargano è così: un grande masso precipitato dal cielo su una piana infinita.

Dovremmo cominciare a salire per raggiungere Giuseppe, il protagonista della puntata, ma non troviamo il punto esatto. Allora andiamo avanti e indietro lungo la provinciale, con la parete di roccia verticale da un lato e l’orizzonte dei campi dall’altro. Ci sarebbe da perdere la pazienza, ma noi restiamo calmi, tenacemente concentrati nella ricerca del tabaccaio.

«Andate avanti ancora un po’» ci aveva detto al telefono Giuseppe. «A un certo punto incontrerete un gruppo di case; vedrete il Consorzio Agrario e un tabaccaio. Allora girate a sinistra e cominciate a salire. A metà di uno dei tornanti vedrete un tratturo che porta alla masseria».
Massimo accelera. Forse il richiamo del tabaccaio.

Quando finalmente mettiamo la freccia e cominciamo a salire realizziamo che si è fatto tardi. Le capre devono uscire per andare al pascolo e il casaro deve lavorare il formaggio.

Massimo accelera ancora, mentre entriamo in un altro mondo, insospettabile dal basso: il regno di Giuseppe, delle sue vacche podoliche, delle sue capre garganiche e dei suoi ulivi. Tra le rocce aspre si apre una distesa lieve punteggiata di ulivi. I tronchi, grossi e nodosi, sono tutti marchiati. Sono ulivi secolari, registrati come opere d’arte firmate dalla natura. Da proteggere e tutelare. Saranno centinaia…

«Quasi cinquecento», mi confessa con orgoglio Giuseppe, mentre ci stringiamo la mano davanti alla sua masseria. L’edificio risale alla fine del Settecento ed è un modello perfettamente conservato di cultura contadina, con gli spazi di vita e di lavoro ben organizzati attorno a una grande corte centrale. Sulla facciata noto una strana torre a tronco di piramide che sovrasta un’ampia stanza.

«Cos’è?» domando incuriosito.
«Si chiama ‘papaglione’. È la volta della stanza dove la famiglia si riuniva la sera e dove si svolgevano molte delle attività di casa; al centro si accendeva il fuoco e il papaglione faceva da canna fumaria».

Tra poco Davide camminerà tra questi ulivi e metterà la sua sedia al centro del pascolo. Troverà un luogo di convergenze energetiche, dove i raggi del sole incroceranno i rami degli alberi e le corna degli animali.

Dirà che «questo è un territorio montuoso di origine carsica, coperto di ulivi secolari e prati dove pascolano mandrie di vacche podoliche e capre garganiche…».
Uno spettacolo da non perdere. L’idea stessa di armonia; una visione di bellezza quasi selvaggia dove ogni cosa assume una forma ideale e occupa un posto preciso.

Ma non c’è tempo da perdere. Al pascolo andremo dopo, adesso ci aspetta il casaro. Il latte è stato munto all’alba e deve essere lavorato prima che sia troppo tardi. Il caciocavallo è un formaggio a pasta filata che si maneggia come la creta e non deve essere né troppo molle né troppo duro. Il fuoco di legna arde nel camino dove un paiolo di rame resta sospeso sulla fiamma grazie a un antico sostegno in ferro battuto. Il casaro modella la forma con gesti lenti e misurati. È padrone del suo tempo.

Davide guarda il lavoro dell’uomo, un po’ artigiano e un po’ artista. Infine esclama: «Il caciocavallo di Giuseppe è prodotto in maniera rigorosamente tradizionale, con il latte scaldato al fuoco di legna d’ulivo e lavorato con strumenti artigianali. Ogni forma è un’opera d’arte, modellata dalla mano del casaro. Basta guardarla per sapere chi l’ha creata!»

Giuseppe non è nato contadino e ha studiato all’università. Pensava di dedicarsi alla ricerca e all’insegnamento; invece è tornato alla masseria di famiglia per allevare le razze tipiche della sua terra.
Nel corso degli anni, la vacca podolica e la capra garganica si erano quasi estinte, uccise dalla casualità degli incroci o dal miraggio del guadagno.
La vacca podolica è infatti una razza molto rustica e di grande qualità, ma poco redditizia.

Delle due mungiture quotidiane, una è riservata al vitello mentre l’altra avviene solo in sua presenza.
Proprio così: niente cucciolo, niente latte! E allora, ogni giorno, è tutto un concerto di affettuosi richiami all’interno della mandria, con i vitellini che corrono in cerca della propria madre. Mi racconta Giuseppe che solo il casaro può mungere le mucche, e quando per disgrazia uno dei piccoli muore oppure è malato, è sempre lui che si avvicina alla madre simulando i versi del figlio, magari indossando una pelle di vitello per recitare meglio la parte.

