Archive for 2014

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L’arte della conservazione.

Oggi siamo in Campania. Il paese è Capaccio; il paesaggio, la Piana di Paestum. Le coordinate geografiche sono 40°23′ Nord e 15°3′ Est.

Massimo e io veniamo da Sud, dal Cilento, e per raggiungere Paestum attraversiamo i monti del Cilento. La strada è un continuo alternarsi di salite e discese e curve. A un tratto, il costone del monte di fronte a noi riflette un’intensa luce argentata. Sono olivi: centinaia di olivi con milioni di minuscole foglie luminescenti che brillano sotto il sole al tramonto.

Poi, quasi improvvisamente, i rilievi diventano pianura e i boschi orti. Siamo nella Piana di Paestum, l’antica Poseidonia.
Più tardi, passeggiando tra gli scavi, Davide dirà che in questo luogo che ha ispirato poeti e cantori, sono nati molti dei miti su cui fondiamo la nostra cultura.
Storie di tremila anni fa, narrate da uomini che vivevano d’arte, commercio e agricoltura.

Anche Francesco, il protagonista della puntata, ha l’agricoltura nel sangue. Il padre era un commerciante di ortaggi e lui, fin da bambino, ha imparato l’arte dei sapori. Poi si è dedicato a quella della conservazione. Prende i migliori prodotti della sua terra, li mette sott’olio e li fa viaggiare nel tempo. In questo, Francesco è un maestro.

Ci viene incontro davanti all’ingresso degli scavi. La nostra idea è registrare una parte della puntata tra le colonne del tempio di Zeus e i gradini di quello di Cerere. Ma non abbiamo i permessi e sebbene vengano a Paestum turisti e troupe da tutto il mondo, noi restiamo fuori dai cancelli. Solo Massimo, con la telecamera a mano, si unisce a un gruppo di anziane signore americane e registra alcuni contributi.

Francesco, invece, ci segnala un luogo alternativo posto di fronte alla stazione ferroviaria, senza ringhiere, né guardiani, né biglietterie.
Non mi dispiace allontanarmi dal recinto di Paestum. Preferisco i sassi e i cocci abbandonati, lontani dal passaggio dei turisti. Arrivando nella piana, mi aveva molto colpito il muro perimetrale del sito: chilometri di pietre tagliate e squadrate con esattezza euclidea. Lo dico a Francesco e vedo che s’illumina. Il punto che ha in mente è un arco che si apre proprio in quel muro e che delimita un grande orto. Niente folla, solo la piana di Paestum e le pietre dei Greci.

Davide imbraccia la sedia e accelera il passo. La stazione scompare alle sue spalle mentre lui sembra avanzare nel cuore di Poseidonia.
Quando allunga un braccio e indica la pianura che si perde all’orizzonte, ha di fronte un campo di carciofi.

Quella dei carciofini sott’olio è una delle specialità di Francesco. Tra poco andremo da lui e ci mostrerà i suoi celebri vasetti da 600 grammi che racchiudono 250 carciofini, più piccoli di un dito! Sembrano delle murrine e per confezionarne uno occorrono sei ore di lavoro!

In macchina, Francesco mi parla del padre e del suo mestiere di commerciante ortofrutticolo. Spiega che mentre gli abitanti della Piana di Paestum si dedicavano all’agricoltura, quelli del Cilento viaggiavano e commerciavano. Nel tempo era nata una sorta di “corporazione” di mercanti cilentani dell’ortofrutta: gente intraprendente, specializzata nella selezione e distribuzione dei prodotti della terra.
Ecco perché fin da ragazzino Francesco ha avuto dimestichezza con i campi e i raccolti: seguendo il padre aveva conosciuto i prodotti e i produttori, li aveva messi a confronto, ne aveva imparato i segreti.

La sua idea fissa era però la conservazione, l’arte di mantenere nel tempo i profumi e i sapori del luogo, come il carciofo di Paestum, il pomodoro giallo di Capaccio, il broccolo friariello, la cipolla ramata di Montoro, la zucca napoletana e il San Marzano, il pomodoro simbolo della nostra passata.
Al termine della puntata, Davide dirà che il segreto della pasta al pomodoro di molti chef stellati è proprio la passata di Francesco!

La sua casa-laboratorio è in una posizione incantevole: da un lato la piana con il mare sullo sfondo, dall’altro i monti, con pareti di roccia viva esposta al sole tutto il giorno. In primo piano ci sono due rilievi: il Monte Soprano – leggermente più alto e arretrato – e il Monte Sottano, più avanzato e basso. In mezzo la collina, e sulla collina un vigneto di Aglianico, il vitigno autoctono. I filari ben distanziati che scorrono lungo il pendio, l’aria umida del mare in faccia, le correnti calde che rimbalzano sul monte di spalle; e sulla testa – dall’alba al tramonto – la luce del sole. Immagino che quel vigneto produca un grande vino. Se fossi un acino di Aglianico, l’unico anno della mia vita mi piacerebbe passarlo lassù.

Durante le riprese, Davide attraversa un campo di pomodori gialli di Capaccio. Per la verità, passa prima sotto un fico e si ferma a gustarne un frutto. Massimo lo filma e sono sicuro che monterà la scena per mandarla in onda. Poi attraversa un filare di uva fragola e ancora si lascia tentare. Anche nel campo di pomodori, Davide si china sulla terra, raccoglie e mangia.
Quello di gustare è un gesto nobile: riconoscere alla terra la sua natura di madre.

Infine entriamo nel laboratorio di Francesco, dove tutto appare moderno, igienico, funzionale. Ma appena ci si ferma sui dettagli si capisce che le macchine, i banchi e le vasche sono solo il volto professionale di una cucina tradizionale, con i fuochi, le madie di legno, le pentole di rame. Non serve altro per fare buone conserve. Solo esperienza e pazienza.

Francesco ha recuperato e sviluppato antiche tecniche e ricette, perché ciò che la natura dona, l’arte della conservazione mantenga.
La cosa più difficile è la semplicità.

Al termine delle riprese, tutti ripartono e Francesco si butta nel lavoro che ha interrotto per noi. Io resto ancora un po’, in attesa di un treno per il Nord. All’ora di pranzo mi invita a mangiare insieme alla sua famiglia. In tavola, tra le pietanze, c’è anche del pane secco. Lui ne prende una fetta e la bagna in una ciotola d’acqua, poi taglia un pomodoro giallo fresco, lo appoggia sul pane e aggiunge un pizzico di sale e un filo d’olio.
La cosa più difficile è la semplicità…

Bene, adesso è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite anche voi a Capaccio, nella Piana di Paestum; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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La sincerità del vino.

Oggi siamo in Abruzzo. Il paese è Torano Nuovo, il paesaggio quello della Val Vibrata. Le coordinate geografiche sono 42°49′ Nord e 13°46′ Est.

Il viaggio comincia all’aeroporto di Genova, dove non prendo un aereo ma parcheggio lo scooter e salgo sulla macchina di Massimo, il nostro regista.

Insieme ci mettiamo in marcia: la Serravalle, Tortona, Piacenza, Bologna, la Riviera Adriatica. Poco dopo San Benedetto del Tronto lasciamo l’autostrada e il litorale per addentrarci in questa terra compresa tra l’Adriatico, il Gran Sasso e la Maiella. La strada sale lungo costoni di roccia viva tufacea e porta su un altipiano sormontato da colline: lievi ondulazioni del terreno ricoperte da vigneti. È la terra del Montepulciano d’Abruzzo e del Trebbiano: un luogo argilloso, con forti escursioni termiche, tanto vento e molto sole.

«L’ideale per la vigna e il vino,» dirà Davide domani, guardando negli occhi il pubblico a casa, oltre la telecamera di Massimo.
Arriviamo a Tornano Nuovo giusto in tempo per pranzare. Ci accoglie un’insegna di buon auspicio: «La sosta».
Antipasto di salumi e formaggi, un primo di ravioli al ragù e un pollo ruspante con le patate al forno. Buon Montepulciano d’Abruzzo e pane di casa. Siamo entrati con il sole e usciamo con la pioggia. Il tempo è cambiato, ma quasi non ce ne accorgiamo. Soddisfatti e pieni di energie ci presentiamo nella tenuta di Emidio, un grande viticoltore che da cinquant’anni produce il Montepulciano d’Abruzzo in maniera rigorosamente biologica.

