Archive for ottobre, 2013

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I vini sepolti.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia; il paese è Duino Aurisina, il paesaggio quello del Carso.

L’auto di Davide fila veloce sull’autostrada più trafficata d’Italia, l’unica dove i Tir superano in terza corsia. Ansia è la parola giusta. Poi, a un tratto, il finestrino inquadra la duna di Soave. Allungo lo sguardo oltre il vetro che riflette i raggi del sole. Soave è la parola giusta.

Resto incantato, ogni volta che passo di qua. Arriviamo da Beniamino prima di pranzo. Ci accoglie nella sua osmiza, la tipica locanda domestica del Carso segnalata da una frasca. Secondo un calendario ufficiale, per un paio di settimane all’anno, le osmize sono aperte al pubblico e offrono piatti della tradizione come salumi, uova, verdure sott’olio e sottaceto, accompagnati dal vino di casa.
È un’usanza che risale all’Impero Austro-Ungarico, quando ai contadini era stato concesso il diritto di vendere i propri prodotti. Quella di Beniamino adesso è chiusa, ma per gli amici è sempre aperta, con lo spargher, il focolare, acceso al mattino presto e tenuto vivo durante il giorno.

Ci prepara del pesce alla griglia. Lo cucina in un modo che mi pare subito geniale, ponendo il cibo in verticale davanti al fuoco. Così il grasso cola lontano dalla fiamma e non accende le braci. Assaggiamo i suoi grissini fatti in casa, ci bagniamo le labbra con qualche goccia di Terrano e di Vitovska, poi un caffè e Davide sparisce per cambiarsi d’abito.

Si trasforma nel camminatore incallito di Paesi, paesaggi, quel misterioso naturalista di campagna sospeso nel tempo, senza mete da raggiungere; solo passi da compiere e storie da raccontare. Le vigne sono subito lì, affacciate sul mare. I filari sono protetti da massi bianchi di rocce calcaree e circondati da sentieri che si perdono nel fitto del bosco. Siamo nel Carso, nel Kras, come si dice qui, con i piedi appoggiati su una manciata di terra rossa che ricopre grotte e fiumi sotterranei.

In superficie, il Carso è un mondo di colori: le rocce calcaree sono di un bianco abbagliante mentre i boschi sono verde scuro. Sui prati più chiari sono distese migliaia di piante e fiori; spazi aperti e luminosi diventano all’improvviso angoli bui, quasi misteriosi. Il mormorio sommesso del Timavo, il grande fiume sotterraneo, ricorda la Terra prima di Adamo, all’epoca della creazione, quando non c’era nessuno per raccontarla.

Davide si ferma in mezzo al vigneto, posa la sedia e si mette comodo. Ha scelto un punto rialzato per osservare il territorio e capire la sua gente. Ha fatto come Goethe, quando viaggiava in Italia e si accaniva a risalire la creste dei monti o si arrampicava sui campanili per vedere le cose dall’alto.

Davide inforca gli occhiali e racconta la storia di Beniamino, «uno di qui, che alla fine degli anni Ottanta aveva preso in mano il vigneto del padre e si era dedicato a una produzione naturale e biologica, eliminando ogni traccia di chimica».

Beniamino produce la Vitovska, un bianco autoctono macerato sulle bucce con lieviti naturali, che affina in botti di rovere e imbottiglia senza filtrazione. Poi il Terrano, un rosso tipico del Carso, della famiglia del Refosco, un vino molto minerale proprio come la terra su cui cresce, la Terra Rossa, piena di ferro e calcare. Un tempo, veniva usato anche come medicinale proprio perché ricco di ferro. Due grandi vini, cui Beniamino aggiunge una Malvasia tutta speciale, nata in Grecia ma impiantata qui come una vera friulana.

I vigneti di Beniamino sono lavorati con cura maniacale. Noto che i filari sono di un’esatta irregolarità. Scanditi, quasi elencati da pali di legno tagliati in maniera uguale e disuguale al tempo stesso. Vedo le cose, ma non le capisco. Finché non me le spiegano. Beniamino, paziente, mi spiega che pali sono di acacia, l’albero tipico di questi boschi. Si prendono i tronchi più grossi, perché sono i più stagionati, e si spaccano in quattro con l’accetta. Ecco perché sono tutti uguali e disuguali al tempo stesso.

