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I formaggi in miniera.

Oggi siamo in Friuli Venezia-Giulia. Il paese è Socchieve; il paesaggio: la Carnia. Le coordinate geografiche sono 46°23’ Nord e 12°50’ Est.
Arrivo all’uscita Carnia-Tolmezzo che è notte fonda. Decido di fermarmi qui, in un albergo che spunta come un fungo subito dopo il casello autostradale. Altrove sarebbe un motel. Però la stanza è pulita e silenziosa, il materasso rigido come un sasso. Sarà una notte serena. Un unico pensiero mi assilla e mi tiene sveglio: nella sceneggiatura ho scritto che «in Carnia non si viene, si entra». Una frase breve; poche parole che racchiudono con esattezza lo spirito di questo luogo remoto e selvaggio. Le montagne della Carnia sono ripide come muri e tagliate da gole strette e profonde come fiordi norvegesi. Mi addormento nel timore che non sia così facile trovare queste pareti verticali e queste gole strette; forse impiegheremo ore per filmare ciò che ho scritto in qualche secondo.

Al mattino la sveglia suona presto: fuori è ancora buio. Il tempo di una doccia e la luce non si è ancora distesa sul paesaggio che ricordavo piatto e autostradale.
Apro la finestra ed è ancora buio. Non proprio buio: scuro, piuttosto. Quel tipo di penombra che si crea – anche in pieno giorno – di fronte a un muro di roccia verticale.
In Carnia non si viene, si entra!

L’ingresso dell’albergo è affacciato sulla piana del Tagliamento, mentre il retro è appoggiato a una montagna aspra, con una scarpata che frana direttamente nella mia camera. L’inizio della sceneggiatura potremmo girarlo anche qui, senza andare troppo lontano. Invece salgo in macchina e mi dirigo verso Socchieve, dove mi aspetta Sante, il casaro protagonista della puntata.

Man mano che si sale, il paesaggio diventa ruvido come si conviene a una terra di frontiera. Una parete a destra, una parete a sinistra, la gola al centro. Come una porta. Per entrare, bisogna aprirla.
In Carnia non si viene, si entra.

Quando arrivo in paese, Sante è lì che mi aspetta a lato della strada. Non lo riconosco subito, per via dell’improbabile cappello che ha in testa e che terrà per tutte le riprese. Me l’hanno presentato come una specie di artista dei formaggi, un giovane di talento che sta aprendo una nuova strada al caprino in Italia.

Davide e gli altri sono a Sauris a filmare alcune scene di paesaggio. Sante e io ne approfittiamo per conoscerci meglio. Beviamo un caffè a casa sua. A un certo punto, tira fuori dal frigorifero una ciotola di panna. L’ha appena fatta. Ne metto la punta di un cucchiaio nel caffè, poi ne mangio un cucchiaio intero e un altro ancora; il resto lo lascio a Davide: apprezzerà.

La panna di Sante è come un biglietto da visita, l’accordo svisato di un grande chitarrista all’inizio del concerto. Poche note buttate lì: si ascoltano e non si dimenticano.
In attesa degli altri, Sante mi accompagna con il furgone in montagna, per mostrarmi alcuni luoghi dove potremmo mettere la sedia di Davide. Non c’è neve, per fortuna, ma in compenso c’è da attraversare un ponte sul Tagliamento largo come una macchina. Quindi stretto, molto stretto! Se ci fermassimo per un guasto, dovremmo scendere dai finestrini.

Il Tagliamento è il più importante dei fiumi alpini: un dedalo di canali che s’intrecciano lungo una distesa di ghiaia. Dall’acqua affiorano isole ricche di vegetazione che sembrano frammenti di boschi staccati dalla terraferma e naufragati nel corso del fiume. Un paesaggio lunare, con una massa di sassi rotolati tra l’acqua e la montagna. I campi e i sentieri sono delimitati da muretti a secco che i vecchi costruivano a mano, con i sassi del fiume. Sante me ne mostra alcuni – perfetti – che devono avere centinaia di anni; poi me ne indica altri, appena fatti e già in parte franati. Le pietre sono le stesse. È la mano dell’uomo che nel tempo deve essere cambiata.

Seguiamo una strada sterrata ripida che giunge nei pressi di un’ampia radura. Da qui si domina la valle e il borgo di Socchieve, con la suggestiva Pieve di Castoia, una chiesa dalle origini molto antiche e poi ricostruita nel ‘700 in seguito a un terremoto.
Nel frattempo, Davide e Massimo sono scesi da Sauris e ci aspettano a casa di Sante. Probabilmente sono davanti alla ciotola di panna fresca. Ripercorriamo il ponte da brivido sul Tagliamento e ritorniamo a Socchieve, nel laboratorio del casaro.

Sante lavora il latte crudo delle sue capre di razza Sarda e delle vacche Pezzate Rosse Italiane. Mi spiega che le capre Sarde sono molto rustiche e selvatiche. Devono essere munte con una tecnica particolare, praticamente catturandole ogni volta e montando a cavalcioni dell’animale. Abituate ai climi aridi, producono poco latte di altissima qualità, molto gustoso, ricco di proteine e acidi grassi.

Sante scarica il latte dal furgone e lo porta nel laboratorio. Davide si avvicina alla vasca di lavorazione, guarda nella macchina da presa e spiega che il latte crudo è un alimento vivo, diverso ogni giorno: per lavorarlo bisogna prima capirlo.

Come ogni artigiano del gusto, Sante rispetta la tradizione ma cerca sempre di mettere qualcosa di sé in ciò che fa. Adesso sta creando la sua ricotta, un prodotto dalla cremosità eccezionale. Mi domando quale sia il segreto di tanta morbidezza.
– La temperatura.
– La temperatura?
– Tutti lavorano il latte a temperature troppo alte, – dice Sante. – Per me è un errore scaldarlo così…

Capisco che per lui scaldare il latte sia un po’ come ucciderlo, sciogliere quella parte viva, morbida e cremosa che sarà l’anima della sua ricotta. Davide e io la gustiamo come due bambini, golosamente nascosti su una catasta di legna.
Ma intanto, il casaro sta versando nelle forme un caprino a crosta lavata. Il segreto di questo formaggio è invece la stagionatura.

Carichiamo le forme sul furgone e saliamo di nuovo verso i monti. Destinazione Tarvisio, Cave del Predil. Arriviamo con il buio. Le cave dismesse sono chiuse, ma il guardiano viene ad aprirci la sbarra. Comincia a piovere. I fari delle macchine illuminano un paesaggio surreale: sembra la scena di un film di spionaggio, dove i buoni affrontano i cattivi e trattano lo scambio di un ostaggio tenuto per mesi nelle viscere della terra.

Noi, che siamo i buoni, accendiamo le torce e nelle viscere della terra portiamo il formaggio a stagionare. Qui resterà alcuni mesi, con un’umidità costante del 90%, temperatura ideale, aria fine e assenza di acari. Trovo che l’idea di usare una miniera per affinare il formaggio sia geniale. Mi domando come sia venuto in mente a Sante e quando glielo chiedo, lui mi parla diun fortino della Seconda guerra mondiale con stanze sotterranee che sembrano cantine. Vorrebbe farci degli esperimenti. Sta chiedendo i permessi…

Appendiamo alle pareti della grotta le ceste dei caprini freschi e prendiamo quelli già stagionati. Sante li prepara in appositi contenitori. Una piccola parte la prendiamo noi che questa sera siamo ospiti nella cucina più bella del Friuli, a Corno di Rosazzo. Siamo ospiti di Paolo e Walter, due grandi personaggi della regione. Ma questa è un’altra storia, un’altra puntata della nostra trasmissione, dove la Ribolla gialla diventa spumante.
Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite nella Carnia, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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In punta di coltello.

Oggi siamo in Umbria. Il paese è Norcia, il paesaggio quello del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Le coordinate geografiche sono 42°47’ Nord e 13°5’ Est.
Il viaggio comincia a Milano, nel primo pomeriggio. Troppo tardi: la luce ci accompagna fino a Bologna, poi il sole tramonta quando siamo nei pressi di Cesena. Inizia lo spettacolo, ma è buio pesto.

L’Appennino dell’Italia centrale è proprio uno spettacolo, anche illuminato dai fari di una macchina. Davide e io ci lasciamo avvolgere dall’atmosfera mistica dei luoghi e da qualche ricordo personale.
Iniziamo a Sansepolcro, dove nel 1827 Giovanni Buitoni rilevò una panetteria e diede vita a quella che sarebbe diventata una delle più grandi aziende alimentari italiane. Ho scritto un libro sulla famiglia Buitoni e sono molto legato a questa storia: quasi due secoli di vita e cinque generazioni di imprenditori, alcuni dei quali geni assoluti.

Poi Città di Castello, la terra di Burri, un artista che entrambi amiamo e che indirettamente abbiamo avuto modo di avvicinare. Conosciamo bene Antonio Sapone, che negli anni ottanta è stato il grande gallerista di Burri; qualche anno fa, inoltre, dovevamo realizzare uno spettacolo a Gibellina. Non se ne fece niente, ma conserviamo il ricordo del sopralluogo sul cretto, camminando tra le vie della città distrutta, come un momento prezioso, di rara intensità.