Difficile pensare ad una produzione intensiva in queste condizioni. Il rispetto della natura, dei suoi tempi e delle sue regole sembra spesso una scelta anacronistica, e invece è l’unica che dovrebbe essere considerata possibile.
Giuseppe lo insegna. In questo, è diventato un bravo docente.

Nella sala da pranzo della masseria, ricavata nei locali dell’antico frantoio, abbiamo allestito un tavolo con una selezione di formaggi. Lo portiamo nella corte, dove la luce del tramonto è in magico equilibrio tra il giorno e la notte.

Davide assaggia il cacioricotta, un’altra delizia di questa terra che si produce con il latte di capra garganica. Formaggio e ricotta insieme, da gustare fresco oppure stagionato. Davide si tuffa nel vortice dei sapori, un esercizio fisico e mentale che gli riesce benissimo. Quando riemerge esclama: «Piccole forme che sembrano sculture di neve…».

Allora, quando venite nel Gargano ricordatevi di abbracciare i tronchi di questi ulivi; hanno secoli di storie da raccontare a chiunque abbia tempo e voglia di ascoltare. Ricordatevi anche di accarezzare le corna delle vacche podoliche e delle capre garganiche; sono le regine di questi pascoli, sospesi su grotte preistoriche e sentieri nascosti che vi porteranno vicino al centro della terra, per poi condurvi a riveder le stelle.

Nel pomeriggio, guidato dagli amici del gruppo speleologico, mi sono avventurato in una di queste cavità. Giù in fondo, tra colate di stalattiti ed erezioni di stalagmiti, c’erano anche i pipistrelli. Erano puntini neri appesi al soffitto.
«Non facciamo troppa luce», aveva detto una delle guide. «E parliamo piano; se li svegliamo muoiono…».

Bene, adesso è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite anche voi nel Gargano, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Pane quotidiano.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Orsara, il paesaggio quello della Daunia.
Arriviamo tardi, quando il sole è già tramontato. Angelo, il protagonista della puntata, mi dice al telefono di lasciare la macchina in piazza e di raggiungerlo a piedi, tanto Orsara è piccola e tutto è vicino al suo forno.

Entriamo nel borgo e imbocchiamo una ripida strada lastricata in discesa. Naturalmente non troviamo la piazza e continuiamo a scendere finché usciamo dal centro abitato e ci ritroviamo in aperta campagna, persi nella notte.
Massimo ha un guizzo d’ingegno e imbocca una strada in salita. Procede d’istinto. Continua ad avanzare seguendo il fiuto del viaggiatore. Attraversa un bosco e riemerge in cima alla collina, all’inizio del paese.

Partiamo così per un secondo giro, ripercorrendo la strada in discesa alla ricerca della piazza e del forno di Angelo. Questa volta procediamo con cautela e parcheggiamo davanti ai gradini di una chiesa. Non è la piazza, ma va bene lo stesso. Tanto Orsara è piccola e tutto è vicino al forno di Angelo…

Lui ci viene incontro. Ci abbracciamo. È la prima volta che ci vediamo di persona, ma è come se ci conoscessimo da sempre. Gli dico che dobbiamo andare subito a prendere le chiavi della stanza che ho prenotato. Gli mostro l’indirizzo. Pensavo che fosse in un quartiere di Orsara e invece scopro che è a Bovino, uno dei borghi più antichi e belli d’Italia, a circa mezz’ora di strada!
Non trovo le parole per dirlo a Massimo, che ha già guidato per più di mille chilometri nelle ultime ventiquattr’ore.
«Se vuoi, guido io…», dico a mezza voce. Massimo tace.

Promettiamo ad Angelo che saremo di ritorno a Orsara per l’ora di cena.
Il nostro regista continua a tacere paziente. Io dico: «Vedrai, domani faremo delle ottime riprese a Bovino. Sai, è uno dei borghi più antichi e belli d’Italia…».

Attraversiamo un altro bosco, saliamo e scendiamo due colli, superiamo un fiume. Infine arriviamo a Bovino, prendiamo le chiavi e torniamo a Orsara senza aver capito se sia davvero uno dei borghi più antichi e belli d’Italia.

Angelo ci aspetta con Davide e Peppe, l’amico chef che cucina con i fiori dell’orto e ripropone con estrema sensibilità le ricette della tradizione pugliese. Un uomo intelligente, pieno di energie. Spesso va in televisione. Un vero master chef

A tavola, Peppe mi tiene una piccola lezione sul grano arso, che in questi tempi di crisi mista a benessere sta diventando una forma d’espressione dell’alta cucina, ma che fino a pochi anni fa era il piatto di quei poveri talmente poveri da non riuscire nemmeno a mendicare.
Torna alla mente il Libro di Rut, dove si narra della giovane moabita che si procurava da mangiare spigolando nel campo d’orzo durante la mietitura.