I tracciati dei filari sono progettati sulla carta, ma poi realizzati seguendo le curve della terra, accompagnando le sue incertezze.

«I filari vanno dritti – dice Beniamino – perché la mano dell’uomo è forte; ma con la natura bisogna sempre giungere a dei compromessi». Poi s’inginocchia, scava con le mani e trova subito la pietra. Ancora una volta, Beniamino mi sorprende. Dice che nel Carso le radici della vite possono allungarsi anche dodici metri, facendosi largo tra le rocce alla ricerca di acqua e nutrimento.

Mi guarda, sorride, e come se stesse parlando di una persona aggiunge: «La vite dà il meglio di sé quando soffre un po’…».

Dopo il campo, la cantina. La quiete dell’invecchiamento.

La storia di Beniamino, quella spettacolare, comincia proprio da qui: dall’invecchiamento. Massimo stringe l’inquadratura, Davide inforca gli occhiali, guarda fisso nella telecamera e dice: «Beniamino capisce che la qualità del suo vino non sta solo nel vigneto, ma nella cantina. Allora si guarda sotto i piedi e percepisce la trama di grotte sotterranee, il fiume sommerso di correnti d’aria che si sviluppano sotto la superficie».

Nel 2002 Beniamino inizia a scavare. Ogni pietra che toglie al terreno la rimette a dimora in superficie e continua a scavare fino al 2009. Sette anni, per scendere di venti metri e realizzare una cantina di cinque piani che sembra la scenografia di un film, con un sistema di passerelle sospese e filari di botti di rovere accostate alle pieghe della roccia.

Qui, i vini di Beniamino affinano come altrove sarebbe impossibile. Maturano sottoterra; letteralmente vivono sepolti, e quando tornano alla luce diventano alcuni tra i «migliori vini d’Italia».

Poche bottiglie all’anno. Ma almeno una va bevuta.

Davide dice che «è come andare in Paradiso, dopo essere stati vicino all’Inferno». Ma la cosa che mi colpisce di più della cantina di Beniamino è ancora una volta il terreno. Le botti – qui sotto – poggiano sulla Terra Rossa, come le viti in superficie.

Una finezza, perché il vino ricordi le sue origini.
Davide riempie il calice di Vitovska e lo avvicina alla parete della grotta. Hanno lo stesso colore, la stessa luce viva e brillante. Dice: «Vino su roccia, tono su tono», mentre io osservo la botte da cui Beniamino ha spillato il bianco.

Con il gesso c’è scritta una frase di Mario Soldati: «Il vino è la poesia della terra».

Progettando questa trasmissione, pensavamo proprio a Mario Soldati e al suo Viaggio in Italia. Televisione d’altri tempi, quando gli autori erano scrittori.

Bene, adesso è tempo di andare e tornare in superficie; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Se venite nel Carso, quando vedete una frasca fuori da una casa fermatevi ed entrate. È una osmiza, dove potrete gustare il cibo tradizionale dello spargher, il focolare. Ricordatevi di toccare la Terra Rossa che ricopre le rocce, e provate ad ascoltare il mormorio del Timavo, il fiume che non si vede con gli occhi ma si sente con il cuore.

Allora, come dice Davide: «Venite nel Carso, nel Kras, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Perché questa è anche casa vostra».

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I signori del Mediterraneo.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Marsala, il paesaggio quello di Capo Boeo.
Siccome chi dorme non piglia pesci, avevo deciso di svegliarmi presto. Nella notte avevo raggiunto il porto di Orio al Serio ascoltando e riascoltando un cd di mia figlia. C’era un brano che mi restituiva il ricordo di Bob Dylan, quando avevo i suoi quattordici anni. Nastri consumati, rotti e rimessi insieme con lo scotch. Fantasie fragili, castelli d’aria costruiti sulle note di una ballata.

La barca su cui mi accingo a navigare si chiama FR9091, della flotta Ryanair. Molliamo gli ormeggi alle otto in punto e navighiamo sull’Italia mentre la luna scivola dall’altra parte del mondo. Quando sbarco a Trapani, è giorno fatto. Una corsa veloce a passo svelto lungo il litorale di Capo Boeo, tanto per salutare Favignana, Levanzo e Marettimo, poi vado in porto, quello vero.