Guidiamo piano, lasciando che i pensieri affiorino dalla notte, illuminati dai fari come fossero dei passanti. Un’altra manciata di chilometri e siamo a Perugia, dove nel 1906 i Buitoni fondarono la Perugina. Dalla pasta ai cioccolatini, da Sansepolcro a Perugia: il pendolo della famiglia oscillava tra questi due poli, geografici e alimentari. Tornano alla mente frammenti del libro, dettagli di fotografie, le vicende di una famiglia, di un luogo, di un paese.

Continuiamo a guidare e i pensieri diventano sempre più lievi, sollevati dalla mano forte dei santi. Assisi è a pochi passi da Perugia. Scorre alla nostra sinistra illuminata a festa. Sarà che è quasi Natale, sarà che la notte è limpida, ma le luci della basilica l’avvicinano tanto che ci pare di toccarla. 
Poi la grande curva di Spoleto
 e dall’alto si avverte la presenza di santa Rita. Il borgo di Cascia non si vede, ma è lassù, tra i monti immersi nella notte. Ci siamo quasi, san Benedetto è ormai davanti a noi.

A Norcia, nel monastero benedettino, i monaci producono una birra speciale secondo le antiche tradizioni monastiche. Avremmo voluto dedicare una puntata di Paesi, paesaggi a questo prodotto e alla sua comunità. Un’altra volta, magari. Bisognerà prima convincere i padri a infrangere la regola…

L’indomani mattina, tutto ciò che avevamo immaginato diventa reale. Saliamo all’alba sui monti Sibillini e filmiamo luoghi affascinanti, resi ancora più suggestivi dalla luce viva del sole e dalla nebbia che si stende a mezz’altezza, come una coperta. In questi boschi da romitaggio, in queste rocce da penitenza, la natura esplode quasi rabbiosa. San Francesco parlava con gli animali, dice la tradizione. Qui era possibile.

Lasciamo la piana di Castelluccio, attraversata dal galoppo di cavalli selvaggi e torniamo a Norcia, dove ci aspetta Vittorio, il protagonista della puntata.
Vittorio è un grande norcino, che ha imparato dal nonno l’arte della lavorazione del suino quando era bambino, poi l’ha trasferita ai figli e oggi la tradizione di famiglia continua.

Il laboratorio artigianale di qualche anno fa è diventato una struttura più grande, dove però è rimasta intatta la manualità delle lavorazioni, dalla scelta delle materie prime alla vendita diretta nel negozio, a contatto con la clientela. Da Vittorio è come essere in un buon ristorante, dove la cucina invece di rimanere nascosta viene messa in evidenza. Il punto vendita è un trionfo di salumi: addirittura impossibile trovare un centimetro quadrato senza prosciutti, salsicce, salami, capocolli e mille altre specialità. Dietro il banco, un grande vetro e il laboratorio: uno spazio bianco con un tavolo da lavoro al centro. È qui che le carni arrivano fresche tutti i giorni da allevamenti selezionati e vengono tagliate, tritate, insaporite, insaccate e infine stagionate. Niente additivi, niente coloranti, niente addensanti: solo pepe, sale e aromi naturali.

Tutte le lavorazioni sono in punta di coltello. Davide indossa la parannanza e attraversa il laboratorio con passo deciso. Si posiziona accanto a Vittorio mentre il figlio, di fronte a lui, affila i coltelli. Basta il gesto davanti alla telecamera per dare il senso del suo lavoro. L’abilità della mano nell’eseguire un movimento che ripete ogni giorno: decine, centinaia, migliaia di volte.

La storia della norcineria è molto antica e ha poco a che fare con il suino e la lavorazione delle sue carni. Inizia nell’Alto Medioevo, quando gli uomini di Norcia svilupparono particolari abilità nell’uso del coltello e di lame affilate come bisturi. Diventarono così dei chirurghi ambulanti: cavadenti, macellatori e castratori. Nel territorio di Norcia non c’erano grandi allevamenti di suini; in genere le famiglie di campagna possedevano un capo che macellavano a gennaio. Naturalmente i norcini lavoravano le carni dei loro maiali con grande abilità, affinando gli insaccati in un territorio ideale, per via del clima rigido invernale e della bassa umidità garantita dalla cinta montuosa che racchiude la valle come fosse il cratere di un vulcano spento.

È solo nel Rinascimento, presso le Signorie, che il consumo di insaccati di maiale diventò una vera e propria moda. Aumentò la domanda e i norcini iniziarono a lavorare per le cucine di corte.
Nacque così la tradizione delle migrazioni stagionali, che per secoli ha portato i norcini e i loro coltelli a lavorare a Roma, Livorno, Pisa, Firenze. Anche Vittorio ha fatto tante “stagioni” fuori dalle mura di san Benedetto, e come lui molti norcini della sua età.

Nel pomeriggio andiamo in uno dei rari allevamenti di suini del territorio di Norcia, soprattutto oggi che i monti della Sibilla sono diventati Parco Nazionale. Registriamo alcune scene con Davide e la sua sedia. Il luogo è selvaggio e incontaminato, gli animali vivono allo stato brado e sono liberi di muoversi e nutrirsi con ciò che trovano nel bosco. Trecento capi abitano poco più di quattrocento ettari di montagna: una densità ottimale. Davide recita circondato da piccoli gruppi di maiali incuriositi. Usiamo del mangime da conigli per cercare di attirarli, ma loro non se ne interessano: nemmeno sanno cosa sia il mangime!

Torniamo da Vittorio e accade qualcosa di singolare. In un angolo del negozio c’è una televisione accesa.
Sta trasmettendo La terra vista dall’alto, di Yann Arthus-Bertrand. Sul video scorrono le immagini di un allevamento intensivo di maiali: sono scene aberranti, impossibili da commentare, con animali ingabbiati che vivono letteralmente l’uno sull’altro. Ai cuccioli vengono tagliati i denti e la coda subito dopo la nascita, per evitare che possano mordersi e mangiarsi.
Yann Arthus-Bertrand è un eccellente documentarista francese, autore di Home, imperdibile film sull’ambiente prodotto nel 2009 da Luc Besson. A chiunque abbia 95’ di tempo, suggerisco di andare su You Tube, digitare Home e mettersi comodo. Avrà da lustrarsi gli occhi.

Spegniamo la televisione e scendiamo in cantina, per completare le riprese con la stagionatura dei salumi. Anche questa è l’arte della norcineria: saper leggere il tempo e regolare con sapienza l’aria, la temperatura, l’umidità e la luce. Anche un gesto semplice come aprire o chiudere una finestra, può essere decisivo per fare un buon salume.

L’ultima scena è proprio quella della finestra, quando è di nuovo buio. Allora riprendo la macchina, la parcheggio davanti alla cantina e accendo i fari che mi avevano portato qui. Creano un effetto di luce che dall’interno pare molto bello. A Norcia, anche la luce di una macchina può assomigliare a quella del sole…
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Norcia, nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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A scuola di potatura.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia. Il paese è Capriva del Friuli in Collio, il paesaggio quello del Collio. Le coordinate geografiche sono 45°56’ Nord e 13°30’ Est.
Sembra un gioco di parole: un viaggio in Friuli, nel Collio, a Capriva del Friuli in Collio. Pare una delle “città invisibili” di Calvino: il nome di un luogo capace di nascondersi tra le pieghe della carta geografica.

Eppure questo luogo esiste ed è un posto magnifico, lento susseguirsi di colline cosparse di liane addomesticate. Una foresta di vigne, come un esercito di piante allineate al fronte. Un paesaggio naturale plasmato dalla mano dell’uomo, che ogni anno pota le sue viti per garantirsi continuità di raccolto e controllo dello sviluppo morfologico.

La viticoltura è la ricchezza di questo lembo d’Italia di frontiera, a un passo dal confine slavo. Quasi un’ossessione. Qui si coltiva da sempre la vite, ma proprio qui è nato – recentemente – un nuovo modo di coltivare la vite.
Anche questo sembra un gioco di parole, e invece è la chiave della nostra puntata: il motivo per cui siamo venuti nel Collio a incontrare Marco e la sua squadra di “preparatori d’uva”.

Insieme a Davide, raggiungiamo la cima del Monte Quarin, subito sopra Cormons. Sotto di noi, centocinquanta chilometri quadrati di terra con meno di ventimila abitanti. Boschi, prati e soprattutto vigneti, accarezzati dalle correnti d’aria calda e umida che salgono dal mare e incontrano i venti freddi che scendono dalle montagne. L’Adriatico da un lato e le Alpi dall’altro; in mezzo, le vigne del Collio. Il regno di Marco, il protagonista della puntata. Marco potrebbe a prima vista sembrare il prodotto naturale di questa terra e della sua monocultura: un agronomo specializzato nella cura della vite.

E invece incarna la figura emblematica dello straniero, l’elemento di discontinuità che mette in crisi le certezze della tradizione. La sua storia è esemplare. Cresciuto in campagna, nella piccola azienda agricola dei nonni, fin da bambino si è appassionato al mondo delle piante. Affiora nuovamente Calvino, questa volta dalle pagine del Barone rampante. Come doveva assomigliare a Cosimo il giovane Marco: giornate intere passate sui rami, ad accarezzare cortecce, scavare radici, raccogliere frutti dopo aver osservato lo sciogliersi della brina e il fiorire delle gemme. Le piante parlano, a chi le sa ascoltare. E Marco, per fare conversazione, le disegnava. Interi fogli riempiti di schizzi di tronchi e rami e radici. Tutto per il piacere di capire: osservare i dettagli e ragionare sulle cose.