Arriva anche Davide, indossa l’abito di scena ed è subito pronto. Iniziamo le riprese nella cantina di Emidio e della sua famiglia: un luogo che merita un’attenzione speciale.
Ci sono 350.000 bottiglie, dal ’64 a oggi, che annata dopo annata raccontano la storia del Montepulciano. All’inizio era considerato un vino facile, da consumare giovane, entro l’anno. Emidio invece parlava alle sue viti ed era convinto che con l’aiuto della natura gli avrebbero dato un prodotto di grande corpo e carattere, capace di invecchiare dieci, venti, trent’anni e oltre. I vecchi del posto e gli amici lo prendevano un po’ in giro, ma lui insisteva e non abbandonava la sfida. Col tempo ha creato una vera scuola di pensiero, una specie di filosofia del vino e della vita, misto di sincerità, semplicità e genuinità.

Domani, con la sedia tra i filari, Davide spiegherà che «Emidio rispetta la vite come una persona e l’accompagna mentre la natura la fa crescere; perché è la natura che dà carattere al vino e mette il suo marchio sull’etichetta di ogni bottiglia!»

Nella cantina di Emidio sono ordinatamente disposti filari di bottiglie di quasi tutte le annate. Sembrano la tastiera di un pianoforte che corre verso l’infinito. Alcune annate però mancano e domando perché. Sofia, la figlia di Emidio che ha ormai raccolto l’eredità del padre, mi spiega che in certe stagioni di maltempo – come ad esempio l’86, il ’94 e il ’96 – Emidio ha scelto di non produrre vino!

La sua filosofia è molto semplice, ma come tutte le cose semplici è difficile. In vigna non usa alcun prodotto chimico, vendemmia a mano, diraspa sempre manualmente il Montepulciano e pigia con i piedi il Trebbiano, poi vinifica nel cemento e imbottiglia senza filtrazioni. Lascia invecchiare nel vetro e prima di mettere il vino in commercio lo decanta a mano, bottiglia per bottiglia.
Davvero difficile, questa semplicità!

Domani, quando il sole splenderà sulle colline della Val Vibrata, Davide spiegherà che la raccolta e la successiva diraspatura permettono di mantenere intatti gli acini, in modo che i raspi non vengano strappati e non si mescolino all’uva, portando acidità.

Vedere Davide che diraspa con Daniela, la sorella di Sofia, è uno spettacolo. Si dispongono ai lati di una grande setaccio e spingono i grappoli l’uno verso l’altra finché tutti gli acini sono caduti nel tino e sulla rete sono rimasti solo i raspi. Massimo s’inventa una ripresa dal basso, con un vetro per proteggere l’obiettivo. Un’immagine in controluce che sembra racchiudere l’anima di questa produzione artigianale: gli acini d’uva maturi, il lavoro delle mani e delle braccia, la luce del sole.

Uno spettacolo ancora più coinvolgente è vedere tutta la famiglia di Emidio riunita che indossa gli stivali e pigia il Trebbiano con i piedi.
Non è folclore, come si potrebbe pensare, ma una precisa scelta di produzione, necessaria per estrarre solo il succo degli acini maturi, senza che i raspi e i frutti acerbi finiscano nel mosto. Occorre evitare l’acidità e dare al vino – fin dall’inizio del suo cammino – quelle caratteristiche di armonia e di equilibrio che lo renderanno pregiato.

Emidio mi spiega che si tratta di non commettere errori e di partire subito con il piede giusto. Fare all’inizio le cose che servono, per non intervenire dopo, magari con la chimica.

Infine, l’uso delle vasche in cemento vetrificato permette al vino di riposare e maturare serenamente, lontano dalla luce e dai rumori. Emidio non ama il legno delle botti perché altera il sapore e i profumi del vino. Ma anche l’acciaio non va bene. Le pareti sono sottili, come quelle dei moderni appartamenti. All’interno il vino non si rilassa mai, si agita e resta torbido.

Nelle botti di cemento vetrificato, invece, riposa come un essere umano in una casa confortevole. Dopo soli due mesi, lascia cadere sul fondo il deposito ed è perfettamente trasparente.

Nella penombra della cantina buia, Davide si avvicina a una botte e spilla un po’ di vino. In controluce si vede la trasparenza assoluta, l’assenza di sospensione e la calma interiore del giovane Trebbiano. Non è ancora pronto, ma è già sincero!
Terminato l’invecchiamento nel cemento, il vino viene imbottigliato senza filtrazioni. Poi andrà in cantina e invecchierà per anni e anni, anche cinquanta.

Quando poi sarà messo in commercio, la moglie di Emidio lo decanterà a mano. L’ultimo tocco sarà l’etichetta, che dopo mezzo secolo di vendemmie non è mai cambiata. Anche questo è un segno di continuità e sincerità.

Al termine delle riprese ci fermiamo a tavola, in famiglia. I piatti sono quelli del luogo, anche loro genuini e pieni di vita come il vino che li accompagna. Assaggiamo le mazzarelle, interiora di agnello finemente lavorate e racchiuse in foglie di lattuga cotta, spaghetti alla chitarra, formaggio fritto e dolci di casa. Ogni portata è accompagnata da un vino diverso, ben presentato da Chiara, l’altra donna di famiglia. È la figlia di Daniela e ha poco più di vent’anni; è già sommelier, parla le lingue e attraversa i continenti per promuovere i vini del nonno.

Emidio ci racconta che un tempo metteva le bottiglie in valigia e portava i suoi vini in giro per il mondo; oggi sono loro che fanno viaggiare lui e la sua famiglia.
Questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite a Torano Nuovo, in Val Vibrata; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le Brigasche transumanti.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Mendatica, il paesaggio quello delle Alpi Liguri. Le coordinate geografiche sono 44°4′ Nord e 7°47′ Est.

In realtà, oggi i “paesi, paesaggi” sono due: Mendatica e le Alpi Liguri, Bastia e la Piana di Albenga. È proprio a Bastia, un piccolo borgo sul fiume Centa, circondato di serre, fiori e ortaggi, che incontriamo Aldo, il protagonista della puntata.

Aldo è un pastore che si dedica all’allevamento della pecora Brigasca, la razza tipica delle Alpi Liguri, ormai a rischio di estinzione. Il suo gregge conta quasi mille capi e vive appunto a Bastia, in riva al mare, ma ogni anno – da giugno a ottobre – sale sui monti.

Aldo è infatti uno degli ultimi pastori che pratica la transumanza, rigorosamente a piedi.

Insieme a lui, iniziamo il viaggio. Davide attacca la salita sulle rive del Centa e dell’Arroscia, i piedi saldi sul terreno e la sedia in spalla. Massimo – il nostro regista – è del posto e conosce le curve giuste per celebrare il rito della transumanza.

Saliamo fino a Mendatica; altre due inquadrature e poi su, sempre più in alto, alla ricerca delle ultime pecore Brigasche. Raggiungiamo Monesi, una piccola stazione sciistica ormai in disarmo. Qui il bosco si dirada ai lati della strada e dopo poco si dirada anche la strada. Dopo i 1500 metri di quota procediamo sullo sterrato.

Nella notte deve aver piovuto selvaggiamente, perché il tratturo è un fiume di acqua e fango che risaliamo con i nostri precari mezzi di città. Aldo guida il gruppo a bordo del furgone e io lo seguo con la mia auto famigliare a debita distanza, con Davide seduto accanto a me che evita di guardare in basso. Soffre di vertigini.

Il paesaggio cattura lo sguardo, con densi banchi di nebbia che si muovono nervosi, spinti da un vento imprevedibile. Ci sono tratti di sentiero dove si procede al buio e momenti dove invece la vista spazia fin quasi al mare. Appena raggiungiamo il pascolo e scendiamo dalle macchine, Davide pronuncia la frase di rito: «La luce oggi è bellissima!»