Ho appuntamento con Marco, il protagonista della puntata.

I pescherecci sono tutti lì, in banchina. Messi all’inglese, con i parabordi uno a fianco dell’altro, che sembrano tenersi per mano e farsi compagnia. Escono poco e hanno molto da raccontarsi. Storie di pesca e di naufragi, vicende di pesci ed esseri umani nel turbine delle acque.

Marco è un uomo che chiunque abbia amato Il vecchio e il mare dovrebbe incontrare. Lui è Santiago. Le stesse rughe, lo stesso portamento lieve, la stessa pelle anziana cotta dal sale. E poi gli occhi vivi, che lasciano affiorare tutto ciò che hanno visto. Slanci nobili e infime bassezze del genere umano. L’occhio buono è sempre in movimento, l’altro è fisso verso l’alto, come se sbirciasse il cielo e ogni tanto chiedesse consiglio.

Le sue mani, segnate dai morsi della lenza, sono forti eppure gentili. Hanno tenuto tonni da centinaia chili e corpi alla deriva, uomini e donne ancora da salvare oppure cadaveri cui donare sepoltura. A un tratto, a tavola, accarezza la schiena della moglie. Si capisce quanto sia importante per lui. Come la terra ferma, quando tutto si muove intorno.

In banchina è il più anziano e il più minuto. Quasi fragile. Eppure è lui il capo. Lui è Santiago; gli altri, pur esperti e solidi, sono Manolin.
All’imbrunire, mentre Davide atterra e Massimo gironzola per il porto rubando immagini di copertura, io estraggo dallo zainetto la sceneggiatura.
Nessuno sa cosa abbia scritto.

Ma le aspettative sono tante, perché i pescatori di Marsala vedono la nostra trasmissione come una possibilità concreta per invertire la rotta del destino. Noi siamo arrivati sulla costa di Capo Boeo attratti dalla poetica del mare e dalla romantica perfezione della pesca al tonno con l’amo, inventata proprio qui a Marsala.

Abbiamo però scoperto che una serie di leggi ingiuste favoriscono le reti a circuizione, penalizzando la pesca con l’amo, l’unica veramente sostenibile e selettiva.
La mia sceneggiatura spiega tutto questo. È una scrittura precisa, ma incompleta; le parole scorrono rapide, ma restano ai margini del problema.

In banchina sono circondato dai pescatori. Leggo il testo ad alta voce.
Le parole dovrebbero essere armi; avere sempre la forza di chiamare le cose con il loro nome.
I tonnaroti ascoltano in silenzio, poi mi domandano qualcosa. Rileggo parte del testo mentre con gli occhi cerco quelli di Marco.
Con la bocca non dice niente, con gli occhi sì. Allora rimetto la sceneggiatura nello zainetto e dico: «Vado in albergo. Torno tra mezz’ora».

Quando mi ripresento in banchina, Davide è già salito a bordo. Carico di energia, come sempre. Anche Massimo è pronto a salpare. Ormai è notte. Lasciamo il porto con la sedia ancora appoggiata al bordo interno dello scafo, sotto le boe-radio del palangaro. Quando Davide la prende e se la mette in spalla, caracollando verso poppa, siamo già in mare aperto. La luna è alta, l’acqua increspata da uno scirocco fresco. Noi del Nord pensiamo sempre allo scirocco come a un vento caldo, ma qui, sulla costa meridionale della Sicilia, è quasi fresco.
Viene dall’Africa, ma si raffredda sul canale.

Davide spiega che «in Sicilia, c’erano ben 400 pescherecci che usavano il palangaro, ma oggi ne sono rimasti meno di 30, quasi tutti a Marsala!»
Poi aggiunge che «i pescatori come Marco sono destinati a sparire se non cambiano le leggi che favoriscono i sistemi industriali e uccidono la pesca con l’amo, che invece dovrebbe essere conosciuta e sostenuta».

Massimo intanto comincia a stare male. La barca fila veloce mentre i pescatori simulano le azioni di pesca davanti alla telecamera. Il movimento continuo delle onde, il panino appena mangiato, i continui cambi di messa a fuoco: tutto aiuta a rivoltare lo stomaco. Un minuto di riprese, un minuto fuori bordo. Il grande faro del pozzetto è impietoso. Sbiancherebbe chiunque. Massimo adesso è spettrale.