Poi, una volta cresciuto, è diventato un agronomo e ha cominciato a interessarsi alle tecniche di potatura, senza smettere di disegnare.
Osservando le viti del Collio, la sua attenzione era stata catturata dalle ferite provocate dalle potature. Non si creda che chiamare “ferite” quei tagli sia un vezzo letterario-ambientalista. Sentite cosa scriveva duemila anni fa nel De re rustica Lucio Giunio Moderato Columella, l’agronomo romano coevo di Cristo. La traduzione è tratta da un manuale d’agricoltura d’inizio Ottocento: Le braccia della vite, rivolte a settentrione, debbono ricevere il meno che si potrà di ferite, specialmente se si potano con i primi freddi, per i quali s’abbrostiscono le cicatrici…

Marco prese alcuni tronchi di viti morte e altri di piante sofferenti, li portò in falegnameria e li sezionò. Eseguì delle vere e proprie autopsie per vedere ciò che si nascondeva all’interno delle piante. Scoprì che dietro le cicatrici, il legno moriva. E che più profondi e ripetuti erano i tagli, maggiori erano le porzioni essiccate.

In altri termini: il viticoltore pota la vite per farla vivere, invece rischia di indebolirla fino a farla morire.
Quello è stato l’inizio di tutto. Me lo immagino, Marco con la sua camicia a quadri come quella del nonno, i disegni sotto il braccio e nella sacca i tronchi di vite sezionati. Le sue autopsie, portate sulle cattedre dei docenti universitari e nelle cantine dei viticoltori.

La sua idea era semplice: mettere a punto una nuova tecnica di potatura che rispettasse le forme delle piante e permettesse di controllarne lo sviluppo senza interrompere il flusso linfatico.
Non erano in molti ad ascoltarlo. Soprattutto i docenti. Per convincerli delle sue idee, Marco doveva innanzitutto convincere se stesso: studiare a fondo la questione, leggere i libri e osservare gli antichi vigneti, per capire le ragioni della loro longevità. Zaino in spalla, per alcuni anni Marco si è dedicato a studiare e a viaggiare. Poi, a poco a poco, anche sperimentare.

Mi parla con molto affetto e gratitudine di Mario Schioppetto, un grande viticoltore del Collio che lo ha incoraggiato a perseverare nel lavoro e che gli ha affidato alcuni filari delle sue vigne. A poco a poco, le fantasie hanno preso forma e sono diventate saperi da condividere. È nata una scuola di potatura che oggi è anche un centro di pensiero, dove prendono forma idee che dalla terra vanno alla scuola e dalla scuola tornano alla terra. Ogni passaggio è un arricchimento culturale, per chi insegna e per chi apprende. L’unica regola è l’apertura mentale: la disponibilità a osservare e a porsi domande.

Pratica e ricerca procedono di pari passi, alimentandosi a vicenda.
– Le piante sono come noi, – dice Marco. – Sono tutte diverse e devono essere trattate in modi diversi. Se non si rispettano queste differenze, si uccidono i vigneti. Si abbassa la qualità delle produzioni e si alzano i costi per il rinnovo degli impianti.

Angelo Gaja è stato uno dei primi viticoltori in Italia a chiamare Marco e i suoi preparatori d’uva. Da allora, la squadra di potatori in camicia a quadri è diventata un punto di riferimento per la viticoltura di qualità in tutta Europa e in molti paesi del mondo. Alcuni tra i più celebri vignaioli francesi, chiamano oggi Marco e i suoi collaboratori a lavorare nelle loro vigne.

Certo, è una grande soddisfazione vedere che il nostro sapere artigiano fa scuola nel mondo, anche in Francia. Ed è curioso osservare che proprio i francesi possedevano già quel sapere e lo avevano smarrito nel tempo. Ucciso dalla modernità, come il ramo di una pianta essiccato da una potatura eccessiva.

In una libreria di Bordeaux, qualche anno fa, Marco aveva infatti scovato un libro del 1921 scritto da René Lafon. Nel testo, l’autore riportava il pensiero di Poussart, un agronomo e viticoltore francese che già nell’Ottocento aveva sviluppato un sistema di potatura basato sull’analisi morfologica delle piante ed eseguito in modo da non interrompere il flusso linfatico per non causare il disseccamento interno.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Lasciamo Marco e i suoi preparatori d’uva nelle vigne di Capriva del Friuli in Collio. Davide sale in macchina e si siede accanto a me. Prende un foglio che aveva tenuto in tasca per tutta la giornata. È un suo appunto tratto dal De re rustica di Columella:
ogni volta che il vignaiolo intraprenderà il lavoro di potatura, tre cose guardi principalmente: la prima, di provvedere più che può al prodotto, la seconda di scegliere subito per l’anno a venire i tralci più prosperosi, la terza…

La voce del mio amico si perde nella notte, mentre le sue parole si confondono con le gocce di pioggia che rimbalzano sui vetri della macchina.
Venite nel Collio, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Dalla terra alla tavola.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Orsara; il paesaggio, la Daunia. Le coordinate geografiche sono 41°16’ Nord e 15°16’ Est.

L’amico Peppe, cuoco, agricoltore e allevatore di Orsara di Puglia, ci aspetta nel suo eremo di Piano Paradiso mentre Davide e io guidiamo lungo la Bari-Napoli.
Dall’autostrada al Paradiso di Peppe la strada è facile, basta non distrarsi: si esce a Candela e si sale verso Nord. Noi, invece, riusciamo ad andare dritti. Arriviamo a Orsara tardi e sbagliamo nuovamente strada. Finiamo nel bosco, persi tra casolari, alberi e stelle che s’insinuano tra i rami. Cominciamo a ridere: una risata lunga e irrefrenabile, liberatoria. Ridiamo e stiamo benissimo: forse siamo davvero in Paradiso.

Le stanze dove passiamo la notte poggiano direttamente sulla cantina di Peppe: un luogo realizzato con grande attenzione all’ambiente e ai materiali del posto. Siamo nelle viscere della Daunia, eppure sembra di essere in America, quel grande mondo dove Peppe ha vissuto e lavorato a lungo prima di tornare a casa per dedicarsi alla cucina della sua terra.

La cantina ha la forma di un lungo corridoio in salita, costruito con le pietre tolte ai campi e oggetti di architettura contadina inseriti nelle pareti come quadri. Appoggiate ai muri, tante bottiglie di Tuccanese, il vitigno autoctono che Peppe coltiva in maniera rigorosamente biologica.

Per iniziare le riprese, l’indomani mattina, lasciamo Piano Paradiso e scendiamo verso valle. La prima tappa è nell’Orto dei Miracoli. Siamo in autunno e la zucca è la signora del campo. Ce ne sono di bellissime, arancioni e tonde come sfere. Non serve neanche disporle, sono già tutte lì, come in attesa di Davide e della sua sedia.

L’orto di Peppe è un’esplosione di colori e profumi. Ci sono cavoli, verze, bietole, broccoli, porri, peperoncini, scorzonera, innumerevoli varietà di erbette e molto altro ancora. È qui che il nostro cuoco agricoltore viene a fare la spesa tutti i giorni.
È proprio qui, ma soprattutto nel bosco, che nascono i suoi piatti: «simple food for intelligent people», come dice lui.

Il bosco è uno scrigno di sapori perduti, spontanei e selvatici. Peppe mi spiega quanto sia importante per lui realizzare una cucina basata soprattutto sulle varietà vegetali spontanee, quelle erbe e fiori che in ogni stagione dell’anno il bosco regala con generosità. Alimenti che nelle sue mani diventano ingredienti preziosi.
Il bosco di Peppe è un luogo lieve e armonioso, dove la natura resta sovrana ma controllata dalla mano dell’uomo. Pensando ai bambini delle scuole, ha realizzato un percorso guidato che si snoda tra le piante e permette di scoprire un patrimonio quasi perduto di profumi e sapori.

Peppe ha una piccola cesta in braccio e un coltellino in mano. Davide lo segue. I due chiacchierano e hanno molto da dirsi. Si chinano spesso a terra, tagliano e mangiano. Mangiano di tutto: cicorielle selvatiche, bietole, biancospini, foglie di lauro che sanno di liquirizia, timo, ginepro. Colgono, sfregano, strappano, schiacciano, annusano e assaggiano. Il vero banchetto è sotto alcuni meli spontanei. Davide gusta i frutti con voracità: mele gelata, limoncella, zuccarina. Io scatto le foto di scena e osservo con attenzione i suoi gesti. Mi pare evidente che l’essere umano sia stato un raccoglitore, molto prima che un coltivatore e un allevatore.

Il viaggio prosegue tra famiglie di funghi che invadono interi spiazzi di prato, piante officinali tra cui la borragine, cui noi in Liguria siamo abituati fin da piccoli: pesto, focaccia e ravioli di borragine. È una pianta dalle infinite proprietà benefiche, ma in cucina ha un caratteristico gusto fresco di cetriolo e anguria. Peppe però ne prende alcune foglie e le sfrega energicamente, poi le mette in bocca e ci invita a fare altrettanto.
– Sanno di mare! – esclama Davide. – Sembra di mangiare ostriche…

Peppe sorride; è un gioco che gli riesce sempre. Lavorando creativamente sulla borragine, ha inventato un piatto che chiama “ostriche di montagna”, con foglie di Borago officinalis fritte e servite come antipasto.