Le pecore pascolano sul costone di fronte a noi. Aldo le chiama e a poco a poco il gregge si muove, accompagnato dai cani. All’inizio il movimento del branco è stentato, ma una volta che le pecore si mettono in moto sono inarrestabili. Scendono il pendio e raggiungono la piccola piana dove abbiamo deciso di effettuare le riprese. Davide cammina sbucando dalla nebbia, posa la sedia a terra e viene circondato dal gregge.
Ride ed esclama: «Ecco, qui mi sento come a casa!»

Questo scenario incontaminato, che il lupo è tornato a frequentare con assiduità, fa da sfondo alla storia di Aldo. Lui è nato pastore, figlio di un allevatore di pecore che dalla Sicilia è emigrato in Liguria dopo la guerra, portando il suo gregge in treno.
Da lui Aldo ha appreso l’arte dell’allevamento e della lavorazione del latte. Ma è andato oltre, salvando dall’estinzione la pecora tipica delle Alpi Liguri e continuando con ostinazione a praticare la transumanza a piedi.

Il risultato è straordinario, ma la fatica tanta, tantissima. Una fatica che potrebbe sembrare senza senso. Le normative gli impediscono di realizzare un alpeggio fisso in montagna, che offra un rifugio confortevole per i pastori e i turisti di passaggio e che possa essere utilizzato come centro di raccolta e prima lavorazione del latte. Invece, ogni giorno, Aldo è costretto a ripetere una sorta di transumanza inversa e solitaria, portando in macchina a Bastia il latte appena munto sul Monte Saccarello. Ogni giorno l’avventura di questa mattina, sulle pietre del sentiero, il fiume di fango, la nebbia che appare e scompare. Ma non è sempre così, talvolta è anche peggio!

Però Aldo tenacemente prosegue nella sua attività nomade. Lo premiano la qualità dei suoi prodotti e l’intensità della sua vita.

Giunti quasi al termine delle riprese, Davide prende un po’ di sale per familiarizzare ulteriormente con le Brigasche. Ormai lui e il gregge sono in confidenza: parlano la stessa lingua, il Brigasco, l’idioma storico di queste terre occitane che deriva dalla lingua d’Oc. Attirate dal sale e dalle parole di Davide, le pecore lo travolgono e quasi gli spostano la sedia. Quando alla fine si alza e s’incammina verso valle è «davvero tempo di andare!»

Le pecore lo seguono e i cani pure, abbaiando al gregge e al nuovo pastore. Davide sparisce nel bianco lattiginoso della nebbia, mentre Aldo interviene e con un paio di richiami raduna gli animali e li indirizza verso il pascolo del mattino.

La giornata è ancora lunga. Dobbiamo scendere a Bastia per registrare le scene di lavorazione del latte ed esplorare la cantina di affinamento dei formaggi. Ma prima è d’obbligo una sosta a San Bernardo, a 1247 metri di quota.

Pensiamo di pranzare con qualcosa di leggero, magari un piatto di salumi, del formaggio e un pezzo di pane casereccio bagnato nel vino. Invece ci attende la Cucina Bianca, cioè la cultura del luogo tradotta in cibo; una lingua che parla ai sensi, misto di Ligure e Italiano, Brigasco e Occitano, aria calda e umida di mare intrisa di correnti fredde di montagna. Tutto rigorosamente bianco, perché bianchi sono i farinacei, i latticini, le patate, i porri, l’aglio, le rape, la scorzonera e mille erbe selvatiche che crescono spontanee sui sentieri della transumanza.
Ci sediamo a tavola affamati, ci alziamo affaticati. Però felici, ed è già molto.

Siamo a Bastia nel mezzo del pomeriggio. Chiediamo ad Aldo di portare alcune pecore rimaste in valle sulle rive del Centa, per vedere dove vivono durante l’anno. Per me è un momento particolare, perché da ragazzino questo fiume è stato il mio campo giochi. Qui scappavo di casa e venivo a pescare i cavedani che la signorina Livia – l’anziana zitella vicina di casa – cucinava in carpione. Nelle pozze dove io pescavo, Aldo pascolava le pecore con il padre. Allora non ci conoscevamo, lui siciliano di Bastia, io milanese di Lusignano. Adesso però si è chiuso un cerchio. Quanti ricordi sulle rive del Centa, il fiume più piccolo d’Italia, appena tre chilometri da Bastia ad Albenga, dall’ovile di Aldo al mare della Gallinara.

I formaggi di pecora Brigasca sono eccellenti e meritano un’attenzione particolare. È il mestiere di Davide, queste cose lui le sa fare bene. Allestiamo un piccolo tavolo da degustazione nel fienile, mentre Aldo sceglie alcune forme. Prende una toma di Brigasca di un anno e un’altra di tre anni e mezzo, poi la Sora, il tipico formaggio di pecora delle Alpi Liguri e un vaso colmo di ricotta di Brigasca, gustosa e ricca di calcio.

Davide si perde in quel mondo di sapori, mentre il sole tramonta oltre la piana di Albenga, la Valle Arroscia, Mendatica, Monesi e il Monte Saccarello, dove il gregge di Aldo si quieta e riposa, in attesa di un nuovo giorno.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Fate come il gregge di Aldo: venite a Mendatica, sulle Alpi Liguri, e poi scendete a Bastia, nella Piana di Albenga; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Le alici di Palinuro.

Oggi siamo in Campania. Il paese è Pisciotta, il paesaggio quello del Cilento. Le coordinate geografiche sono 40°6′ Nord e 15°14′ Est.

Mi aspettano un migliaio di chilometri che decido di percorrere in treno. Parto da Genova alle 6.00 del mattino e continuo a dormire fino alle porte della Versilia. Mi svegliano i tuoni e la pioggia battente sui finestrini della Freccia Bianca lanciata a duecento chilometri all’ora verso Sud.
A Viareggio inizia a grandinare. Stagione balorda; questa non è estate.

Ancora un po’ addormentato arrivo a Roma, accompagnato da una pioggerellina lieve sotto un cielo livido. Salgo su un’altra Freccia – Rossa, questa volta – e proseguo verso Napoli. La situazione meteorologica non cambia; anzi, la temperatura si abbassa. Fa quasi freddo, davvero non è estate.

Mi restano ancora un paio d’ore su un treno regionale per attraversare la Piana del Sele e arrampicarmi sui rilievi del Cilento. Il cielo si rischiara a poco a poco. Non conosco bene queste terre e resto con lo sguardo fisso sul finestrino. Il mondo che scorre al di là del vetro è una successione di immagini che accarezzano la mente come una musica lieve. Il treno è una fabbrica di idee.

Sono quasi le tre del pomeriggio quando arrivo alla stazione di Pisciotta.
Qui c’è il sole ad aspettarmi: raggi caldi in attesa sulla banchina. Massimo, il nostro regista, è già arrivato e sta facendo il bagno a Capo Palinuro. Verrà a prendermi tra un po’. Scelgo una palma e mi accomodo a terra, la schiena appoggiata al tronco, un libro aperto in mano e lo sguardo fisso sulla gente che entra ed esce dalla stazione.
Spero che il mio regista non arrivi troppo presto.

La sera è dedicata al lavoro. Siamo scesi nella terra di Palinuro, delle Sirene e degli Argonauti, per raccontare una storia di pesca antica. A Marina di Pisciotta, un borgo con meno di duecento abitanti, alcuni pescatori usano ancora le reti di menaide, o menaica. Sono le stesse reti che impiegavano i Greci, tremila anni fa. Hanno le maglie larghe per catturare solo alici adulte. Una pesca tradizionale, integrata da secoli con la natura del luogo. Si svolge con mare calmo da aprile a luglio, subito dopo la stagione della seppia. Uno dei pescatori mi recita una filastrocca che è una specie di calendario ittico:

A frevaro ‘a séccia appare,
a marzo a quatto a quatto,
a aprile quanno ‘a vire,
a maggio trase a quaglia e ‘a séccia squaglia!

Dunque, a febbraio la seppia appare, a marzo se ne prendono quattro alla volta, ad aprile si pesca solo quando si vede e a maggio, quando arriva la quaglia, la seppia squaglia.

Il ritorno dei migratori segna invece l’arrivo delle alici, che si pescano alla sera, quando il branco nuota in direzione del sole che tramonta.