Davide invece è in piena forma e anch’io me la cavo bene. Saltelliamo baldanzosi di qua e di là, da un lato all’altro del peschereccio. Anche i pescatori, che il mal di mare non sanno cosa sia, ridono e scherzano vicino a Massimo che vorrebbe essere ovunque tranne che lì.

Poco prima che Davide reciti la nuova battuta, incrocio lo sguardo di Marco. La sua presenza è ferma e piena di dignità. Santiago non soffre il mare e non sente il bisogno di farlo sapere. Non deve dimostrare niente a nessuno.
Dice a voce bassa: «Mettiamoci al traverso e rallentiamo», accompagnando le parole con un movimento lento del braccio. La barca si calma.

Mi quieto anch’io e leggo a Davide le parole che ho riscritto in albergo. Lui annuisce convinto. Nel frattempo, Massimo torna dietro la telecamera. Sembra stare meglio anche lui. Avvia la registrazione e ascolta in cuffia Davide che dice: «Il mare ha da sempre nutrito i popoli. Oggi è ricchissimo di tonno, ma le quote per il palangaro sono così basse che i pescatori le superano in una sola calata! E poi devono restare in porto».

La notte del 20 maggio 2013, i pescherecci di Marsala erano usciti in mare e avevano tutti pescato molto più di quanto fosse consentito dalla legge per un anno intero! Ma i pescatori non potevano scendere in acqua e impedire ai tonni di abboccare ai loro ami. Così erano sbarcati con il pescato; avevano venduto la quota legale e pagato una multa su quella eccedente, sequestrata dalla Capitaneria.

Poi non erano più usciti. Adesso sperano che succeda qualcosa. Non nel mare, sempre più ricco di tonni, ma negli uffici dei politici, nelle stanze di chi fa le leggi, in Italia e in Europa.
Mentre rimetto a posto le mie cose e scatto qualche foto, vedo Marco e Davide che discutono appoggiati al bordo del peschereccio. Parlano del presente e del futuro, di ciò che potrebbe succedere, delle speranze di questa marineria che va sparendo.

L’indomani, mentre filmiamo le ultime scene in riva al mare, Marco mi racconta di quando pescava il corallo. Mi descrive in dettaglio l’attrezzo che usava e le manovre che doveva compiere. In mare ha pescato di tutto.
Un paio di giorni dopo ci salutiamo in aeroporto. Ci abbracciamo e scambiamo poche parole, giusto un gioco di sguardi.
Lui prende dalla tasca un involto e mi dice: «Ho una cosa per te». Nel panno di carta ci sono due rametti di corallo.
Rosso vivo, sulla pelle scura di Marco, sotto le luci fredde dell’aeroporto.
Aggiunge a bassa voce: «Portano fortuna».

Allora mi viene in mente un altro riferimento letterario. Marco non è solo Santiago, ma anche Bruno Schulz, che nella fantasia di Grossman invece di morire a Varsavia nel 1942 diventa un salmone e si unisce al branco.
Anche Marco, un giorno, diventerà un tonno e si unirà al branco. Scenderà in profondità e con un gesto secco del muso staccherà un rametto di corallo dallo scoglio. Un riflesso rosso che lentamente salirà verso la superficie.
Io lo prenderò e lo terrò sempre con me.

Bene, adesso è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Quando venite sul litorale di Capo Boeo, ricordatevi di guardare la linea dell’orizzonte e salutare il passaggio dei tonni. Sono loro i veri signori del Mediterraneo.
E come dice Davide: «Venite a Marsala, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!»

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Da Marsala a Villalba

Fine settimana molto intenso in giro per la Sicilia, realizzando due nuove puntate di “Paesi, paesaggi”.
La prima dedicata alla pesca al tonno a Marsala, la seconda alla coltivazione del pomodoro pizzutello siccagno a Villalba.
Due nuove storie che mi hanno insegnato molto: ad esempio quanto possano essere ottusi e ostili i politici, oppure quanta modernità ci sia nel recupero intelligente delle cose del passato.
Abbiamo navigato di notte tra le Egadi e l’Africa, mentre di giorno siamo saliti sui monti del Bilìci.
Abbiamo conosciuto Marco e Francesco.
Marco è un pescatore che assomiglia al vecchio di Hemingway, Francesco è un contadino che sembra un ricercatore.
È stato facile conoscerli, sarà impossibile dimenticarli.