Fatta la spesa, è tempo di tornare in cucina. La prima ricetta sarà proprio una parmigiana di borragine. Peppe mi spiega che si fa sempre confusione parlando di “parmigiana” che è una semplice stratificazione di elementi e che non ha niente a che vedere con i piatti preparati “alla parmigiana”.

Poi un primo a base di cavatelli di grano arso. I cavatelli sono una pasta tipica della Daunia che Peppe impasta al momento. È interessante vederlo “raviolare” dei filoncini di pasta e tagliarli in segmenti di tre misure diverse: da un dito, due dita e tre dita.
– One, two, three, – esclama il cuoco. Un dito se si vuole poco sugo, due per una giusta via di mezzo, tre per raccogliere tanto condimento.

Ma la cosa veramente interessante è la materia prima di questa pasta: il grano arso. Mi viene in mente la storia del Libro di Rut, nell’Antico Testamento, dove si racconta di una giovane moabita che andava a spigolare durante il raccolto per procurarsi da mangiare. Ecco, il grano arso in Puglia era il cibo di quei poveri così poveri che raccoglievano i chicchi tra le stoppie bruciate. Peppe ha recuperato e valorizzato quella tradizione umile, lavorando farina grezza di grano tostato.
Una scuola di vita, oltre che di cucina.

Infine prepariamo una minestra della Daunia, con cicoria, borragine, finocchietto selvatico e marasciuolo, un’erba spontanea tipica del luogo e simile alla rucola.
Gli chiedo le dosi e lui sorride: – Metti quel che serve; basterà…
Taccio e lo guardo lavorare. A occhio, per quattro persone utilizza un chilo di verdure spontanee, poi mezzo chilo di fagioli bianchi, ceci e cicerchie secchi, un po’ di aglio, peperoncino e olio extravergine d’oliva.

Ci sediamo all’aperto e aspettiamo Peppe. I cuochi come lui stanno poco in cucina: come i maestri di bottega sono circondati da allievi di talento. Infatti, dopo un po’, ci raggiunge con una bottiglia di un bianco frizzante prodotto da un gruppo di giovani del posto. Il vino è buono e le chiacchiere si levano spontanee come bollicine, poi a un tratto Peppe si alza di scatto e corre verso la cucina.
– Ho la minestra sul fuoco! – esclama sparendo all’interno del ristorante.
Forse la nostra minestra della Daunia la sta cucinando proprio lui!

Dopo qualche minuto di attesa ricompare con la pentola in mano. È la sua zuppa, direttamente dalla terra alla tavola. Ne è evidentemente orgoglioso.
L’assaggio e trovo che sia la migliore minestra che abbia mai mangiato.

Marco, il nostro operatore che viene da Savona e di minestre ben cucinate da nonne e mamme se ne intende, dice che è la migliore della sua vita.
Massimo, il regista, è uno di Bastia, svezzato a basilico e olio d’oliva. Anche lui si unisce al coro.
Pietro e Gianluca invece sono lombardi. Forse hanno altri piatti nella memoria, ma anche per loro è la migliore di sempre.

Manca Davide, il gourmet. Lui sembra non ascoltarci; si limita a mangiare con silenzioso raccoglimento. A un tratto solleva la testa, si toglie gli occhiali e dice che è buona, molto buona.
– La migliore della tua vita? – gli domando.
Lui sorride. Non mi risponde, però riprende a mangiare e finisce il piatto.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venire a Orsara di Puglia, sui monti della Daunia; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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La grappa di Gino.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Silvano d’Orba, il paesaggio quello dell’Alto Monferrato. Le coordinate geografiche sono 44°41’ Nord e 8°40’ Est.
Il viaggio è breve, un agile balzo dal mare di Genova all’Appennino di Ovada: una manciata di chilometri per raggiungere Silvano d’Orba, passando dalla cascina biodinamica di Stefano, sulle colline di Tassarolo.

Subito dopo Novi imbocco la statale e dopo pochi minuti vedo il cartello che indica la mia meta. Dice di andare a destra.
Subito sotto un altro cartello, molto più grande del primo. È appoggiato a un palo della luce, tenuto fermo con un giro di fil di ferro. Anche questo indica la meta, però è scritto a mano con lo spray e dice di andare a sinistra.
L’alluvione ha lasciato un segno pesante anche qui. La strada è interrotta da una frana e bisogna fare un giro alternativo, tra vigneti e campi. Intendiamoci, un bel giro. L’acqua della pioggia resta sospesa a mezz’aria, la nebbia sfiora i prati, il cielo si popola di nubi tagliate qua e là da lame di luce.

Chiamo Davide:
– Hai presente I duellanti?
– Il paesaggio finale?
– Proprio quello. Keith Carradine e Harvey Keitel. La vita, la morte e sullo sfondo la campagna. L’idea stessa di campagna in autunno…

Raggiungo Stefano, un uomo che ha un’idea molto precisa della campagna. È un agricoltore a tutto tondo: la sua azienda è un armonioso sistema biodinamico, dove la vigna dialoga con l’orto, la cucina con la stalla.

Due ragazzi caricano sul furgone alcuni sacchi di bucce di Dolcetto. Stefano le ha accuratamente preparate per Luigi – Gino per gli amici – il mastro distillatore protagonista della puntata. La sua grappa è eccezionale, unica in Italia e naturalmente nel mondo.
Per Luigi Veronelli – anche lui Gino per gli amici – la migliore di tutte.

Gino è un artigiano nel senso profondo del termine. Un uomo che trasforma se stesso mentre modifica la materia che lavora. Solo che il distillatore non ha niente in mano. La grappa è un’idea, un soffio d’aria, un sogno che solo i maestri riescono a racchiudere in bottiglia.

La distilleria è la sua bottega, un luogo che si è cucito addosso stagione dopo stagione. La mette in funzione poco più di un mese all’anno – subito dopo la vendemmia – perché le vinacce devono essere lavorate quando sono freschissime. Alla fine di ottobre, Gino spegne il forno e pulisce gli alambicchi. Il resto del tempo è invecchiamento, assaggi, esperimenti, sviluppo di nuove idee.

La sua antica distilleria di Silvano d’Orba risale al 1848, ed era di proprietà della famiglia Lavagna. Assomiglia a una cascina, ma durante la distillazione si trasforma in un’officina meccanica, una fabbrica metallurgica.
Gino l’ha rilevata negli anni Settanta con un suo caro amico, compagno di lavoro e primo maestro distillatore. Lavoravano entrambi in porto, operai dell’Ansaldo. Hanno cominciato a coltivare l’idea di produrre grappa bevendo latte tra un turno e l’altro, per disintossicarsi dalle polveri delle saldature e dai fumi delle vernici. Volevano fare una grappa come nessuno l’aveva mai fatta, come i francesi nemmeno potevano immaginarla.

Il cuore pulsante della distilleria è il forno. Si carica dall’alto e l’interno è inclinato. Gino dice che l’ha progettato un genio. Il fuoco è l’anima della distillazione: tenere la fiamma sempre alta è un errore, così come tenerla sempre bassa. Distillare è come cucinare: la variazione termica è la prima regola.

Il fuoco parla. La sua voce un po’ grida e un po’ sussurra: cattura l’anima delle vinacce e le fa volare nell’alambicco. Spettacolo puro, fatto di profumi intensi, vapori, fuoco e fiamme. Distillare è un mestiere fisico, poco silenzioso e molto filosofico. La metafora di un viaggio, di una materia di scarto che da solida che diventa gassosa: aria che sfiora il cielo, cattura la perfezione e poi torna sulla terra come liquido prezioso.
Un’idea tutta italiana, terra di contadini, artigiani e artisti del gusto. Nata dalla necessità di non buttare via niente, nemmeno le bucce dell’uva.

Gino lavora con una tuta rossa indosso. Affiora da nuvole di vapore e aggancia all’argano un bancale di sacchi di vinacce. Poi sale le scale e rapidamente si porta al piano superiore, sul ponte di comando. Adesso è sopra la caldaia, vicino ai suoi alambicchi discontinui a bagnomaria. Rompe i sacchi e affonda le mani nelle vinacce. Noto i raspi, che Stefano ha accuratamente lasciato perché la massa non sia troppo compatta. Poi chiude i portelli, toglie i fermi e ricomincia il lavoro. Scende le scale e ricontrolla la fiamma. Adesso è bassa. Prende le vinacce esauste e le dispone nella parte superiore del forno. Comincio a capire la ragione del piano inclinato. Man mano che si asciugano, lui le fa scivolare verso la fiamma. Intanto prende dei legni di quercia e ravviva il fuoco. Infine risale, si accuccia accanto agli alambicchi. Si toglie i guanti, comincia a toccare.

Non vedo strumenti in giro: Gino sfiora il collo di cigno, accarezza le serpentine che lavorano racchiuse nel grande cilindro di rame. La distillazione è un processo creativo che si realizza in tempo reale. Ogni istante è determinante. La perfezione si nasconde in una sequenza infinita di gesti e di scelte. Guizzi d’intelligenza.