Ecco, i poveri che in Puglia mangiavano la pasta di grano arso, non facevano nemmeno questo; aspettavano che le stoppie venissero bruciate prima della nuova semina. E nella cenere, trovavano il loro cibo.
Una lezione di vita, oltre che di cucina e di cultura materiale.

Angelo ascolta. Conosce bene il grano arso e i poteri del fuoco. Lui è il fornaio di Orsara; non un panettiere, attenzione, il fornaio!
Un tempo era il fornaio che all’alba andava di casa in casa, svegliava le donne e diceva di cominciare a impastare.

Poi accendeva il fuoco, e quando il forno era caldo, le mogli e le madri del paese si presentavano con le loro pagnotte da due, tre, anche cinque chili. Ognuna aveva una forma caratteristica; il fornaio le cuoceva e nell’attesa la sua bottega diventava un luogo di ritrovo, uno spazio vivo dove tutti avevano piacere di stare, soprattutto in inverno, quando fuori c’erano freddo e neve.
Tutto questo rivive ancora oggi a Orsara di Puglia grazie ad Angelo e al suo meraviglioso forno a paglia del 1526.

Durante la cena pianifichiamo le riprese dell’indomani. Angelo ha già pensato a tutto. Faremo anche noi il pane, ma al contrario, partendo da una pagnotta appena sfornata e concludendo con l’accensione del fuoco.
Una finzione scenica, ma anche una scelta obbligata: maneggiare un forno come quello di Angelo, capace di cuocere oltre un quintale di pane alla volta, non è una cosa semplice.

Il forno è diviso su due livelli: quello superiore è riservato al pane, quello inferiore al fuoco. Fuoco di paglia, naturalmente; per motivi economici, ma anche per esigenze di cottura.
Angelo mi spiega che nella Daunia – una specie di giardino montuoso dove è tornato a vivere il lupo e gli animali pascolano liberi – di paglia ce n’è sempre stata in abbondanza. Il fornaio usa solo quella di seconda scelta, perché la migliore è riservata al bestiame.
Anche questa è una lezione di vita e di cultura materiale da tenere a mente.

La fiamma della paglia è violenta e caldissima. Sale nel forno attraverso una bocca che si chiama Inferno. Dura poco e bisogna alimentarla continuamente con altra paglia, finché il forno raggiunge la temperatura desiderata. La stanza si riempie di fumo. Ecco perché un fornaio come Angelo non è bianco di farina, ma nero di fuliggine…
Poi la fiamma si consuma, poco prima di infornare. Così il pane cuoce a lungo e lentamente, quasi a vapore.

«Ma prima di infornare, bisogna impastare!» dirà domani Davide alla macchina da presa. Massimo userà la telecamera a mano, pronto a cogliere quegli attimi fuggenti che in televisione non si vedono quasi più.

Angelo usa un lievito madre che ha quasi un secolo di vita. Anche l’impasto è vivo, diverso ogni giorno a seconda dell’umidità, della temperatura e dell’umore.
Il fornaio deve sapersi adattare, senza avere mai fretta.

«Pensate che Angelo impiega oltre dieci ore per fare il suo pane!» spiegherà infine Davide, prendendo dal ripiano di legno una grossa pagnotta bruna e tagliandola con il coltello alla maniera classica dei contadini, con la mezza forma sul petto e la lama che corre dal bordo verso il cuore.

«Guardate che meraviglia!» dirà. «All’esterno c’è una sottile crosta croccante; all’interno invece la mollica è soffice e rimane fragrante per settimane!»
Poi si toglierà gli occhiali, guarderà dritto nell’obbiettivo della telecamera e lascerà che le palpebre gli cadano ai lati degli occhi, come le pieghe di un sorriso. Quando fa così, significa che sta per dire qualcosa d’importante, in cui crede veramente: «Questo pane è un alimento sacro: ricco di proteine oltre che di carboidrati. Ha tenuto in vita intere generazioni, anche quando sulla tavola non c’era altro da mangiare…».

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Quando venite a Orsara di Puglia e vi perdete nel bosco in una notte di luna piena, fermate la macchina e ascoltate il silenzio; potreste sentire il richiamo del lupo.
Non dimenticate di visitare antichi centri come Troia e Lucera, oppure Bovino, uno dei borghi più antichi e belli d’Italia, dove secoli di storia sono rimasti intatti, freschi e fragranti come il pane di Angelo!
Venite in Puglia, sui monti della Daunia, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Di qua e di là del Tavoliere.