Pescherecci nel porto di Marsala

Marco e Davide in navigazione

Io e il palangaro

La valle del Bilìci

Ultimi pomodori pizzutelli siccagni

***

Grappoli d’aceto

“Grappoli d’aceto” è il pezzo che ho scritto per mentelocale su Josko Sirk e il suo incredibile aceto d’uva.
Il paese è Cormons, in Friuli; il paesaggio quello del Collio.

***

Le pietre dei druidi.

Oggi siamo in Lombardia; il paese è Gerola Alta, il paesaggio quello delle Orobie Valtellinesi.

Mosè alza la testa e guarda il cielo. Poi batte il piede sul terreno duro e compatto, infine si accarezza la barba. Dice: «Stasera piove». Lui è a 2000 metri, in alpeggio. Attorno ci sono le mucche, le capre, i figli. Gli animali si compattano sull’erba, gli esseri umani entrano nel calécc. Tutti aspettano, inquieti. Noi siamo giù a Morbegno. Guardiamo le stelle e diciamo: «Bella serata!». Poi andiamo a dormire. Siamo sereni.

Ci svegliamo poco prima di mezzanotte. All’inizio il rumore del vento, poi lo scroscio dell’acqua, infine la grandine, il battere ossessivo del ghiaccio sui vetri della stanza. In quota è tutto un muggire, belare, tacere. Non sono lamenti, ma suoni pazienti d’attesa. Smetterà.

L’indomani, alle otto in punto, siamo a Gerola Alta, davanti al centro di stagionatura del Bitto storico dove ci aspetta Paolo, il presidente del consorzio degli allevatori. Il cielo è limpido. La valle è ancora in ombra, ma si intuisce che sarà una giornata scintillante.

Due parole e poi su, verso l’alpeggio dove lavorano e vivono Mosè e altre tredici famiglie di casari. Fanno il Bitto storico, come i Celti duemila anni fa, immersi nella natura della loro terra. Già a dirla così, questa famiglia allargata di pastori sparsi per la montagna sembra la messa in scena di un presepe. Molti di loro hanno meno di trent’anni. Un dato insolito, che mette speranza.

La strada sterrata è sconnessa. Il fuoristrada sale lento ma inesorabile. È abituato a questi tracciati e ha i suoi ritmi. Io fremo. Appassionato di corsa in montagna vorrei scendere e salire con le mie gambe. Lo farò magari più tardi, al termine della giornata. Massimo invece soffre di vertigini e guarda verso monte. Io gli mostro continuamente la vallata mozzafiato e lui abbassa le palpebre. Mi sopporta.

Se c’è una parola capace di definire le montagne della Valtellina, questa è verticale. Attorno a noi pareti verticali di abeti che sembrano crescere uno sull’altro: le radici sulle punte. E in mezzo rocce e fenditure. In fondo, il fiume; ma non si vede, è troppo in basso. Si perde, come nel nero di un pozzo.

È uno spettacolo che mette un po’ di paura. Chissà com’era ieri notte sotto il diluvio…

Quando arriviamo in cima, Mosè ci aspetta con i suoi tre figli: due maschi e una femmina. È lei la mente del gruppo. Hanno già munto le vacche e adesso devono portare nel calécc un grande paiolo di rame dove faranno scaldare il latte. Uno dei figli di Mosè incastra due vecchi sci incrociati tra i manici del paiolo, lo solleva, lo rigira e se lo carica sulla testa, poggiando il collo sui legni.

Inizia a salire. Inesorabile come il fuoristrada di Paolo. Il paiolo pesa un centinaio di chili, il calécc dista un centinaio di metri. Intendiamoci, cento metri di dislivello.

Massimo sta filmando un pezzo di storia antica. Queste persone vivono e lavorano come i Celti che abitavano queste montagne mentre i Romani li ricacciavano verso nord. Lavorano il latte e fanno il formaggio nelle stesse pietre dei druidi: i calécc, appunto.