Dopo la distillazione, la grappa di Gino invecchia quattro anni in botti di acciaio, poi viene filtrata in pieno inverno, perché sia il freddo a renderla trasparente.
Una parte della produzione diventa invece Riserva e invecchia anche trent’anni in botti di rovere. La cantina di Gino è una galleria di legni nobili che hanno affinato grandi vini come il Barbaresco, whisky scozzesi e rum delle Antille.

Ognuna di queste botti è un libro che racchiude un racconto in evoluzione. Gino spilla per noi un po’ di grappa del ’77 e dell’82. Preferisco l’82. Questione di legno: il ’77 abitava la casa di un whisky, mentre l’82 quella di un vino.

Mi domando perché da noi sia tanto di moda il whisky mentre in America e nelle terre di Albione circoli poco la grappa. Un tempo, Luigi Veronelli, scriveva cosìLa grappa, inventata per alleviare la fatica dei contadini e che io chiamo sangue di fuoco, è per noi italiani un vero e proprio “morso di vita”. M’auguro che lo diventi per gli uomini d’ogni parte del mondo.

Bene, ora è tempo di andare: ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Silvano d’Orba, nell’Alto Monferrato; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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La Signora di Conca Casale.

Oggi siamo nel Molise. Il paese è Conca Casale; il paesaggio, l’Alto Volturno. Le coordinate geografiche sono 41°29’ Nord e 14°00’ Est.

Partiamo da Venafro e cominciamo a salire. Un’ascesa morbida, con curve larghe e ben disegnate. A poco a poco, il paesaggio respira e la vista si distende su un territorio ampio. Poi si scollina e si entra in una grande conca naturale. La strada, rettilinea, attraversa senza incertezze un luogo bellissimo e irreale. Sembra di essere nel cratere di un vulcano spento: una specie di valle incantata, scavata nel monte dalla caduta di un meteorite.

Conca Casale è un piccolo borgo dove si è probabilmente fermato il tempo. Raggiungo l’abbeveratoio, leggermente fuori dal paese. Mi guardo intorno, ruotando lentamente su me stesso. L’abbraccio delle montagne rende mite il clima: protegge la valle, ma al tempo stesso la isola e l’allontana dal resto del mondo.

In questo paesaggio bucolico si coltivano da sempre eccellenti lenticchie, fagioli, fave, patate e cicerchie. Ci sono anche oliveti che s’inerpicano a mezza costa su terrazzamenti delimitati da muretti a secco; poi pascoli e allevamenti di bovini e suini. Soprattutto suini; dalle loro carni nasce una Signora molto speciale.
Siamo venuti qui proprio per questo: per conoscere la Signora di Conca Casale.

La piazza del municipio è il cuore del paese. Cerchiamo di capire dove andare quando ci raggiunge un ragazzino in bicicletta.
– Siete quelli della televisione?
Non aspetta nemmeno la risposta e riparte su una ruota. Lo seguiamo mentre costeggia la chiesa e s’infila in un vicolo stretto. La strada prosegue tra due campi di legumi e si restringe nuovamente. Il ragazzo impenna ancora e sparisce nel vicolo. Noi ci fermiamo in prossimità della macelleria di Bruno, il protagonista della puntata. Siamo arrivati.

Ci viene incontro Gaia, sua moglie. Questi due giovani hanno recuperato l’antica tradizione della Signora di Conca Casale e sono oggi gli unici produttori di questo prezioso salume.

Bruno era andato in cantina a regolare la fiamma del camino. Quando ci raggiunge, siamo pronti per iniziare le riprese. Davide si toglie la giacca, indossa un grembiule rosso e si appresta a lavorare la sua prima Signora.

Si comincia con il taglio delle carni, rigorosamente a mano, in punta di coltello. Bruno procede svelto, con precisione; Davide lo segue di pari passo. Lo vedo particolarmente a suo agio nei panni di apprendista norcino. Io m’infilo come un’anguilla negli interstizi tra il banco, le luci e la telecamera per scattare qualche foto di scena. Urto uno stativo, ma per fortuna è già tempo di cambiare inquadratura. La Signora comincia a prendere forma. Sul banco compaiono i vasetti di pepe nero, sale, coriandolo, peperoncino e finocchietto selvatico. Davide e Bruno impastano la carne per poi sminuzzarla e insaccarla.

Esco dal laboratorio e scambio due battute con Gaia. Mi racconta della tradizione della Signora che veniva preparata in casa dalle donne del paese, dopo aver ammazzato il maiale. Ma il nome deriva dal fatto che la Signora era così preziosa che si donava solo ai signori del luogo: al maestro, al notaio, al nobile, al parroco.

La Signora di Conca Casale si distingue per la qualità delle carni, le difficoltà di lavorazione, ma soprattutto le dimensioni, che possono anche raggiungere i cinque chili nel prodotto fresco. La Signora si prepara infatti con il budello cieco del suino, che è molto grande e pieno di tasche, difficili da riempire senza lasciare entrare aria.

Da un intero maiale si ricava una sola Signora. Un regalo davvero prezioso. Si torna in laboratorio. Davide e Bruno sono adesso alle prese proprio con il budello, che è stato accuratamente lavato con scorze di agrumi che daranno alla Signora una piacevole e caratteristica nota di freschezza.

L’insaccatura è la parte più difficile del lavoro. Bruno inizia con la maestria tipica dell’artigiano, Davide lo imita con buona manualità. Deve però riempire meglio le tasche del budello, dare maggiore compattezza all’insaccato. Bruno lo aiuta e a poco a poco le forme della Signora si fanno ben tornite: tutta carne soda, senza aria aggiunta.

La chiusura del sacco è compito del norcino, che prepara il filo e comincia ad annodare il salame creando una catenella. Anche Davide realizza un giro di corda, poi un ultimo nodo, il taglio e la Signora è finalmente pronta per invecchiare.

In cantina, al freddo dell’inverno, diventerà il pregiato salume di Conca Casale. Bruno l’appende al soffitto. La Signora è così grande che è sempre in primo piano: è proprio lei la signora dei salumi.

La fiamma arde nel camino. Bruno toglie un ceppo e mi spiega che la stagionatura si realizza con il freddo e l’aria, il fuoco serve solo ad asciugare l’umidità.

Ultima tappa: la materia prima. A Conca Casale le famiglie allevavano per tradizione i suini Neri abruzzesi, oggi praticamente scomparsi. Bruno ha in mente un progetto di reintroduzione, ma intanto lavora con altri capi che alleva allo stato semibrado, nutrendoli in maniera rigorosamente naturale. Sfarinati, avanzi di cucina, ma soprattutto le ghiande delle querce che circondano l’allevamento.

Registriamo ancora qualche scena, poi andiamo tutti a mangiare nel ristorante che altri due giovani hanno aperto a Conca Casale. Un locale che è anche una scommessa, giocata insieme a Bruno e Gaia. I norcini e i ristoratori cercano di mettere in rete le reciproche capacità per realizzare un locale che funzioni tutto l’anno.

Oggi ci propongono alcuni piatti tipici che valorizzano la Signora e i legumi di Conca Casale. Si comincia con la polenta di mais agostinello, sfilacci di Signora e salsiccia. Il mais agostinello è un grano tipico molisano che matura ad agosto e si presenta con una caratteristica pannocchia rossastra. Si macina a pietra ed è indicato per la polenta e la pizza. È un piatto dai sapori molto decisi ed equilibrati, da gustare rigorosamente con il cucchiaio, come insegna Davide. Perché il cibo bisogna raccoglierlo, non infilzarlo.

Poi assaggiamo una terrina di pasta e fagioli con i legumi di Conca Casale insaporiti da piccoli tagli di Signora. I legumi del luogo sono giustamente famosi e si legano perfettamente alla qualità della carne.

Infine le patate di Conca Casale e la salsiccia di Bruno cotta alla brace. Il tutto accompagnato da pane fatto in casa nel forno a legna con lievito madre e da una bottiglia di Titilliano, il vitigno autoctono: un rosso corposo, con note fruttate e sentore di pepe.

Prima di ripartire, fotografo alcuni salumi di Bruno e Gaia ben disposti sulla tavola. Le carni sono leggermente più scure di quelle cui siamo abituati. Non ci sono conservanti né additivi, solo sale e pepe. Questi salumi non sono fatti per illudere la vista, ma per piacere al palato.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Conca Casale, nell’Alto Volturno; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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La leggenda della burrata.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Andria; il paesaggio, le Murge. Le coordinate geografiche sono 41°13’ Nord e 16°17’ Est.
L’aereo per Bari parte alle 15.50 da Malpensa. A mezzogiorno sono ancora a Genova. Squilla il telefono: è Davide.
– Dove sei? Qui è tutto bloccato. Ci sono anche i cecchini a Milano…
– Cecchini?
– C’è l’asse Europa-Asia: capi di Stato, polizia, esercito, strade chiuse…

Mi affretto a chiudere la valigia e a salire in macchina, mentre nel corso del vertice il delegato cinese afferma che i nostri vini non sono inferiori a quelli francesi, ma siccome nessuno lo sa deve esserci un problema di comunicazione.
Già, la comunicazione. Proprio ciò che tentiamo di fare con la nostra rubrica, raccontando le anime di un’Italia nascosta, troppo spesso invisibile.