Un paio di settimane fa siamo andati in Puglia per girare due nuove puntate di “Paesi, paesaggi”.

La prima a Rignano Garganico, un balcone carsico affacciato sul Tavoliere.
Tra le rocce aspre, una distesa lieve di ulivi secolari. Poi la masseria di Giuseppe, con il papaglione che svetta come un campanile e tutt’intorno mandrie di vacche podoliche e capre garganiche.

Uno spettacolo da non perdere. Una visione di bellezza quasi selvaggia, dove ogni cosa assume una forma ideale e occupa un posto preciso.
E alla fine, forme di caciocavallo modellate dalla mano del casaro e cacioricotta come piccole sculture di neve.

Vacche podoliche e ulivi secolari.

Il Tavoliere visto dal Gargano.

Caciocavallo d’autore e cacioricotta come piccole sculture di neve.

 

Seconda puntata a Orsara di Puglia, nel forno a paglia di Angelo del 1526.
Paglia di seconda scelta, naturalmente, perché la migliore è riservata agli animali.

Un fuoco violento, che sale da una bocca che si chiama Inferno; poi una cottura lenta, a vapore, in una stanza piena di fumo.
Per questo un fornaio come Angelo non è bianco di farina ma nero di fuliggine!

L’impasto è vivo: solo farina, acqua e lievito madre di quasi cent’anni.
Un pane sacro, che ha tenuto in vita intere generazioni, anche quando sulla tavola non c’era altro da mangiare.

Angelo, Stefano e il forno a paglia.

L’Inferno.

Davide e i profumi del lievito madre.

Angelo al taglio: la mezza forma sul petto e la lama che corre dal bordo al cuore.

***

 

Il Nero di Parma.

Oggi siamo in Emilia Romagna. Il paese è Santa Lucia di Medesano, il paesaggio quello delle colline parmensi.
Questa mattina abbiamo lasciato presto la Bassa padana per salire quassù, a circa 400 metri sul livello del mare. Di solito, nella stagione fredda e umida, il letto del grande fiume è coperto da una pesante coltre di nebbia; come la coperta di un vecchio che abbia deciso di riposare per sempre.

Ho ancora sonno e non è facile guidare tra gli argini, seguire curve incerte, evitare le buche ed entrare nei paesi schivando le ombre.
Anche Davide è stanco, però mi tiene sveglio con i racconti di amici comuni. Storie di città, lontane dal “piccolo mondo” che stiamo attraversando.

Poi un rialzo lieve del terreno. Bastano pochi metri e la nebbia svanisce sotto le ruote; accelero, cambio marcia, mi cattura un entusiasmo infantile. È il fascino della meraviglia. Il bello di restare aggrappati alla vita come radici che stringono forte il terreno, anche quando è molle e zuppo d’acqua.

La collina sale dolcemente; ogni curva un po’ più su, verso un orizzonte largo attraversato da rapide nuvole bianche.
«In quota c’è vento,» mi dice Aldo, il protagonista della puntata. «Domani nevicherà…»

Davide prende la sua nuova sedia e sale sul crinale di una collina che domina ulivi secolari. Si siede, li osserva e dice convinto: «Qui mi sento come a casa».

Sotto di lui, ettari di prati resi brillanti dalla pioggia delle settimane passate. E su quell’erba pulita, illuminata bene dalla luce del giorno, un branco di suini Neri di Parma che Aldo e suo figlio Luca allevano con ostinata passione. Vivono liberi e si tengono alla larga dalla stalla.

«Il veterinario vorrebbe che li tenessimo sempre qui,» dice Aldo, «ma al chiuso si ammalano. Fuori, invece, non patiscono niente».
Nella sua fattoria, tutto è a misura di suino; tutto pensato per sua maestà il Nero di Parma. Ci sono ettari di cereali biologici che Aldo e Luca seminano, mietono e macinano nel mulino di casa per farne mangime.

Un gruppo di cuccioli grufola nel terreno della vigna. Li raggiungo cauto per non spaventarli, ma loro scappano.
Allora mi fermo e resto lì, tra i filari spogli d’uva. I maialini mi osservano e a poco a poco si avvicinano. Facciamo amicizia. Sono tutti attorno a me come bambini alle giostre.

«Fanno finta di essere timidi,» dice Luca con un sorriso. «Ma sono curiosi e non hanno paura di niente».
E cosa dovrebbero temere?

Resto stupito dalla brillantezza del loro mantello nero, che immaginavo sporco e opaco. Invece è lucido come fosse stato appena spazzolato.
«Sono animali puliti,» mi confida Aldo. «Anche al chiuso non sporcano mai dove si coricano».