I calécc sono costruzioni in pietra a base rettangolare; sembrano le strutture di edifici crollati e la prima impressione è che siano dei ruderi. Invece sono le antiche casere di pascolo, progettate e costruite apposta per lavorare il latte appena munto. Il segreto del Bitto storico e della sua capacità di invecchiamento è proprio nella lavorazione a caldo. Ma non è solo questo. Non è mai una sola parola a fare poesia…

Davide posiziona la sedia all’interno del calécc e dice che «questa è la montagna perfetta, che appare oggi com’era 60 milioni di anni fa!».

In valle ci sono quattordici alpeggi che si susseguono regolari; ognuno è abitato da una famiglia di casari, dalle loro mucche e dalle loro capre. Conservano patrimoni antichi; ospitano piante, animali ed esseri umani che da sempre vivono in armonia con la natura. Poi Davide parla del Bitto storico e dice che è l’unico formaggio al mondo capace di invecchiare oltre dieci anni. Svela che il suo nome deriva dall’antico termine bitu, che significa perenne. Sbagliavo: una sola parola ed è già poesia.

Paolo ci guida alla scoperta del territorio e della sua immensa fragilità. Lo scenario è grandioso, ma debole. Basta poco per buttare giù le montagne. Lui non è uno dei quattordici casari, ma è la persona che li rappresenta tutti; come dice Davide in trasmissione «è l’uomo che prima di tutti e meglio di tutti ha capito l’importanza del Bitto storico e la necessità di continuare a produrlo partendo dal rispetto assoluto per la natura».

Le vacche mangiano solo erba di pascolo, sono munte direttamente in malga e il loro latte lavorato ancora caldo nel calécc, usando strumenti di legno. Quando l’erba è finita e il campo ben concimato dagli animali, la mandria sale e si sposta nel pascolo più in alto, in un altro calécc.

Si fa sempre così, da sempre.

Il Bitto storico è il formaggio dell’erba. Ogni valle ha i suoi prati e i palati fini li riconoscono tutti. Sfumature preziose. Paolo ha realizzato nel comune di Gerola Alta il centro di stagionatura del formaggio dove ci siamo visti questa mattina e dove Mosè e gli altri casari portano le forme che hanno prodotto in malga. Il pascolo dura tre mesi all’anno, il resto è neve e ghiaccio. Per gli allevatori, stalla e latteria. Il centro di stagionatura diventa così anche un luogo di conoscenza, oltre che di valorizzazione della produzione; uno spazio vivo dove l’emozione dell’alpeggio dura tutto l’anno. Mentre le forme maturano, la gente si ritrova, assaggia, acquista, discute, ascolta, impara.

La conoscenza è sempre alla base del rispetto ed è necessaria per difendere mondi grandi, ma fragili. A un certo punto del pomeriggio, le capre che si erano spinte in basso tornano in quota. Vedere a più di duemila metri un branco di capre orobiche che risale la montagna è uno spettacolo da non perdere. Massimo filma tutto mentre Davide si alza dalla sedia e si avvicina a Mosè. Il gregge adesso corre. Il pastore le chiama con piccoli versi pronunciati a labbra strette. Sono suoni indistinti. Se non fossi a pochi metri da lui non li sentirei.

Le capre sono inarrestabili; le corna lunghe, il mantello folto e scuro che svolazza lungo il pendio. Hanno seguito il sentiero alto. Sono salite sopra di noi e adesso scendono in picchiata. La parete è verticale, ma per loro è pianura. Mosè continua a chiamare. In un istante sono su di lui e il vecchio casaro viene risucchiato dal gregge. Lui è il capo, e poi ha le tasche piene di sale… Ne dà un po’ anche a Davide. La mandria, allora, s’interessa a lui.

È come essere allo zoo, solo che qui gli animali sono liberi; noi siamo liberi.

La serata è a tavola. C’è del pane, un po’ di affettato e tanto formaggio. Bitto storico di varie stagionature. Abbiamo tutti fame e mangiamo di gusto. Peccato. Non bisognerebbe mai avere fame per apprezzare i sapori. Si perdono i dettagli, sfumano le differenze.