Le alici di menaica sono uniche non solo per le dimensioni del pesce e la qualità della carne, ma perché i pescatori – secondo tradizione – le puliscono direttamente in barca, senza usare ghiaccio per conservarle. Tolgono la testa, lavano il sangue e rimuovono le interiora. Il pesce fresco, appena pescato e pulito, è eccellente anche da mangiare crudo. I pescatori di Marina di Pisciotta chiamano “insalata di mare” questo sushi antico e mediterraneo.

La nostra, però, non è serata di pesca vera; la stagione è finita e caliamo solo pochi metri di rete. Facciamo un po’ di teatro per le riprese televisive. Vittorio, uno dei protagonisti della puntata, si muove sulla barca con l’eleganza di un ballerino, immerso in un’ampia cerata arancione che ondeggia seguendo il rollio dello scafo. Tiene i piedi nudi ben saldi nel pozzetto, bilanciando il peso del corpo con la forza delle mani che stringono la rete aggrappata al mare. Sarà anche una pesca finta, ma a noi sembra vera. Talmente vera che peschiamo pure un’alice! Un piccolo dono di Palinuro e delle sue amiche Sirene…

Al rientro in porto ci aspetta Donatella, la moglie di Vittorio, che anni si dedica alla lavorazione professionale delle alici di menaica nel suo laboratorio di conservazione. Il pesce arriva ogni giorno freschissimo e lei lo lavora immediatamente: prima un lavaggio in salamoia e poi uno strato di sale alternato a uno di alici, uno strato di sale e uno di alici, fino a raggiungere l’orlo del vaso. Infine chiude la conserva con una pietra tonda presa dal mare e lascia maturare per almeno tre mesi.

Un tempo il recipiente era una botticella di legno che permetteva al pesce di respirare, mentre il sale formava sulle pareti interne del vaso una barriera protettiva. Oggi non si può, per via delle leggi che impongono l’uso della ceramica. Ma Donatella non demorde ed è convinta che un giorno torneremo a gustare le alici di menaica conservate nel legno. Alle volte bisogna aspettare il futuro per tornare al passato.

Le alici di menaica sotto sale sono davvero particolari, con la carne chiara e rosata, il profumo intenso ma al tempo stesso delicato. Si mantengono intatte per anni, con tutti i sapori del mare.

“Si possono gustare in mille modi diversi,” dice Davide aggirandosi tra i banchi di lavorazione. Poi ne prende una, la porta alla bocca e aggiunge: “Ma a me piacciono così, al naturale!”
Io lo imito e insieme a lui mi tuffo nel tempo: ci sentiamo un po’ Greci. Antichi Greci, per la precisione.

Ci sediamo a tavola molto tardi. Siamo tutti un po’ stanchi; è stata una giornata lunga. Ma il cibo del ristorante “Angiolina” di Marina di Pisciotta merita i suoi “tre gamberi” e ci rimette in sesto. Le specialità della casa sono quelle del mare, freschissime come le alici di Vittorio e Donatella. Per noi è come ritornare in barca.

Poi tutti a nanna, su a Pisciotta, il paese che visto dalla Marina sembra a pochi passi e invece è quasi in montagna. I luoghi della natura sono spesso sorprendenti, capaci di ingannare lo sguardo del forestiero. Per raggiungere a piedi il paese occorre almeno mezz’ora di ripida salita: una parete scoscesa, tappezzata di ulivi che sembrano emergere dal mare.

Gli ulivi stanno a Pisciotta come le alici di menaica stanno alla sua Marina. Nella casa dove ho dormito c’è un frantoio del 1707 perfettamente conservato. Il torchio affacciato sul Mediterraneo, la macina rivolta al monte. Un piccolo gioiello rurale ben inserito – quasi incastonato – nel seminterrato di una dimora residenziale. Mi stupisco nel vedere un frantoio in una residenza urbana, ma la padrona di casa mi spiega che a Pisciotta, fino alla metà del secolo scorso, c’erano cinquanta frantoi attivi!

Qui l’ulivo è di casa: presente da sempre e ovunque, radicato nella vita della gente. Gli ulivi sono testimoni diretti del nostro passato. Chissà, forse qualcuno di loro ha visto gli antichi Greci prendere il mare al largo di Capo Palinuro e pescare le alici con le reti di menaica…

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Quando venite a Pisciotta, seguite il sentiero degli ulivi e raggiungete la Marina: gustate le alici di Vittorio e Donatella, poi visitate gli scavi di Velia e ricordatevi di passeggiare sulla sabbia finissima di Capo Palinuro, l’antica salina delle alici di menaica.

Venite a Pisciotta, nel Cilento; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Gli olivi di Dante.

Oggi siamo nelle Marche; il paese è Serrungarina, il paesaggio quello della Valle del Metauro.
Incontro Davide a Milano, in piazza Cadorna. È mattino, neanche tanto presto. Dopo tre ore di chiacchiere filate, raggiungiamo l’uscita di Fano. Le previsioni minacciano brutto tempo e invece la giornata è scintillante. Il cielo si mantiene terso, spazzolato di continuo da un vento fresco che increspa il mare e accarezza le spighe di grano.

Le colline che costeggiano il Metauro sono coperte di macchie boschive e campi coltivati, interrotti ogni tanto da fattorie e borghi. Già a prima vista colpisce la qualità del territorio, privo di sbavature, segno di una felice armonia tra gli esseri umani e la natura circostante. Procediamo lentamente, continuando a salire e scendere lungo la direttrice della Flaminia, l’antica consolare che portava da Roma all’Adriatico.

Per secoli, questa è stata una grande via di transito. Una strada veloce, quasi tutta rettilinea, e proprio per questo piena di ponti, viadotti e opere di ingegneria civile. Lungo il tragitto, scandito dalla regolare successione di pietre miliari, si trovavano grandi mansiones per i facoltosi viaggiatori, tabernae per i più modesti viandanti e mutationes per gli animali, dove riparare i carri e foraggiare le bestie. Da queste antiche “stazioni di servizio” sono nati i villaggi della valle, come ad esempio Tavernelle, dove siamo diretti per incontrare gli amici di Striscia.

Da lì, andremo tutti a Serrungarina, da Giuliano e dai suoi ulivi, protagonisti della puntata. In soli due chilometri e mezzo, da Tavernelle a Serrungarina, cambia tutto. Questa è la magia del territorio italiano. In basso la stazione di posta, aperta e accessibile, in alto un borgo arroccato, progettato per difendere il territorio di Fano dei Malatesta.

In mezzo gli ulivi. Un orto impregnato di mistica quiete. Giuliano ci guida lungo le mura della città. Davide lo segue lentamente con la sedia in spalla e raggiunge un angolo delle fortificazioni da cui la vista spazia sulle colline.

Giuliano mi racconta che fu proprio all’interno di queste mura che nel Quattrocento i Malatesta sconfissero le milizie del Papa. Sigismondo Malatesta contro Papa Eugenio IV, per l’esattezza.

Parlare di Papi con Giuliano è un’esperienza unica. Ha lavorato tutta la vita in Vaticano, come responsabile della sicurezza. Da Paolo VI a Giovanni Paolo II, lui era l’uomo che correva accanto alle loro auto, quando salutavano le folle e quando cadevano sotto i colpi degli attentatori. Una vita ad alta tensione, poi la pace di questa terra sospesa nel tempo.

Lasciamo il borgo e raggiungiamo il fiume, prima di risalire tra gli ulivi. Troviamo un buon punto per le riprese, nei pressi di un grande ponte. La strada e l’acqua sembrano un insieme compatto. Non è un’illusione ottica, il livello del fiume è altissimo.
«È in piena?» chiedo a Giuliano.
Lui scuote la testa.
«Gli ambientalisti…»
«Gli ambientalisti?»
«Il letto del fiume è profondo quasi dieci metri,» mi spiega, «ma nel corso del tempo si è alzato. Adesso sarebbe da dragare, ma questo distruggerebbe l’ecosistema che si è creato. Gli ambientalisti si oppongono e hanno le loro ragioni, però così il Metauro è troppo alto…»

Alessandro, suo figlio, mi mostra i campi alle nostre spalle e dice che quest’inverno erano tutti sommersi d’acqua.
Davide cammina sulla riva del fiume, saluta i pescatori nel canneto e si allontana con la sedia in spalla. Si dirige verso il campo di ulivi, dove finalmente dirà: «Qui mi sento come a casa».