Poi l’allevatore prende un sacco del suo prezioso mangime. Cammina nel fango verso il laghetto dove Massimo intende fare delle riprese. Gli animali lo seguono come fosse il pifferaio magico. Ma non è solo l’attrazione del cibo; è lui che li chiama, come fanno i pastori con le vacche. Massimo non ha gli stivali e affonda nel terreno bagnato, nelle pozze nascoste sotto l’erba del prato. Impreca, ma non demorde. Insegue Aldo e i suoi animali mentre Davide, fuori campo, dice che «solo dopo una ventina di mesi, quando i capi sono maturi, inizia la lavorazione delle carni».

Questa è la specialità di Aldo; la norcineria la sua arte. Aveva una macelleria a Fornovo, ma non trovava più capi allevati «come si deve» e così, nel 2002, ha deciso di diventare allevatore.
Adesso che dispone di capi genuini può esprimersi come sa, come un pittore che dipinge con i colori giusti.

La sua idea era quella di allevare il suino Nero di Parma, una razza tipica di queste colline fin dal Medioevo, che si stava ormai estinguendo. Ha iniziato con una trentina di capi e oggi ne ha quasi trecento. Mi spiega che la carne del Nero di Parma è delicatissima, morbida e profumata, però difficile da lavorare perché l’animale deve essere allevato con cura, in maniera del tutto naturale.

Come i grandi sovrani del passato, anche sua maestà il Nero di Parma tende a ingrassare. Per ottenere coppa, pancetta e spalla come quelle di Aldo, il lavoro inizia molto prima della macellazione. Penso alla lezione del vino, che si forma nel vigneto molto prima che in cantina.
L’agricoltura, se non si forzano le leggi della natura, è un mondo di vasi comunicanti con poche regole e tanti saperi.

Tutti i salumi di Aldo sono realizzati dalle sue mani. Una cosa rara. Dopo una prima asciugatura, vengono stagionati in cantina, senza forzare il processo di maturazione, lasciando che sia il tempo a modellare i sapori.
La chimica, padrona di molte aziende, qui non entra nemmeno. Aldo usa solo pepe in grani e sale grosso, cuoce a vapore e affumica a legna.

«Bisogna essere bravi,» dico io, «per fare salumi come questi».
«Bisogna che gli animali siano sani,» dice lui con un sorriso. E mi ricorda che uno dei motivi per cui ha iniziato a fare l’allevatore era il desiderio di lavorare carni della sua zona, come quando era ragazzo e imparava il mestiere al fianco del padre.

«Allora,» prosegue Aldo, «c’erano tanti animali che si allevavano tra le valli del Taro e del Ceno. Ma poi sono scomparsi; le fattorie di montagna sono sparite, le piccole stalle con tre o quattro capi sono morte con i loro proprietari, altre sono state riconvertite alla produzione del latte».
«Per fare i nostri salumi,» aggiunge con orgoglio il figlio Luca, «non usiamo nitrati e salnitri, ma questo si può fare solo se la carne è genuina».
Di nuovo la lezione del vino e la cultura del terroir: una questione di genuinità prima che di gusto.

Intanto Davide cambia posizione sulla sedia. Assaggia un’altra fetta di pancetta e ride felice… Poi diventa serio e guardando l’obiettivo della macchina da presa dice: «Come vedete, il termine biologico non è un concetto astratto, ma una scelta radicale di vita!»
Questa frase racchiude la filosofia di Aldo e della sua famiglia, ma non andrà mai in onda. Sarà tagliata in redazione dopo il montaggio. Peccato.

Allungo di nuovo lo sguardo sui maialini che scorrazzano tra i filari della vigna. «Fate anche del miele?» chiedo a Luca. «Ho visto le arnie lungo il sentiero…».
«Abbiamo le api,» risponde, «ma il nostro miele lo produce una signora speciale che abita laggiù in fondo. Una che parla alla natura…».
Cerco con lo sguardo la casa della signora del miele.
«Laggiù,» mi indica Luca. «Vedi l’ulivo sulla cresta della collina? Dopo il prato c’è il bosco, poi l’altra collina… Ecco, è quella casa bianca in fondo…».

Nel frattempo si è alzato il vento. Il sole tramonta alle nostre spalle. Mi perdo tra l’ulivo secolare, il prato, la collina, la casa bianca della signora del miele. Comincia a fare fresco.Alzo il bavero della giacca e resto in silenzio.
Luca mi lascia solo.
All’inizio della puntata, anche Davide si rialzava il bavero della giacca e diceva: «Qui l’aria è nitida e sembra più leggera. Questo è un luogo di pace; si sente il suono del silenzio…».
Un’altra frase tagliata che non andrà mai in onda. La scrivo adesso perché non vada persa. Dei testi non si butta via niente, come del maiale.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Guardo Davide che si alza con un movimento rapido, prende la sedia e si allontana lungo il crinale della collina, verso l’ulivo, il bosco, la casa bianca della signora del miele che parla alla natura.
La sua voce si perde nell’aria nitida e leggera; si mescola al suono del silenzio.
«Venite nelle colline parmensi,» dice, «ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!»