Paolo suggerisce di masticare a lungo. Anche minuti. Così il palato diventa la cassa armonica di uno strumento musicale. I sapori come note. Ogni bocca una musica diversa. Ci regala una fetta di Bitto storico a testa.A casa lo mangerò così. Senza fame.

Bene, ora è tempo di andare.

Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Però, prima di chiudere la sedia e rimettersi in cammino, Davide guarda il pubblico nascosto dietro la telecamera di Massimo e dice: «Se venite in Val Gerola e vedete un calécc, fermatevi davanti alle sue pietre: sentite il profumo dell’erba e ascoltate la storia degli uomini e della natura di queste valli: è talmente antica da meritare un grande futuro. Perenne, come il Bitu…».

Venite in Val Gerola, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Perché questa è anche casa vostra.

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Grapppoli d’aceto.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia; il paese è Cormons, il paesaggio quello del Collio.

Pensavamo di arrivare in fretta, perché eravamo già nel Carso. E invece siamo stati risucchiati dal raccordo tra Villesse e Gorizia, costretti a passare e ripassare sotto il grande arco che simboleggia la porta d’Italia. La strada è un lungo cantiere.

Pare infinito. Davide guida. Il satellitare impazzisce e noi con lui. Percorriamo una ventina di chilometri in un senso e non troviamo l’uscita per Cormons. Pensiamo di averla mancata, distratti dalle chiacchiere, così torniamo indietro. Niente. Sparita. Forse sollevata dalle gru che lavorano sospese lungo la strada rettilinea.

Usciamo e rientriamo. Poi usciamo ancora e rientriamo un’altra volta. Infine decidiamo di proseguire all’antica, senza strumenti e sulle strade di paese. Abbiamo perso molto tempo. Ma non importa. Arriveremo. Attraversando le vigne che costeggiano il confine di Stato, ci domandiamo che senso abbia allungare il tempo della vita per poi accanirsi ad accorciare i tempi di vita.

Josko ci aspetta senza fretta nel bosco della Subida; la testa in Italia, un piede in Slovenia.

Abita qui, in un angolo di paradiso, dove attorno alla sua acetaia ha realizzato un vero borgo recuperando antiche case contadine. Una specie di villaggio delle fate. Un luogo magico, da vivere soprattutto di notte, appena rischiarato dalla luce delle stelle e da un pizzico di luna. Una di quelle notti di mezza stagione, in bilico tra sudore e brivido, quando il piacere di stare fuori si confonde con l’invito a rientrare.

La sera siamo suoi ospiti. La tavola del ristorante è un dizionario di cultura del territorio. I piatti della tradizione sono interpretati con intelligenza e proposti con rispetto. Anche orgoglio. La polenta la prepara lui sotto i nostri occhi, mentre parliamo di tante cose, tutte insieme. Come una zuppa. Sul focolare ha realizzato una struttura in ferro per girare il paiolo di rame sul fuoco vivo. Già ammirare il gesto vale il viaggio.

Ma intanto Mitja, il figlio di Josko, ci racconta della pasta che sta servendo. Si chiama “buttata” ed è un piatto in apparenza semplice; un dono della tradizione fatto di farina e uova che viene preparato e – appunto – buttato all’istante, quando in casa non c’è niente di pronto. Josko la serve in una specie di grande bicchiere di vetro, condita con verdure di stagione del luogo. «Quello che c’è, quando c’è…» dice.

Penso a quanta perfezione ci sia nella semplicità delle cose “buttate lì”; cose di tutti i giorni, ma con la forza di resistere al tempo.

La passione per l’aceto, Josko l’ha maturata coltivando quella per il cibo. Lui è un ristoratore, addirittura stellato; l’aceto gli serve per i suoi piatti. Per condirli, naturalmente, ma soprattutto per cucinarli.

Josko parla lento, ragiona su ciò che dice e ascolta. Qualità rare. Mi piace osservare l’esattezza dei suoi gesti a tavola, quel delicato equilibrio di forza e leggerezza. Certe cose le impugna, altre le sfiora.

Ascoltare. Domandare… Josko ascolta Mitja che parla dei cibi in tavola. Ogni tanto domanda qualcosa. Quando il figlio risponde, il padre ascolta. Qualità rare.

Quello dell’aceto è un mondo misterioso, per certi versi nascosto e poco considerato.