Gli ulivi di Giuliano sono tremila. Una coltivazione rigorosamente biologica; anzi, più che biologica! Il campo è infatti circondato da un fitto bosco di querce che gli insetti e i parassiti non riescono ad attraversare.
«Altro che veleni…», esclama Davide guardando la telecamera, «qui ci pensa la natura!»

La raccolta avviene a mano, con un piccolo rastrello, per non rovinare la pianta e i suoi frutti.
«Vedi,» mi spiega Giuliano, «la natura ha una sua perfezione, che noi possiamo solo guastare. Se vuoi fare un olio davvero di eccellenza, devi pensare che dal momento in cui stacchi l’oliva dalla pianta, la qualità inizia a peggiorare».

Gli chiedo cosa significhi e lui mi dice che è questione di tempi e di modi. La raccolta si svolge verso la metà di ottobre, seguendo il diverso grado di maturazione delle olive, e la spremitura avviene entro 24 ore. All’interno dell’azienda, Giuliano ha realizzato un frantoiocon un impianto a ciclo continuo senza i “fiscoli” – i tradizionali filtri che spesso si intasano di polpa di olive – che gli garantisce la massima qualità del prodotto finale, sia igienica sia gustativa. L’olio nuovo viene poi conservato in botti di acciaio a temperatura controllata e imbottigliato solo al momento dell’ordine.

Davide ama l’olio ed è un profondo conoscitore di questo prezioso alimento della cultura mediterranea. Durante una pausa chiede alla moglie di Giuliano un cucchiaio e inizia ad assaggiare. I suoi gesti sono semplici ma precisi, sembrano quelli di un sommelier: osserva il colore, la densità, poi l’aroma e infine il gusto, lasciando che il sapore dell’olio accarezzi il palato e svanisca lentamente, lasciando in bocca il ricordo di sé. Ottimo. Gli offro un pezzo di pane, ma lui rifiuta. Riempie nuovamente il cucchiaio e continua la sua personale degustazione.

Se l’olio biologico è il cuore della produzione di Giuliano, il suo prodotto più innovativo è invece il liquor d’ulivi, una specialità di cui parlava già Dante nel Paradiso. Siamo nel canto XXI, quando san Pier Damiani, monaco e priore del monastero di Fonte Avellana, sulle pendici del Monte Catria, a pochi chilometri dagli ulivi di Giuliano, diceva: «Quivi al servigio di Dio mi fei sì fermo, che pur con cibi di liquor d’ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne’ pensier contemplativi».

Dal Trecento a oggi, il liquor d’ulivi s’era smarrito nelle pieghe del tempo, finché Giuliano venne a conoscenza di un’antica e misteriosa ricetta. Provò a realizzarla una volta messi a dimora i suoi ulivi, e per anni continuò a fare esperimenti, prove e tentativi.

La ricetta rimane segreta, per questo non è brevettata. «Se la dichiaro,» mi dice Giuliano, «basterebbe mettere un grammo in più o in meno di uno degli ingredienti, per fare un prodotto uguale e non avere problemi!»

Dell’ulivo c’è la corteccia, che viene pelata come la buccia di una patata, poi le foglie, intere o sminuzzate, naturalmente alcol per l’infusione e poi zucchero e aromi naturali come bucce di agrumi.

Per la gioia della nostra telecamera, Giuliano abbozza il rito della preparazione. Un riassunto per sommi capi, tanto per dare l’idea. Alla fine, il risultato è sorprendente; un liquore dalle virtù digestive, di colore ambrato, dal dolce sapore balsamico, con un leggero sottofondo amarognolo ad una gradazione alcolica di 30 gradi.

Lascia il palato pulitissimo e si può gustare al naturale, fresco o con ghiaccio d’estate oppure caldo in inverno, con una fettina di limone. Giuliano assicura che è ottimo anche sul gelato, sulle crepes e nei cocktail. C’è da credergli. E poi, è forse l’unico liquore al mondo veramente biologico!

Con un bicchiere in mano e la sedia in spalla, Davide cammina lungo i filari di ulivi. In alto, il tramonto dilaga nel cielo limpido mentre in basso il viale s’interrompe davanti alle mura del convento di San Francesco. È proprio qui che nel 1219 il santo aveva soggiornato prima di partire per la Terra Santa.
«Magari bevendo un sorso di liquor d’ulivi…» abbozza Davide, assaporando ancora un goccio di liquore.
«Venite nella Valle del Metauro,» dice chiudendo la sedia e allontanandosi verso nuovi paesi e nuovi paesaggi. «Ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!»

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Il miele in barrique.

Oggi siamo nelle Marche; il paese è Fabriano, il paesaggio quello dell’Appennino Umbro-Marchigiano.
Arriviamo nella notte e andiamo subito a dormire. Domattina presto, prima di lavorare, andrò a correre. Giusto una sgambata sulle colline intorno alla città, nel regno della  carta e degli elettrodomestici, tanto per farmi un’idea del territorio.
Spesso, sudare aiuta a capire.

Quando mi alzo dal letto, il sole è già alto e la luce abbagliante. Maglietta, pantaloncini e via, lungo solitarie strade di campagna che s’inerpicano sui colli. La città è ancora addormentata, ma la natura è già in pieno fermento. Penso alle api di Giorgio, che incontreremo tra poco. La sua azienda è posta proprio su uno di questi rilievi.

Mi colpisce la pulizia del paesaggio. Tutto è delimitato in maniera precisa, come le celle di un alveare. I campi e i boschi si distendono sulle curve del terreno senza mai confondersi. L’occhio scivola continuamente dal particolare al generale e viceversa. Correndo, guardo spesso in basso e osservo lo scorrere del ciglio della strada. Dove l’asfalto finisce, comincia il prato. Non esistono quei confini sfumati – così comuni in Italia – fatti di fango e terra di riporto, cartacce gettate dall’uomo e sparse dal vento, oggetti finiti per sbaglio ai margini della via.

Fabriano era uno dei comuni più ricchi d’Italia; oggi invece un quarto della popolazione è senza lavoro e un altro quarto è in cassa integrazione. Eppure, a vederlo da lontano, il paesaggio non mostra ferite.
È come se la campagna gridasse la sua bellezza, soffocando i lamenti dell’industria.

Forse, il futuro di Fabriano è proprio nella terra. Giorgio lo ha cercato lì, nell’estate del 2002, in compagnia di uno sciame di api.
La sua storia inizia subito dopo la laurea in agraria. Il padre gli regalò due arnie e gli chiese di occuparsene. Un regalo insolito, che gli cambiò la vita.

Dopo un’estate con le api, la passione divenne un mestieree Giorgio decise che quello sarebbe stato il suo mondo. Un mondo piccolo, ma affascinante, quasi ipnotico. C’è da perdersi tra le regole della comunità, i dialoghi intessuti a colpi d’ali, i voli di lavoro e di riproduzione delle operaie, dei fuchi, delle regine…
Un’antica leggenda celtica dice che le api sono portatrici di saggezza e quando un’ape entra in casa significa che sta per arrivare uno sconosciuto.

Quando parcheggiamo la macchina davanti alla casa di Giorgio, c’è qualcosa che vola dietro il vetro della cucina…
L’abitazione è posta sul crinale della collina, ben inquadrata nel territorio tra due campi di grano. Massimo e io passeggiamo in cerca del luogo dove posizionare la sedia di Davide. Risaliamo la china del monte camminando lungo il bordo di un campo in forte pendenza, passiamo accanto a una decina di arnie e ridiscendiamo verso valle. Di fronte a noi una distesa di colline, accarezzate dal vento che smuove i campi. Onde d’aria e piante.

Poco più avanti, si allunga una terrazza naturale affacciata sulla valle; Massimo la raggiunge correndo. Passa davanti a una fila di arnie, sempre correndo e gesticolando e chiamando a gran voce. Il posto gli piace, vorrebbe mettere lì la sedia.

Giorgio e suo fratello Francesco tacciono. Temono il peggio.
Però non succede nulla, e quando Massimo torna da noi esclama: «Quello è il posto!»
Nessuna puntura. Giorgio e Francesco respirano. Oggi le api sono molto calme.