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Dalla Bassa padana alle colline parmensi.

Quando uno scrittore ha un’emozione, la scrive; un musicista la suona, un pittore la dipinge.
Giovanni, invece, ne fa una birra.

La birra la producono i lieviti, ma è la creatività del mastro birraio che li guida e li ispira. In Germania ci sono contadini che bevono le birre di Giovanni e affermano con orgoglio che siano le uniche dove ritrovano il gusto del loro luppolo.

Infatti, sono le più premiate al mondo!

Un’altra storia di “Paesi, paesaggi”. Girata a Roncole di Busseto, in quel piccolo mondo di fronte alla casa di Verdi e al bar Guareschi.

Davide in un prato della Bassa tra Roncole e Soragna

Sulle rive del Po 

Sua maestà, il luppolo!

Roncole, davanti alla casa del maestro.

 

Dalla Bassa padana siamo saliti sulle colline parmensi.

La nebbia umida del grande fiume, a poco a poco si è dissolta ed è apparsa una distesa di campi coltivati.

Morbide curve di terreno che s’inseguono senza raggiungersi mai. Un luogo di pace, dove è ancora forte il suono del silenzio.

Qui abbiamo incontrato Aldo e la sua famiglia.

Un’altra storia di “Paesi, paesaggi”, dedicata al suino nero di Parma.

Sulle colline di Medesano.

Davide e Gianluca (il nostro grande pittore).

Sua maestà, il suino nero di Parma!

***

 

Una bottiglia di Venezia Nativa

La sera dell’epifania, Davide ha imbracciato la sedia con le corna di renna e si è seduto tra Ezio e Michelle. Insieme a loro ha lanciato uno dei servizi più interessanti di tutta la stagione di “Paesi, paesaggi”, dedicato alla Venezia Nativa e al recupero della Dorona, il suo vitigno autoctono.

Davide sulla sedia con le corna di renna, tra Ezio e Michelle.

Il paese è in realtà un’isola; il paesaggio uno scenario storico e culturale prima che geografico. Inizia il racconto di un viaggio nel tempo, verso le isole della laguna di millecinquecento anni fa.

Dopo aver parcheggiato le macchine nell’imbarcadero di Cà Noghera, siamo saliti in barca. Quando abbiamo mollato gli ormeggi era già buio. Procedevamo lentamente, sfiorando i canneti che costeggiavano i canali. In alto, nel cielo, le stelle sembravano lanterne sospese che indicavano la via a chi sapeva leggere rotte nascoste.

Siamo arrivati a Mazzorbo, dove ci aspettava Gianluca, il viticoltore che ha scoperto la Dorona. Ci ha raccontato di Mazzorbo, Burano, Murano e Torcello; di antichi prati fioriti, ortaggi e alberi da frutta. Ci ha parlato delle popolazioni di Antino, in fuga dai barbari, che avevano lasciato tutto sulla terraferma e avevano trovato molto di più sulle isole: acque pescose e acini d’uva ambrati come gocce d’oro.
L’anima agricola di Venezia è nata molto prima di quella commerciale; i suoi campi prima dei monumenti!

Qualche anno fa, uscendo dalla basilica di Torcello, Gianluca aveva notato nel terreno di una sua conoscente un vitigno molto particolare, quasi sommerso da altre uve. Una pianta con una foglia diversa da tutte, con due ali arricciate e due incavi profondi come occhi. Sembrava una maschera.
“Questa è antica,” gli aveva confidato la signora. “È il vitigno autoctono di Venezia!”

Gianluca nel campo di Dorona.

Gianluca aveva cominciato allora a ricercare, sui libri e nei campi, scoprendo che quel vitigno si chiamava Dorona, che era stato coltivato fin dal primo Medioevo e che era poi diventato il vino dei dogi. Aveva intuito però che quel vitigno era conosciuto già dalla popolazione nativa, da quella comunità di agricoltori, artisti e artigiani che aveva abitato le isole di Venezia prima che Venezia nascesse.

Tracce di Dorona erano sparse nei terreni della laguna. Poche piante abbandonate allo scorrere del tempo, come tenute in vita dal caso. Gianluca cominciò a realizzare una serie di micro-vinificazioni e si rese conto delle straordinarie caratteristiche di un vino bianco che aveva la forza di un grande rosso. Corpo e carattere solidi, invecchiati dal tempo e maturati al sole dell’esperienza.