Per una volta nella vita, viaggio come in un telefilm. Tutto si incastra alla perfezione: le code, gli svincoli, i blocchi stradali; non manca niente, a parte i cecchini. Tutto scorre e senza affanno mi presento al gate numero cinque del terminalB un’istante prima che si chiuda l’imbarco.
Lascio il Nord in scioltezza.

Il Sud mi accoglie assieme al resto della troupe in un’antica masseria alle porte di Andria, da dove partiamo per esplorare le Murge. Si tratta di un altipiano in prevalenza carsico, ma le rocce di Andria sono tufacee, di un marrone molto chiaro e venato di rosa che risplende alla luce del sole.
Sembra la frontiera di Sergio Leone, uno spazio di gole strette che si aprono improvvisamente verso orizzonti larghi e ventosi. Un paesaggio che si espande come una macchia d’olio, come volesse sfuggire alla vista.

Siamo qui per raccontare la leggenda della burrata, una delizia di latte e mozzarella nata per sbaglio e per necessità su queste montagne, all’inizio del Novecento.
Michele, il protagonista della puntata, è uno dei casari di Andria che ha fatto della burrata la sua specialità. Ci attende in paese, nel suo caseificio, mentre rimbalziamo da un capo all’altro delle Murge collezionando immagini.

Attraversiamo pianure che diventano monti, gole, colline, pascoli, boschi e infine monumenti. Tutto converge ai piedi di Castel del Monte, una struttura tanto imponente quanto equilibrata: un luogo eretto per diletto da Federico II di Svevia, perfetto palleggio di sogni esoterici e assenza di finalità pratiche. Svetta dalla cima di un colle, al centro degli antichi territori di caccia del re. È di un bianco quasi abbagliante. Un faro di terra, costruito su un banco roccioso. La pianta è ottagonale, con otto torri anch’esse ottagonali che sorgono in corrispondenza degli spigoli. Volumi che si armonizzano nei giochi di forme e nei contrasti cromatici di breccia corallina, pietra calcarea e marmi.

Un’opera perfetta, destinata a vivere in un eterno tempo presente. È qui che decidiamo di mettere la sedia di Davide e girare buona parte della trasmissione. Lavoriamo circondati da ondate di turisti. Gli stranieri ci guardano incuriositi, gli italiani ci riconoscono.

Giunti quasi al termine, ci raggiunge un’impiegata del castello. Ci chiede se abbiamo i permessi. Domanda retorica, per noi artisti dell’improvvisazione. Però capisco le sue ragioni e provo a dire che siamo una rubrica che parla bene dell’Italia e degli italiani. Mi sorride. Anche lei guarda Paesi, paesaggi. Aveva subito riconosciuto Davide – che immaginava più basso – e la sua sedia.

Per fortuna anche la direttrice del castello sa di noi e del nostro lavoro, così possiamo tornare ad Andria con la telecamera piena di buone riprese. Nel frattempo, Michele ha terminato la produzione della giornata e si appresta a vivere con noi una coda tutta artigianale, con il latte lavorato a mano, le forme realizzate a una a una come piccole sculture di latte.

Il caseificio si trova all’interno di un’antica masseria. L’interno è suggestivo, con una ripida scala che divide il punto vendita dalla zona di lavorazione e che porta ai piani alti. Le arcate sono in tufo e le volte con le pignatte e la croce dei Cavalieri di Malta. Ci sono due stanze che sono un piccolo museo di cultura materiale, con antichi attrezzi per il lavoro dei campi, l’allevamento del bestiame e la lavorazione del latte.

Oggi, l’azienda di Michele e della sua famiglia ha raggiunto dimensioni importanti, ma ha mantenuto uno spirito tradizionale dove il lavoro è ancora quasi tutto manuale e i dettagli di produzione sono curati con ossessione maniacale.
Ogni giorno, qui si rivive la leggenda della burrata.

Bisogna immaginarselo, il territorio delle Murge un centinaio di anni fa, imbiancato da una nevicata eccezionale, con i pastori e il bestiame bloccati sui monti, le vacche da mungere e il latte da lavorare.
Per non buttare via niente, quei geniali casari inventarono la burrata. Presero dei fogli di pasta filata e li riempirono con gli avanzi di produzione: latte, panna, burro, sfilacci di mozzarella. Poi chiusero quei fagotti con delle lunghe foglie di vizzo, un’erba aromatica locale che aggiungeva un tocco piccante alla delicatezza del formaggio.

Davide si toglie la giacca di scena, indossa un grembiule bianco e si appresta a immedesimarsi nella leggenda. Lavora e impara. All’inizio immerge le mani nell’acqua bollente, poi in quella ghiacciata. L’equilibrio spesso nasce dal conflitto dei contrasti.

La prima forma non si scorda mai. Ma è come un bacio rubato, una frase detta balbettando. Com’è naturale, Davide lavora troppo in fretta: maneggia il cacio con gesti rapidi e nervosi, non sfrutta la gravità e lo modella solo con la forza.
Michele gli tocca delicatamente il braccio con il palmo della mano. Gli suggerisce di fare piano e di accarezzare la materia.

La seconda e la terza forma si dimenticano, però sono già buone. Me ne accorgo anch’io, mentre scatto le foto di scena. I gesti di Davide si distaccano dalle inquietudini e diventano a poco a poco più lenti e precisi. Anche il respiro rallenta, la mente si svuota.
Lavorare il latte è un’arte che si affina nel tempo, ma bisogna averla dentro. Il latte è sempre diverso e anche il casaro deve essere fluido. Non c’è mai niente di ripetitivo in questo mestiere: sempre gli stessi gesti, ogni volta diversi.

Infine l’assaggio. La burrata deve essere freschissima e bisogna acquistarla tutta intera, tagliandola solo nel piatto, in modo da non perdere il succo di latte. Dettagli preziosi che Davide spiega con evidente piacere. Anche quella della degustazione è un’arte che si affina nel tempo ma che bisogna avere dentro.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite ad Andria, nelle Murge; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Una rete di lana d’Abruzzo.

Oggi siamo in AbruzzoIl paese è Scanno; il paesaggio, il Parco Nazionale d’Abruzzo. Le coordinate geografiche sono 41°53’ Nord e 13°53’ Est.

Parto all’ora di pranzo da Genova e imbocco l’autostrada, rassegnato a uscirne dopo molti chilometri.
Davide parte da Milano, più o meno alla stessa ora.
Siamo entrambi soli, ma ci teniamo compagnia telefonandoci a intervalli regolari. Io gli racconto di un versante tirrenico soleggiato, lui mi parla di una sponda adriatica in preda alla bufera. Le mie nuvole sono candidi riccioli sospesi sul cielo terso, i suoi nembi sono cumuli selvaggi spinti a terra dalla Bora che smuove l’Adriatico.

Procediamo come in un montaggio alternato cinematografico. Due puntini che scivolano verso sud, marciando paralleli in condizioni climatiche opposte. Una cresta di terra appenninica divide due mondi.
All’altezza di Roma piego verso l’interno. All’altezza di Pescara, Davide piega verso l’interno. Dovremmo scontrarci a Cocullo.
Lui arriva poco prima di me. Mi telefona e mi racconta di una strada tutta curve, rocce vive e pareti a strapiombo. Bellissima.

Saliamo fino a Scanno. Lui resta davanti, ma di poco. Esce dal paese mentre io costeggio il lago, sagomato dalla natura a forma di cuore. All’improvviso due caprioli attraversano la strada e si tuffano nel bosco. Io mi blocco, affascinato, e loro tornano indietro. Adesso sono quattro. Mi vengono incontro, forse abbagliati dalle luci della macchina. Spengo i fanali e i caprioli svaniscono. Se ne vanno morbidamente, come accarezzando l’aria. Mi hanno dato il loro benvenuto nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Chiamo Davide per raccontargli dell’incontro, ma non c’è segnale. A modo suo, la morte del telefono è un’altra forma di benvenuto.

L’indomani mattina iniziamo subito le riprese. Incontriamo Roberta, la protagonista della puntata, che viene da Pescara. Lei è un architetto e un designer, ma soprattutto una donna che ama la lana e che qualche anno fa ha deciso di fondere la sua passione con la sua professione. Ha creato un’attività non facile da spiegare in tre minuti di televisione. La storia però è bellissima, da qualunque parti la si osservi.

Iniziamo dalla materia prima: la lana. Qui in Abruzzo è stata per molti secoli fonte di ricchezza, poi è scomparsa dagli scaffali dei negozi e dalle bancarelle nei mercati, divorata dalle fibre sintetiche. Più voraci delle tarme. L’intuizione di Roberta è stata quella di ricostruire l’antica filiera di produzione: trovando l’allevamento e le pecore, filando la lana e infine lavorandola, magari insegnando ad altre donne un’arte che qui a Scanno è radicata come in pochi altri posti al mondo.

Roberta è salita sulle montagne d’Abruzzo e ha trovato l’allevamento di Gregorio, un vero personaggio, grande casaro. Il suo gregge conta oltre 1500 capi di razza Sopravissana, una pecora a triplice attitudine: morbida lana, ottima carne e buon latte. Il loro vello è quasi materno; i colori sono quelli della terra, dal bianco panna al marrone scuro.