Lo sciame conduce una vita semplice, scandita da ritmi precisi e azioni sempre uguali. Quando il morale della colonia è alto, le api lavorano e sono serene. Quando invece intorno a loro accade qualcosa di inatteso, si agitano e diventano imprevedibili. Allora bisogna fare attenzione.

Davide apre la sedia e dice: «Qui mi sento come a casa».
Poi allunga il braccio indicando un campo di grano e spiega che l’attività di Giorgio è iniziata con la produzione del miele di Stachys.

Lo Stachys officinalis è un’erba spontanea che cresce quasi esclusivamente nella zona di Fabriano. Dopo la trebbiatura del grano, si attende la pioggia di luglio. Lo Stachys cresce tra le stoppie, sapientemente lasciate sul campo. Dal suo nettare, le api creano un miele unico e prezioso. Una produzione di alta qualità, limitata dalla territorialità e dai tempi dei cicli agricoli.

Davide lo assaggia e ne apprezza la cristallizzazione chiara, l’aspetto maculato e il sapore dolce, piacevole al palato. Poi si alza e s’incammina verso le arnie. La sceneggiatura prevede l’incontro con le api.

Davide e Massimo indossano la giacca, i guanti e il casco di protezione, poi seguono Giorgio dietro le arnie. L’apicoltore sparge po’ di fumo per quietare le api, solleva il coperchio ed estrae un telaio. Io sono dietro di lui, a qualche metro di distanza, senza protezioni. Ma c’è Francesco, accanto a me.
«Guarda, oggi sono calmissime…» mi rassicura a bassa voce.

Mi avvicino ancora di un passo. Il richiamo delle api è irresistibile. Un altro passo, poi due, poi tre. Se allungassi il braccio, potrei toccarle. Invece scatto delle fotografie.
Le api non volano, sono tutte sulle celle. Sembrano ferme, ma sono in continuo movimento. Sono tantissime, una attaccata all’altra. Una massa scura compatta che diventa di colpo dorata appena Davide ruota il telaio in favore della luce.

Siamo entrati nel loro mondo. Il solo osservarle, fa bene allo spirito. Il tempo perde di significato e si dilata nell’infinita successione dei loro movimenti. Un’operosità terapeutica, un dono di serenità.
«In genere, il miele ha una connotazione quasi farmaceutica,» mi dice Giorgio togliendosi il casco, «invece è un alimento con infinite varianti di gusto e di abbinamenti con altri cibi».

Adesso ha quasi 300 arnie, non usa antibiotici e di ogni produzione tiene solo il cuore del miele, eliminando la testa e la coda. Ma c’è di più. Gli studi di agraria, la passione per il vino, l’osservazione attenta della natura gli hanno suggerito un’idea antica e al tempo stesso innovativa: l’affinamento del miele di acacia in barrique.

«Il futuro ha radici profonde,» mi dice Giorgio mentre entriamo in cantina. «Nessuno inventa niente; tutto è trasformazione. Siamo come gli alchimisti, dei trasformatori…».
Penso ancora una volta alla figura dell’agricoltore quando è anche un artigiano e un artista, capace di grandi innovazioni semplicemente trasformando ciò che la natura gli offre.

Dopo anni di sperimentazioni e di tentativi, oggi il miele in barrique di Giorgio è il prodotto di punta dell’azienda. Si produce nel mese di maggio ed è un miele molto fluido, con il profumo intenso del vino cotto.
Davide lo assaggia e si perde nel connubio di legno e miele che sprigiona sentori di cuoio e tabacco, con un retrogusto dolce e pulito. Poi guarda nella macchina da presa e dice: «Giorgio ha messo a punto una procedura che prevede un invecchiamento di nove mesi con quattro diversi passaggi in botti di rovere francesi, come nei distillati. Al termine dei nove mesi, è come se fosse nato un figlio…».

Bene, è quasi tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Ma prima di sederci a tavola, andiamo a Fabriano e voliamo sui monumenti come fanno le api di fiore in fiore. La telecamera si sposta da un campanile a una chiesa e si posa sulla fontana Sturinalto, di fronte al Palazzo del Podestà. Davide immerge la mano nell’acqua e finge di bere, poi s’incammina verso il Duomo. È appena finita la messa; oggi è giorno di Comunioni. Lungo la discesa ripida e lastricata corrono alcune bimbe con le tuniche bianche indosso; le loro madri invece arrancano lente sui ciottoli del corso sforzandosi di rimanere in equilibrio sui tacchi. Si aggrappano alle braccia dei mariti. Qualcuna riconosce Davide e la sua sedia.

«C’è Striscia!» esclamano. Cadere adesso sarebbe sconveniente.
Davide sorride e tira dritto, verso la Cattedrale di San Venanzio. Lo raggiungo mentre Massimo termina le riprese. Il Duomo di Fabriano è un edificio di pregio, di origini incerte ma molto antiche. L’interno presenta una grande navata centrale con una serie di cappelle laterali. La chiesa è grande, eppure raccolta; riccamente decorata, eppure sobria. Mentre Davide mi mostra gli affreschi e gli stucchi, suonano le campane; è tempo di andare. A casa di Giorgio ci aspetta la sua famiglia, con la pasta al forno, i formaggi, gli affettati, il miele…
Venite a Fabriano, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Il gelato alle terme.

Oggi siamo in Emilia-Romagna; il paese è Salsomaggiore Terme, il paesaggio quello delle colline emiliane.
Salsomaggiore mi accoglie sonnolenta; pioviggina, le Terme sono ancora chiuse e le strade quasi deserte. Raggiungo la piazza principale, quella dedicata al popolo, e cerco l’insegna della gelateria di Corrado.

Un piccolo mondo, davvero molto piccolo. Il laboratorio dove la sua abilità artigiana riesce a trasformare qualsiasi cibo in gelato è una stanza non più grande di tre metri per due. Un paio di macchine con il cestello verticale, un tavolo da lavoro, un lavello, qualche ripiano e poi lui, una persona alta e asciutta, sola nel suo ambiente naturale, quello che negli anni si è cucito addosso.

Corrado si muove nel suo spazio come un astronauta in un modulo spaziale. Minime torsioni del busto, rapidi slanci delle braccia, agili prese della mani; ogni cosa ha un suo posto e lui trova tutto a occhi chiusi. Finito il lavoro, subito la pulizia; rimettere in ordine per poi fare altro gelato, trasformare altri cibi.

“Alle volte mi piacerebbe avere più spazio,” mi confida senza interrompere l’attività, “però farei un gelato diverso…”
“In che senso, diverso?”
“Non so, è difficile da spiegare… Penserei in maniera diversa…”
Il territorio plasma la testa della gente e cambia il loro modo di vedere il mondo. Anche al chiuso, in pochi metri quadrati.

Intanto Corrado inizia a grattugiare il parmigiano, poi tagliuzza i fiori di sambuco, versa del vino rosso di Busseto. Tutte materie prime della sua terra che stanno per diventare gelato. In diretta, davanti ai nostri occhi. È una produzione quasi istantanea, tutta qualità e senza aria aggiunta.

Il primo gusto della sua carriera di mastro gelataio è stato la zucca; adesso nel suo repertorio propone specialità come il gelato alle cipolle, al pesce, al gorgonzola, alle castagne. Li chiamano gelati gastronomici, ma per Corrado sono solo gelati buoni e sani.

“Il gelato si fa con tutto,” mi confida mentre pulisce con cura il piano di lavoro, “basta conoscere le regole del bilanciamento dei grassi, degli zuccheri, dei solidi, dei liquidi…”

Penso a chi dice che fare il gelato sia facile. Davide fa capolino e Corrado gli porge un cucchiaino di mandorlato,suggerendogli di masticare bene i frutti.

Torno ai miei pensieri sui gelati facili, quelli dei franchising e dei semilavorati industriali. Oli vegetali di bassa qualità e scarti animali, gusti di sintesi e tanta aria. Corrado cammina su un’altra strada. Insieme a lui una manciata di maestri italiani, dalla Sicilia al Piemonte. Ci sono, ma servono nuove leve, giovani di stampo antico che non si squaglino al primo sole.