Notò però che la qualità del vino tendeva a peggiorare a mano a mano che ci si allontanava dalla terraferma. Il terreno della Venezia Nativa è infatti un equilibrio generoso – ma precario – di sabbia e fango. Basta poco perché il sogno svanisca.

Nell’isola di Mazzorbo, Gianluca coltiva la Dorona in un ettaro di terreno vocato, all’interno dell’orto murato di Santa Caterina. Solo trenta quintali d’uva all’anno, perché le caratteristiche uniche della pianta si concentrino in pochi acini. Poi lascia macerare il mosto sulle bucce per oltre un mese e lo affina in botti di rovere per almeno due anni.
Una bottiglia di Dorona può vivere anche trenta o quarant’anni!
Una bottiglia senza etichette, eppure inconfondibile, con una foglia d’oro zecchino battuto a mano e fuso nelle vetrerie di Murano.

Vino, oro e vetro: tutta Venezia racchiusa in una bottiglia!

Bottiglie di Dorona nell’orto murato di Santa Caterina.

***

L’oro rosso di Villalba.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Villalba, il paesaggio quello della Valle del Bilìci. La strada è scorrevole. Guido piano, tanto ho tempo. Conosco bene questo litorale che da Trapani porta a Palermo. Mi piace attraversare i vigneti dell’interno, seguire con lo sguardo la montagna che cresce sulla destra e il mare che si distende sulla sinistra.

Dopo l’aeroporto, il Monte Pellegrino. La grotta di Santa Rosalia mi ricorda il primo Festino che ho scritto nel 2004. Supero la lapide in memoria della strage di Capaci. Prima c’era un pezzo di guard-rail verniciato di rosso. Sangue vivo, sulla strada esplosa.

A Palermo c’è molto traffico. Procedo a passo d’uomo superando banchetti di pane e panelle. In piazza Kalsa c’è quello di Ciccio, il mio preferito; il suo panino con lo sgombro non ha rivali.
Ingoio il ricordo e tiro dritto, verso la Conca d’Oro.

Una manciata di chilometri appena, poi a Termini Imerese svolto a destra e comincio a salire. La strada di cui conoscevo ogni metro diventa all’improvviso un territorio nuovo e inatteso. Addirittura sorprendente. Si procede in quota, attraversando un paesaggio aspro e lieve al tempo stesso, superando piccoli paesi che interrompono pascoli e campi coltivati. Procedo davvero molto lentamente, lasciando che l’occhio rimbalzi tra i dettagli delle cose. Ogni tanto mi fermo, scendo dalla macchina e scatto delle fotografie; altre volte accosto, resto a bordo e guardo soltanto.

Quando arrivo nella Valle del Bilìci è tardissimo. Dobbiamo iniziare subito le riprese. Massimo mi viene incontro e mi passa dal finestrino un cesto di pane fatto in casa e una bottiglia d’acqua. È ciò che desideravo. 
Siamo qui per raccontare una piccola storia d’agricoltura antica
, legata alla coltivazione del pomodoro pizzutello siccagno. “Siccagno”, cioè secco, senz’acqua.

Decidiamo di andare con Davide e la sua sedia sulla cima del monte di Marianopoli, dove ci sono le pale eoliche e si domina la valle. Lui si mette comodo e si sente subito come a casa. Guarda in basso e spiega che «il nome Bilìci, pare che significhi ombelico…».
Questo è infatti il cuore della Sicilia, dove le temperature superano i quarantacinque gradi ma possono anche scendere sotto lo zero. Il terreno è secco e argilloso, ma ricchissimo di sostanze organiche.

Visto dall’alto, il paesaggio mi ricorda certe foto di Olivo Barbieri, dove il controllo del contrasto e della messa a fuoco rendono i luoghi simili a plastici. Un treno attraversa la vallata e sembra un modellino; gli alberi lungo la strada assomigliano a quelli che gli architetti fanno con le spugnette e gli stuzzicadenti per abbellire i progetti. Tutto pare una riproduzione della realtà, e noi dei giganti che da lassù potremmo prendere il mondo con la punta delle dita.

Credo che sia una specie di illusione ottica: un effetto di luce che stimola una reazione della mente. Ne parlo a Francesco, il protagonista della puntata, che mi risponde con un sorriso: «Qui è sempre così – dice – tutti i giorni, a tutte le ore».

Francesco non sembra un contadino; un ricercatore, piuttosto. Senza dubbio uno sperimentatore, uno a cui piace giocare con la terra e costruire castelli. Zappare campi, seminare piante, ritrovare cibi dispersi e risvegliare sapori addormentati.
Fosse nato a New York avrebbe forse coltivato orchidee in serra, come Nero Wolfe; ma è nato nel cuore della Sicilia e coltiva il pomodoro pizzutello siccagno.