Come dicevo, la tradizione del lavoro a maglia è profondamente radicata a Scanno. La lana valeva oro e i pastori abruzzesi ne possedevano in quantità.
Erano transumanti e trascorrevano molti mesi all’anno lontano da casa: in inverno scendevano verso il mare e con la bella stagione tornavano sui monti. Le loro donne, signore dei fuochi nel borgo, facevano a maglia e amministravano denari.

Il centro abitato è rimasto intatto e vi si respira l’antica ricchezza in ogni dettaglio architettonico. Vie strette lastricate, archi in pietra e portali sormontati da suggestive maschere apotropaiche. Volti allegorici scolpiti da veri artisti per tenere lontani gli spiriti e i seccatori, entrambi maligni. Bocche deformi e smorfie selvagge, gole nascoste per mettere in comunicazione le case con le strade e lanciare insulti, escrementi, colpi di schioppo. Ogni casa era una piccola realtà fortificata.

Scegliamo un angolo raccolto con un bel portale e tre ampi gradini di pietra dove Davide e Roberta lavorano all’uncinetto con le donne di Scanno che indossano il costume tradizionale.
Fa freddo e la pietra è umida. Davide e Roberta soffrono, mentre le donne di Scanno chiacchierano e alternano semplici catenelle a punti più complessi. I loro costumi sono in panno pesante, i corpetti decorati e sagomati in mondo che il seno assomigli alla prua di una nave, le gonne che cadono dritte fino alle caviglie con una trama di fittissime pieghe; sono lunghe fino a quindici metri e pesano oltre dieci chili. Un segno di ricchezza, oltre che di bellezza.

Nel pomeriggio, Davide cammina con la sedia in spalla e si perde negli angoli del paese. Si ferma davanti alla fontana Saracco, con le maschere del Re, della Regina, dello Zoccolante e del Cappuccino, poi s’infila sotto arcate e logge, risale scalinate, tocca le pietre dei portali lavorati, si tiene in discesa al ferro battuto delle ringhiere.

Sono innumerevoli gli angoli che rendono Scanno uno dei borghi più fotografati al mondo. Alcune immagini di Mario Giacomelli fanno parte della collezione del Moma di New York, ma qui hanno lavorato tanti maestri come Henri Cartier-Bresson, Gianni Berengo Gardin, Mimmo Jodice, Ferdinando Scianna e tantissimi altri.

Intanto, Roberta e Massimo preparano la parte più complessa del racconto televisivo. Roberta ha infatti fondato una scuola dove insegna a lavorare la lana d’Abruzzo. Si chiama Social crochet e conta già 5000 allievi. Si ritrovano sul web tutte le settimane e lavorano come fossero sui gradini del paese. Roberta ha opportunamente semplificato le tecniche di lavorazione per consentire a tutti di realizzare i propri oggetti. Un design che «nasce direttamente dalle mani di chi lavora la lana», dirà Davide in trasmissione.

Massimo e Roberta hanno allestito diversi set nelle case di Scanno e riprendono le donne mentre lavorano e comunicano attraverso la rete. C’è una strana atmosfera che mescola realtà urbana e natura, la tradizione arcaica del lavoro a maglia e la sua moderna traduzione su internet. Linguaggi che si mescolano e invece di respingersi si attraggono. Una bella atmosfera. Un altro segno di ricchezza, culturale prima che economica.

Prima di ripartire, Davide nota una bottega di oreficeria. Il giovane orafo ci invita a visitare il suo laboratorio e ci mostra gli antichi stampi ricavati negli ossi di seppia. Scaccio Montale dalla mente e colgo un altro evidente segno di ricchezza: la transumanza portava i pastori lontano da casa e metteva in contatto mondi lontani.
Ecco perché – oggi come secoli fa – un artigiano di montagna fonde l’oro negli ossi di seppia, portati a riva dal mare.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Questo però è un luogo da vivere, non solo da visitare. Così, mentre tutti partono, io decido di restare. Prendo le scarpe da corsa e mi arrampico sui monti, verso la cima di passo Godi. Fa fresco e c’è già un po’ di neve. Il sentiero però è largo e chiaro. Tra poco sarà notte. Chissà, forse vedrò ancora i caprioli, o magari il lupo, l’orso…
Venite a Scanno, nel Parco Nazionale d’Abruzzo; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Olivi secolari, monumenti della natura.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Ostuni; il paesaggio, la Piana degli olivi secolari. Le coordinate geografiche sono 40°43’ Nord e 17°34’ Est.

Davide e io partiamo dalle Murge verso sera e scendiamo spediti a bordo della nostra piccola auto a noleggio. Come al solito parliamo fitto e ci ascoltiamo a vicenda. Un esercizio che ci riesce talmente bene da annullare le distanze e dissolvere i cartelli stradali. Arrivati a Bari dovremmo proseguire sulla litoranea, invece pieghiamo a destra, verso Taranto, seguendo il flusso delle parole e dei pensieri che si affollano compatti nell’abitacolo della vettura.

A Gioia del Colle realizziamo di essere fuori strada e di avere allungato il tragitto. Così, tanto per non smettere di ragionare sulle cose della vita, racconto a Davide di Haim Baharier e del suo Qabalessico, un libro piccolo e agile, ma prezioso.
Baharier è un maestro del pensiero e della parola. È nato a Parigi, da genitori ebrei di origine polacca. Ha vissuto i drammi della guerra ma ha avuto la fortuna di studiare con Lèvinas e Askenazi. Potremmo definirlo un esegeta, ma è anche un matematico e uno psicanalista. Un maestro, appunto.

Il Qabalessico è una raccolta di riflessioni su piccole questioni che improvvisamente si aprono su mondi sconosciuti e inesplorati. Una di queste riguarda le cosiddette “allungatoie”, quelle circostanze impreviste che cerchiamo di evitare, sempre alla ricerca di scorciatoie. Il maestro suggerisce invece di accoglierle come opportunità.

E infatti, una volta sulla strada per Alberobello, attraversando distese di trulli e oliveti, succede alle nostre spalle qualcosa di speciale. Non possiamo fare altro che fermarci, uscire dall’auto e guardare. Come dicevo: trulli in controluce, ondulazioni dei campi, distese di olivi, intrecci di muretti a secco. E sullo sfondo, imponente come una scenografia teatrale, il cielo con il suo tramonto. Siamo stati lì in silenzio, a guardare, finché è venuto buio. Allungatoie…

Arriviamo nella Piana degli olivi secolari di notte. Ci viene incontro Corrado, il protagonista della puntata. Ci accoglie nella sua masseria, circondata da centinaia di olivi di mille, duemila, addirittura tremila anni.

Prima di andare a dormire, Corrado ci guida sottoterra. Entriamo in un frantoio ipogeo dove si lavoravano le olive delle sue piante già nel Medio Evo, in epoca romana e addirittura al tempo dei Messapi, una popolazione vissuta circa otto secoli prima di Cristo.

Corrado ci mostra le basi delle presse romane e medievali, le vasche di raccolta dell’olio, i canali di scolo scavati nella pietra. Ci indica le stanze di raccolta delle olive, strappate con punta e mazzetta alla roccia e alla terra. C’è anche una grande pietra, orizzontale e ben levigata. Sembra un piano di raccolta, una specie di antico scaffale. Corrado si sdraia su quel masso e spiega che era il luogo dove gli operai dormivano. Immaginiamo la vita di quegli antichi individui, costretti a vivere e lavorare sottoterra per molti mesi. Oggi questo è un luogo dal fascino indescrivibile, ma un tempo doveva essere lo scenario di una vita infernale.

Fino all’Ottocento, i frantoi erano spesso ipogei per due motivi fondamentali: da un lato il bisogno di nascondere l’olio, che era prezioso come l’oro e che doveva essere tenuto il più lontano possibile dai briganti e dai potenti, dall’altro la necessità tecnica di lavorarlo a una temperatura costante superiore ai dieci gradi perché si mantenesse fluido.

L’indomani iniziamo presto le riprese. Trascorriamo una giornata tra gli olivi, a filmare Davide e Corrado tra questi tronchi millenari che hanno già visto e sentito tutto. Sono muti, ma hanno moltissimo da dire. Occorre avvicinarsi a loro con calma, scegliere una pianta e osservarla. La si può toccare, accarezzare e abbracciare, oppure esplorare le cavità del suo tronco, appoggiarsi al fusto, sdraiarsi sulle radici. Si possono indagare le trame della corteccia, alla ricerca di sculture che la natura ha modellato sui tronchi.

C’è un olivo che Corrado chiama “l’albero della vita”, perché da un lato presenta il corpo di un giovane uomo, mentre dall’altro la figura sensuale di una donna, con un serpente accanto al piede. È un albero che si rifiuta di morire. Anche in agonia, continua a dare frutti.

C’è poi il “grande vecchio”, una pianta di oltre tremila anni con il fusto che corre parallelo al terreno ritorto tre volte su se stesso. La cavità dove infilo la testa sembra il boccaporto di una macchina del tempo.

Nella masseria di Corrado dimorano un migliaio di olivi secolari, di cui ottocento censiti dalla Regione Puglia come “monumenti della natura”.
Si può camminare per ore tra questi olivi monumentali, ascoltando le loro parole mute, osservando le forme dei loro corpi vivi. Una cosa che si nota osservando l’insieme del campo è l’inclinazione delle piante. Uno sporgersi costante dei tronchi verso una stessa direzione, con uno stesso angolo rispetto al terreno. Immagino che sia il vento ad aver piegato i tronchi, invece Corrado mi spiega che è il movimento della Terra.
Gli olivi sono inclinati come il nostro asse di rotazione.