Corrado aveva iniziato da bambino, aiutando la madre che vendeva il latte ma aveva la passione per il gelato. Le amiche che lavoravano nei bar di Salsomaggiore le avevano dato le prime ricette e con quelle aveva cominciato a fare degli esperimenti. Il figlio l’aiutava a mescolare il latte sul fuoco perché non si attaccasse. Poi ha proseguito da solo, studiando sui testi di Luca Caviezel e lavorando al fianco di altri artisti artigiani.

Intanto è pronto il gelato al sambuco. Davide entra di nuovo nel laboratorio, ma non c’è posto per tutto il corpo. Allunga il collo e assaggia il nuovo gusto prima che sia offerto al pubblico. È felice. Quando la testa di Davide sparisce, Corrado torna al lavoro. Prende dal frigo un contenitore di uova fresche e le sguscia a una a una per fare la pastorizzata. Mi spiega che nei suoi gelati non usa mai emulsionanti, solo uova fresche.

“Non dico che gli emulsionanti facciano male,” ammette, “però appesantiscono lo stomaco.”
“Con gli emulsionanti il gelato rimane bello per tre giorni,” aggiunge, “ma io non vendo mai un prodotto di tre giorni!”

Corrado è convinto che il gelato debba sempre lasciare una sensazione di leggerezza. Mi tornano alla mente le lezioni americane di Calvino: leggerezza, esattezza, coerenza..
Cibo e letteratura s’incontrano nelle gelaterie delle città invisibili.

Quando usciamo dal piccolo regno di Corrado, entriamo nel grande mondo delle Terme Berzieri. Un luogo che sembra scaturito dalle menti visionarie di Marco Polo e Kublai Khan.
Venendo dalla piazza del popolo, non le noto subito. Chiedo l’indicazione a una giovane coppia di ragazzi che devono aver marinato la scuola.

“Scusate, dove sono le Terme?”
“Quali?”
“Quelle grandi…”
Il ragazzo solleva stancamente un dito e indica una casa alle mie spalle.
“Là dietro ci sono le Terme Berzieri,” dice con una parlata lenta, in linea con il paesaggio. Mi volto e dietro l’abitazione scorgo l’apice dell’edificio, lavorato come un mobile orientale intarsiato d’oro.

Raggiungo Massimo e Davide di fronte all’ingresso principale. Davanti a noi teste di animali, fanciulle in perizoma, leoni azzurri posti a difesa dell’insegna; è un mondo complesso, fatto di stanze segrete che si svelano solo a chi ha tempo di osservare. Nel sogno Liberty e Art Decò aleggiano aromi orientali, la passione dell’architetto Chini per l’oriente magico del Siam.

Entriamo e Davide si accomoda su una rampa dello scalone monumentale. Dice di sentirsi come a casa mentre si posiziona di fronte a un’immensa specchiera.
Non sarà troppo?
Massimo ha un fremito d’emozione. Lo specchio che riflette ornamenti di marmo, affreschi e stucchi è una specie di luna park delle riprese. Gli basta spostare di pochi centimetri la macchina da presa per inquadrare nuovi mondi, architetture ardite come labirinti mentali.

Ci sono pochi clienti. Ogni tanto qualche anziana coppia avvolta in morbide spugne bianche attraversa il campo; transitano da un bagno termale a una sala massaggi. Difficile pensare a un luogo come questo in un paese in crisi come il nostro.

“Teniamo duro,” mi confida un impiegato. Mi spiega che il turismo internazionale frequenta le spa e si muove solo per il fine settimana, mentre le Terme di Salsomaggiore sono strutture curative, nate per lunghi soggiorni di anziani.

“Teniamo duro,” ripete mentre torniamo all’aperto e guardiamo gli alberghi tutt’intorno. Finestre chiuse come palpebre abbassate. Questi erano i luoghi dell’elite europea tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, quando si scendeva dall’Orient Express e ci si tuffava nelle acque termali.

Torniamo da Corrado per il gran finale. Ci apprestiamo a compiere un salto nel tempo; aprire uno squarcio di futuro per vedere il passato, quando il gelato si faceva senza macchine e senza elettricità, con il bigoncio e la salamoia di acqua e sale.

Il trucco è l’azoto liquido, che un tradizionalista accanito ma intelligente e curioso come Corrado usa per raffreddare in tempi brevissimi e ottenere un gelato dalla struttura delicatissima.

Mentre lui scompare nel fumo e agita la frusta nella pentola, Davide guarda nella macchina da presa e dice: “Sembra una magia: una nuvola bianca e in pochi secondi Corrado crea un gelato morbidissimo, con cristalli di ghiaccio 700 volte più piccoli!”

Bene, ora è tempo di andare. Prima però bisogna tentare di capire il territorio e vedere dall’alto la vallata che un tempo era mare. Il verde dei boschi e dei prati, in origine era blu. Ecco perché le acque di Salsomaggiore sono così ricche di sali.
Mentre seguiamo il motorino di Corrado, Davide mi ricorda che il nome della città deriva proprio dal latino Salso Maiore.

Dopo una manciata di curve raggiungiamo una distesa di prati. Il paesaggio sembra incontaminato, ma Corrado mi mette in guardia e dice che un tempo non era così: “Il nostro pericolo è l’inquinamento edilizio…”

Parla a bassa voce, come se non volesse spaventare i fiori di sambuco, gli alberi e l’erba di questo angolo di mondo, piccolo e prezioso come il suo laboratorio. Davide chiude la sedia e s’incammina verso altri paesi e altri paesaggi.

Noi lo perdiamo sullo sfondo della collina. Sentiamo solo l’eco delle sue parole: “Venite a Salsomaggiore Terme, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!”

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La fattoria di Noè.

Oggi siamo in Lombardia; il paese è Valle Salimbene, il paesaggio quello della Bassa Padana.
La giornata è sospesa, in bilico tra pioggia e sole. Il cielo è coperto, l’aria umida. Penso all’estate da queste parti, quando la maglietta si appiccica al corpo tormentato dalle zanzare.

Daniele mi guarda con aria di sufficienza. Oggi è lui la nostra guida; conosce bene la zona e insegna alla Facoltà di Veterinaria, ma è il professore meno accademico che si possa immaginare.
«Qui non ci sono zanzare», mi rivela scandendo le parole. Poi, indicando un punto lontano, aggiunge: «Siamo più bassi del Ticino…».

Non so se credergli, lui è uno di collina. Però annuisco e penso alle truppe di Annibale che attraversavano questa regione. Uomini di tutte le razze che viaggiavano con le loro case; un popolo intero in assetto da combattimento che nel frattempo costruiva strade, fondava città, deviava i corsi dei fiumi e stendeva ponti come fossero panni al sole.

Raggiungiamo il greto del Po, ma anche del Ticino. Questo è il punto esatto della loro confluenza. Acqua in primo piano e pioppi sullo sfondo; in mezzo un continuo mutare di scenario, dall’acquitrino paludoso alla macchia boschiva.

Davide cammina lungo la riva, la sedia in spalla e l’occhio puntato indietro nel tempo. Forse anche lui pensa ad Annibale mentre guarda la macchina da presa e dice: «Il Po e il Ticino erano le autostrade dell’antichità. Attraversate per secoli da genti, merci e animali…».

Entriamo nel vivo della puntata. A due passi dal grande fiume, una manciata di metri fuori Pavia, c’è una specie di Arca a forma di fattoria. Un edificio a tipica vocazione agricola della fine del Cinquecento, rimesso in sesto nell’Ottocento. Una targa in pietra, posta sopra l’ingresso della stalla, riporta la data come fosse quella di costruzione.

Daniele mi mostra però i mattoni sul retro dell’edificio. Sono di un rosso più intenso e vivo degli altri. Più recenti, verrebbe da pensare a noi di città che vediamo i manifesti pubblicitari sbiancare dopo un paio di settimane. «Più antichi – afferma lui – molto più antichi».
Li facevano con una sabbia diversa, ma soprattutto li cuocevano nei forni a legna. Poi è venuto il carbone.

Oggi questa fattoria è la casa di Luigi, il protagonista della puntata, e delle sue trecento vacche. Il numero mi ricorda i trecento di Leonida contro le armate di Serse. Scaccio il ricordo perché quei valorosi erano tutti morti, pur essendo giovani e forti, mentre queste vacche sono sopravvissute all’estinzione.