Pizzutello è la varietà, siccagno la tecnica. Come dicevo, una coltivazione arcaica senz’acqua, l’unica possibile in un posto dove non piove quasi mai e i pozzi sono pochi, profondi e lontani.
Il pizzutello si semina a marzo e per tutta l’estate non riceve da bere né dal cielo né dall’uomo. Il contadino deve però smuovere il terreno e zappettare il campo tra i filari, per rompere la crosta argillosa e permettere all’umidità di correre tra le radici e nutrire le piante.

Adesso la stagione è finita e i filari sono spogli. Come sono diverse queste piante di pomodoro da quelle della mia infanzia nella piana di Albenga! Nei pomeriggi d’estate, noi ragazzi le innaffiavamo con una grossa canna nera che mettevamo all’inizio del solco. Poi camminavamo lungo i filari sincronizzando le chiacchiere con lo scorrere dell’acqua. I nostri pomodori erano tondi e gonfi, questi sono piccoli e allungati, crescono rasoterra e sembrano nascondersi tra le crepe del campo.

Francesco ci mostra la tecnica di coltivazione. La sua zappa scalza rapida il terriccio tra le piantine, seminate con cura a una a una. È sempre bello vedere l’artigiano al lavoro, quando usa gli strumenti come estensioni degli arti. Quando modifica se stesso insieme alla materia che lavora.
Il momento ha una sua magia. Massimo se ne accorge e toglie la telecamera dal cavalletto per inseguire i gesti di Francesco e filmare il suo lavoro.

Davide e io siamo sempre nell’inquadratura. Il regista ci rimprovera. Noi facciamo del nostro meglio per rimanere alle sue spalle, ma lui è troppo rapido: saltella da destra a sinistra, avanti e indietro per catturare le azioni del contadino, sempre chino sul terreno con la zappa in mano.

Decido allora di allontanarmi. Il padre di Francesco mi raggiunge e mi offre un peperone piccolo e dolcissimo. Un altro tesoro di questa terra. Lo mangio a piccoli morsi, come fosse un biscotto. Da lontano vedo Davide che prende un pizzutello dalla pianta e dice al pubblico a casa: «La produzione è scarsa e la fatica tanta, ma la qualità eccezionale! Pensate che le mogli dei contadini, per fare la passata di pomodoro, volevano solo u’ pizzutellu siccagnu e dicevano al marito: ‘Non mi portare nient’altro in casa, voglio solo quello!’»

La sera a cena, Francesco ci racconta della sua attività di ricercatore e di sperimentatore agricolo. Anni fa, sulle orme del Kamut, aveva scoperto che si trattava dello stesso grano che i contadini di Villalba e Valledolmo coltivavano nella loro terra e chiamavano Perciasacchi. Un nome affettuoso, derivato dall’uncino del chicco che rompeva la tela dei sacchi. Tutto questo prima che la multinazionale americana del Kamut nascesse e inventasse la leggenda del grano egizio dei faraoni.

Ma sono molti i grani autoctoni di questa zona della Sicilia. Francesco li coltiva in maniera rigorosamente biologica, con basse rese e alta qualità. Ci sono ad esempio il Tumminia e il Realforte, tipico grano duro dei Monti Sicani; oppure il Casedda, grano tenero ideale per fare pane, dolci e preparare la “Cuccia”, il piatto tipico della festa di Santa Lucia.

Poi mi racconta della lenticchia di Villalba e si perde nel mondo dell’olio e degli ulivi. Un universo ancora tutto da esplorare. Mi spiega che nella valle del Bilìci ci sono varietà che nessuno coltiva più e che invece sono eccezionali.

Dopo cena usciamo nel cortile di casa. In questa terra dove tutto sembra in miniatura, la luna ci appare gigantesca. Sorge da dietro il monte e illumina i nostri gesti. Comincia a fare fresco. Francesco mette una mano in tasca e quando la tira fuori, nel pugno, ha degli altri semi. Altre piante dimenticate da seminare e far germogliare. Altre storie di questa terra da raccontare.

Poi si va a dormire. Domani saremo tutti a Palermo. Francesco al mercatino del biologico di Palazzo Steri, Davide e io in piazza Kalsa, da Ciccio, a mangiare il suo panino con lo sgombro.
Guardo l’orologio e vedo che si è fermato. Domani, in città, cambierò la pila. Adesso non mi serve. Qui il tempo si è fermato e l’orologio è un oggetto inutile, da dimenticare.

Bene, adesso è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Allora, come dice Davide, venite a Villalba, nella Valle del Bilìci; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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