Questo luogo è davvero unico al mondo. Per quanto silenziose, queste piante gridano di essere conosciute e protette. Come dice Davide nel corso della puntata, “dovrebbero essere nominate Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco”. Corrado si batte da anni per ottenere questo riconoscimento e speriamo che la nostra trasmissione contribuisca a dare agli olivi secolari di Ostuni la notorietà e il rispetto che meritano.

Queste piante sono un patrimonio vivo e producono olive di qualità, della varietà Ogliarola Salentina. Adesso, a metà ottobre, siamo in piena raccolta. Davide si unisce agli operai e insieme a Corrado imbraccia gli strumenti di lavoro: lunghe pertiche con rastrelli posti alle estremità che permettono di smuovere delicatamente i rami facendo cadere le olive nelle reti stese a terra.
Un tempo, queste olive sarebbero state ammassate sopra il frantoio ipogeo e fatte cadere nelle stanze di raccolta, dove sarebbero rimaste per mesi e lavorate dagli uomini in cattività. Oggi sono frante in una moderna struttura, dove con tecniche artigianali diventano l’unico olio al mondo prodotto da monumenti della natura.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Ma prima di proseguire il viaggio, ci fermiamo nella Grotta della Maternità, a pochi chilometri da Ostuni. Qui è stato ritrovato lo scheletro della madre più antica dell’umanità: una giovane donna di 28.000 anni fa. Il corpo è ben visibile, sdraiato su un fianco; una mano sotto la guancia, come per ammorbidire la durezza del terreno, e l’altra sulla pancia, ad accarezzare la vita anche in punto di morte.
Venite a Ostuni, nella Piana degli olivi secolari; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Il risveglio delle vacche “strache”.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Corna Imagna, il paesaggio quello dell’omonima valle. Le coordinate geografiche sono 45°49′ Nord e 9°32′ Est.

Il viaggio è senza sussulti, da Genova a Dalmine passando per Milano. Monotono, piatto, autostradale. Una galoppata attraverso la Lombardia delle industrie e delle comunità denuclearizzate: la città infinita, come la chiama Aldo Bonomi.

Poi, alle porte di Bergamo, si imbocca la statale e si comincia a salire. Il Resegone è lassù, ancora non si vede ma già si sente. La strada risale la valle e rimane lieve, le curve appena abbozzate. Poi, a un certo punto, si entra in un altro mondo. Lo si percepisce tutt’intorno, con i profumi intensi del castagno dopo la pioggia.

Questa è una valle molto aperta che si divide in due. Il lato sinistro è ben esposto al sole ed è tutto un susseguirsi di boschi alternati a pascoli, campi e villaggi. Il lato destro orografico è invece in ombra ed è tutto selva. Castagni e faggi. Tantissimi. Il Resegone è in alto, prolungamento naturale di questo versante. La montagna che da Lecco mostra la sommità merlata, a forma di sega, vista da qui è un morbido panettone. Linee aspre da una lato, delicate dall’altro. Un monte dalla doppia personalità.

Nel centro esatto del costone, in mezzo al bosco, sorge il Santuario della Madonna della Cornabusa, ricavato all’interno di una profonda grotta naturale in un punto a strapiombo. Il nome deriva proprio dalla cavità, che in bergamasco si dice corna busa, “roccia bucata”. Risale al ‘500 ed è diventato il punto di riferimento della valle, un luogo impervio e isolato, avvolto da un’atmosfera di mistica quiete.
Lo osservo in silenzio, da lontano, e mi sento come a casa.

Questa è una valle con una storia antica, che rischia di perdersi risucchiata dalla pianura e dalle sue modernità. Fino a pochi anni fa era abitata dai “Bergamini”, gli antichi pastori transumanti. Sono stati loro a creare lo stracchino con il latte delle vacche strache, cioè stanche, per via dei continui spostamenti in montagna. Lo stracchino – nato quasi per necessità – è diventato famoso in tutta Italia.

Il protagonista della puntata, Antonio, è il direttore del Centro Studi Valle Imagna. Oggi non parliamo di un prodotto e del suo artigiano, ma di un’istituzione e del suo territorio. La filosofia di Antonio e del Centro Studi è semplice, ma genera imprese ardite. L’obiettivo è valorizzare la valle attraverso il recupero della sua storia e dei suoi beni materiali. Antonio s’illumina quando mi spiega che gli oggetti della cultura materiale, come una castagna essiccata, un tetto in piöde, una forma di stracchino o il latte di una Bruna Alpina, sono le radici di un popolo: ne racchiudono la storia e l’identità, come i libri.

Per prima cosa, il Centro Studi ha iniziato a studiare. La valle e la sua gente, la lingua, l’alimentazione, il lavoro, la festa, la devozione. Poi ha cominciato a scrivere e a pubblicare testi. Sono nate dodici collane che comprendono oltre cento volumi: un patrimonio vivo di conoscenze della Valle Imagna. Ci sono libri fotografici, ricettari in lingua, saggi di botanica, antropologia e cultura materiale. Un mondo dove perdersi per poi ritrovarsi, migliori di prima. Antonio mi mostra uno splendido dizionario Italiano-Bergamasco in tre volumi del ‘700. Un’opera nata con l’intento di aprire le frontiere della valle e insegnare l’Italiano a un popolo che parlava solo il Bergamasco.
Recuperare quella pubblicazione significa recuperarne lo spirito.

Il Centro Studi Valle Imagna è riuscito poi ad acquistare l’antico borgo abbandonato della contrada Roncaglia. Fondata poco dopo il Mille, era stata abitata anche dagli avi di papa Giovanni XXIII. Il restauro della contrada ha ridato vita alle pietre dei muri, ai mattoni in cotto, agli assiti di castagno, ma soprattutto ai tetti in piöde, la specialità del posto assieme allo stracchino.

I tetti in piöde della Valle Imagna sono capolavori di architettura montana che stiamo perdendo. Fino a pochi decenni fa erano tutti così: oggi sono rarità che vale la pena di raccontare.
Intanto sono aguzzi, quasi verticali. Le lastre di ardesia sono sovrapposte ad arte, una sull’altra in modo che il peso e le loro forme, opportunamente scelte e perfezionate dallo scalpello del mastro, le tengano insieme impedendo alle intemperie di filtrare. Visti da sotto, i tetti in piödesono pieni di buchi: fanno girare l’aria e non lasciano passare l’acqua, il vento e la neve.

Nell’antico borgo è stata inoltre realizzata una locanda, aperta tutto l’anno, che offre da mangiare e da dormire nelle stanze arredate con i mobili tipici. La cucina propone solo piatti del luogo, con prodotti di casa.

Sara è la locandiera, Roberto il cuoco. Entrambi artigiani dell’accoglienza. Oggi è domenica e il ristorante è pieno, ma per noi hanno preparato qualcosa di speciale: gallina bollita con castagne e noci. Prima un assaggio di ravioli burro e salvia con le erbe selvatiche, poi un pizzico di risotto e ballotin, i tipici fagottini di polenta di farina grezza macinata a pietracon un cuore di stracchino. I ballotin si lasciano dorare sulla piastra del forno quel tanto che basta per creare una sottile crosta croccante all’esterno e sciogliere il formaggio all’interno. Sono deliziosi. Antonio mi racconta che erano sempre presenti in casa e quando si tornava da scuola erano la prima cosa che finiva sotto i denti affamati dei ragazzi.

Le castagne e lo stracchino erano la base dell’alimentazione in valle. Due veri pilastri della cultura locale. Insieme al Comune di Corna, il Centro Studi Valle Imagna ha costituito una cooperativa di piccoli allevatori che producono lo Strachì originale. Il caseificio è in paese, lungo una strada selciata perfettamente restaurata e davanti a un vecchio fienile con il caratteristico ingresso a forma di T: piccolo in basso – con appena lo spazio per le gambe del contadino – e grande in alto, per fare posto alla gerla del fieno. Una forma che è diventata il simbolo del Centro Studi e della sua contrada.

Uno degli edifici che si affacciano sulla corte del borgo è l‘essiccatoio delle castagne, il secadur, che il Centro Studi ha restaurato e rimesso in attività per recuperare anche quel tassello importante della vita in valle. Un camino con fuoco di legna di castagno e un graticcio posto di fronte, a un paio di metri di altezza. Si accende il fuoco e si dispongono le castagne. Poi si chiude la porta e si lascia tutto lì, a riposare. Il fuoco deve essere alimentato tre volte al giorno e la fiamma deve rimanere bassa ma costante. La castagna la gh’à de brasà, mia de brösà! Dopo una settimana, le castagne secche vengono sbucciate e sono pronte per essere macinate e diventare farina, oppure conservate e mangiate in ogni momento dell’anno, con quel buon gusto di affumicato che trasforma una necessità in specialità.

Come vedete, tutte le iniziative del Centro Studi Valle Imagna sono anche progetti di micro-economia. Tutti gli interventi producono reddito. Davide si toglie gli occhiali, guarda nella macchina da presa e dice una cosa di cui siamo tutti convinti: «I luoghi muoiono, se non generano benessere…».
Bene, adesso è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Valle Imagna, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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