Davide si siede in mezzo agli animali, dove c’è anche una capretta che ha appena partorito. Lui l’accarezza e la invita a restare mentre sullo sfondo due maschi si incornano, annunciando che la femmina è già pronta per un altro accoppiamento.

«Qui mi sento come a casa», dice Davide, e non è difficile credergli. È rilassato e convincente, dice cose in cui crede.
Parla di Luigi – Luigino per gli amici – un allevatore che, spinto da una passione infinita, si è dedicato alla difesa delle biodiversità bovine italiane.

«Pensate che il nome stesso Italia deriva da Viteliù, terra dei vitelli!»
Il termine non è latino, ma osco. Col tempo la lettera iniziale è sparita, un paio d’altre si sono modificate ed ecco il nome del nostro paese. La terra dei vitelli, appunto, e se c’erano loro, c’erano anche le loro madri.

Daniele sale in cattedra e mi spiega sottovoce che i bovini che girano oggi nel mondo sono quasi tutti italiani. Siamo, fin dall’antichità, un popolo di emigranti.
Nella fattoria di Luigino vivono capi di oltre venti razze diverse!
In questi anni ha salvato dall’estinzione la Varzese, la razza autoctona lombarda, che era già qui al seguito di Annibale.

Di nuovo il mito del comandante, l’africano più greco, romano e barbaro della Storia. Capace di imparare da tutti per poi insegnare a tutti. Una prodigiosa macchina scenica: l’incarnazione stessa della figura dell’eroe.
Ma anche Luigino, a modo suo, è un eroe. Non un comandante, ma un combattente. Per amore degli animali ha cominciato a salvare razze bovine. Nei suoi recinti convivono la Pontremolese, la Burlina, la Savoiarda, la Cabannina…

Chiama le sue vacche per nome e le alimenta a foraggio, come vuole Madre Natura. Hanno l’aria sana ma sono tutte magre, con la pelle del posteriore tesa sulle ossa affioranti.
Luigino e Daniele mi spiegano allora due o tre cose fondamentali.
Noi italiani abbiamo sempre usato il latte per fare formaggio. È solo dopo la guerra che abbiamo cominciato a berlo come gli americani. Così abbiamo inventato le fabbriche del latte, mentre nei paesi del Nord si è affermato il modello di fattoria domestica. Nelle loro case c’è sempre una vacca da mungere…

Davide assume una posizione comoda sulla sedia, mentre Luigino accarezza una Varzese: «A chi dice che queste razze nostrane, alimentate senza forzature proteiche né integratori vitaminici fanno meno latte delle Frisone, Luigino risponde con la matematica: una Cabannina, una Pontremolese o una Burlina producono solo 40 quintali di latte all’anno, ma vivono fino a vent’anni e mettono al mondo anche 15 vitelli. Non si ammalano mai e il loro cibo costa poco!»

Daniele gongola. Sottovoce mi ricorda che le Frisone producono anche 120 quintali di latte all’anno, ma sono iperselezionate: costano un patrimonio e vivono due o tre anni, dopo aver generato un solo vitello. A conti fatti, i conti non tornano. Produrre tanto e male, costa di più.

La mucca di famiglia non è un sogno idealistico, ma un modello concreto su cui ragionare. Un futuro possibile, dignitoso e sostenibile, già scritto nel nostro passato. Siamo chiamati all’innovazione, intesa nel senso etimologico del termine: “novare”, rendere nuovo l’esistente.
Nessuno crea dal niente, nemmeno Annibale e Noè.

Pomeriggio inoltrato. Sul pianale del trattore, opportunamente sollevato ad altezza tavolo, abbiamo steso una tovaglia bianca pulita, poggiato la pagnotta e disposto i salami di Daniele. Ha staccato alcune stalattiti dalla volta della sua cantina e adesso le taglia con orgoglio. Fette grandi nei salami piccoli, fette piccole nei salami grandi.

Il vino è del piacentino. Basta poco per fare felici gli uomini. In realtà questo poco è tanto: tutto ciò che serve.

Nel frattempo il sole si è disteso sulla Bassa e comincia a fare caldo. La stalla, dove questa mattina c’era un bel tepore, adesso è fresca. Le mucche sonnecchiano mentre noi ci apprestiamo a girare il momento forte della puntata. Davide ripassa la battuta, ma non serve. È venuto qui per dire ciò che sta per dire. Massimo controlla la messa a fuoco, verifica che l’audio non sganci. Motore, azione…

Davide la prende alla lontana, come ogni buon duellante che finge di maneggiare la spada peggio dell’avversario: «Luigino vive e lavora così perché è convinto che il nostro patrimonio zootecnico sia unico al mondo…».
Poi gira intorno al nemico e piomba su di lui come Annibale che scendeva dalle Alpi, attraversava l’Italia e dilagava sulle rive del Volturno: «Il problema è che anche Luigino è unico al mondo: dopo di lui non c’è nessuno! Non ci sono giovani che proseguano la sua attività e non ci sono istituzioni interessate a salvare una fattoria come questa!»

Davide si alza e si allontana, convinto che questa sia l’Italia della qualità da salvare. Noi lo seguiamo; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Ma nella fattoria di Luigino torneremo presto, per conoscere meglio le sue vacche e vedere se nel frattempo qualcuno si è interessato al loro futuro.
Venite nella Bassa Padana, mi raccomando; ma non come turisti, come ospiti!

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L’Arca a forma di fattoria.

Oggi siamo in Lombardia, alla confluenza del Po e del Ticino, le autostrade dell’antichità.
Il paese è Valle Salimbene, il paesaggio quello della Bassa Padana.

Questa nuova puntata di “Paesi, paesaggi” è dedicata a Luigino e alla sua fattoria, dove alleva circa trecento vacche da latte di oltre venti razze diverse!

Molte le ha salvate dal’estinzione. Ad esempio la Varzese, l’unica razza autoctona lombarda che era già qui ai tempi di Annibale, poi la Pontremolese, che trainava i marmi di Michelangelo, oppure la Cabannina, tipica vacca ligure dei sentieri impervi della Val d’Aveto.

Oggi però è la fattoria di Luigino a essere a rischio di estinzione.
Non ci sono giovani che vogliano proseguire la sua attività e non ci sono istituzioni interessate a tenere in vita questa specie di Arca che è anche un laboratorio permanente delle biodiversità bovine italiane.

Eppure siamo il paese dei vitelli. Il nome Italia deriva infatti dall’osco “viteliù”, terra dei vitelli, appunto.
E se c’erano i vitelli, c’erano anche le loro madri.

La quasi totalità dei bovini che pascolano in giro per il mondo sono italiani.

Siamo da sempre un popolo di emigranti…

 

Luigino munge una Varzese

 

Uno scorcio dell’Arca di Luigino e delle sue tante razze bovine

 

Paesaggio tipico della Bassa Pavese, con il fieno in attesa delle vacche.

 

Farina e letteratura.

Paesi, paesaggi mi ha portato nella terra di Fenoglio e Pavese, tra i ricordi del “partigiano Johnny” e i paesaggi della “Malora”.

A Cossano Belbo, circondati dai vigneti del Moscato d’Asti e i noccioleti delle Langhe, abbiamo visitato un mulino che macina ancora a pietra naturale cereali biologici a chilometro “doppio zero” (vengono dall’Alta Langa, dove uva e nocciole stentano a maturare).

E così, ai romanzi del Novecento si sono aggiunte anche le favole dell’Ottocento. I paesaggi letterari del dopoguerra si sono popolati di gatti con gli stivali, lasciati in eredità da vecchi mugnai…

La puntata è infatti dedicata a un’intera famiglia di mugnai, dal nonno Felice ai giovani Fausto, Fulvio e Federico, passando per la generazione di mezzo di Flavio e Ferdinando.

I loro nomi cominciano tutti per effe, come farina…

In onda su Striscia la notizia l’11 aprile 2014.
Questo invece il link per leggere il racconto su mentelocale.

 

Il mulino a pietra naturale

 

Il mulino al lavoro

 

Il nonno Felice e i suoi allievi martellano la pietra naturale

 

Tramonto sui vigneti del moscato d’Asti e i noccioleti delle Langhe

 

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