«L’aceto sta al vino come l’asino al cavallo» dice Josko con un lampo brillante. Sono pochi gli acetai d’Italia, meno di dieci in tutto.

Del resto, anche chi scrive di vino non parla volentieri d’aceto.

Domani, durante le riprese, Davide poserà la sua sedia su un’altura del Collio, si metterà comodo e spiegherà che all’industria bastano due ore per trasformare il vino in aceto: centoventi minuti appena, mentre Josko ci mette tre anni! Però il suo aceto è unico, perché non nasce dal vino, ma direttamente dall’uva.

E’ fatto con la Ribolla gialla, uno dei migliori vitigni del Collio. Come dire: da una grande uva, un grande aceto.

Dopo la vendemmia, Josko mette gli acini di Ribolla nei tini di rovere della sua acetaia; quella in legno costruita nel bosco, vicino alle case delle fate. Ci lavora sodo per una decina di giorni mescolando e rimescolando l’uva. Un’operazione che si chiama folatura. Qui dicono che viene “bagnato il cappello”, cioè vengono spinte sul fondo del tino le vinacce che galleggiano per effetto della fermentazione. Si tiene appunto “bagnato il cappello”.

Poi gli zuccheri diventano alcol, il cappello cade e allora bastano due folature alla settimana, per un anno intero!

A questo punto – tecnicamente – l’aceto è pronto, ma per Josko è ancora troppo giovane. Deve invecchiare, come il vino, in barrique di rovere per altri due anni.

Josko porta alle labbra il suo aceto. Increspa le rughe; sta sorridendo. Mi ricorda che oggi il mercato penalizza le differenze: smussa gli angoli perché tutto sia simile e stia nel mezzo. «I grandi numeri si fanno nel mezzo» aggiunge. L’aceto di Josko non sta nel mezzo. È lontano dalla media e distante dai grandi numeri. Una figura capace di staccarsi dallo sfondo.

Al termine delle riprese, Davide si sistema sulla sedia. Giulio, il designer, l’ha progettata bene, ma alla fine della giornata risulta sempre un po’ stretta. Inforca gli occhiali e apre il taccuino. Poi prende la matita e comincia a scrivere. Infine alza la testa, fissa la sigaretta di Massimo accanto alla telecamera ed esclama: «Dunque, centoventi minuti dell’industria contro un-mi-lio-ne-cin-que-cen-to-set-tan-ta-sei-mi-la minuti di Josko! Ma il suo aceto d’uva è speciale: ha l’anima della Ribolla gialla, la testa e il cuore di chi l’ha fatto e allevato come un figlio!»

Poi Davide si domanda cosa aspettino i grandi chef a scoprire un prodotto come quello di Josko. A me viene in mente che anche l’aceto ha una madre, come gli esseri umani…

Allora, se venite nel Collio e accarezzate una botte di rovere, ricordatevi che potrebbe contenere aceto. Il migliore.

Non dimenticatevi di annusare i profumi dell’ospitalità e gustare i sapori delle culture, che qui si incontrano e passeggiano mano nella mano lungo la linea di confine.

Per noi è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Come dice Davide: «Venite nel Collio, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Perché questa è anche casa vostra.»

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Il latte in via d’estinzione

Oggi è uscito il primo pezzo della nuova rubrica su mentelocale.it.
Appunti di viaggio in Val d’Aveto, lungo i sentieri della mucca Cabannina.
Una giornata ligure, alla ricerca di sapori unici nascosti sotto la rocca di Petramartina.

IL LATTE IN VIA D’ESTINZIONE (leggi l’articolo)

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la Tv da leggere.

“Paesi, paesaggi” viaggia anche in rete.
Su mentelocale.it l’anteprima della nuova rubrica dove raccontiamo cibo e territorio.
Una televisione da leggere…

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L’aceto di Josko

Ieri sera è andata in onda una nuova puntata di “Paesi, paesaggi”, dedicata all’aceto d’uva che Josko Sirk produce a Cormons, nel Collio friulano.
L’industria impiega un paio d’ore per produrre un buon aceto di vino; Josko ci mette tre anni per acetificare in botti di rovere la Ribolla gialla, un vitigno tipico del Collio.
Ma come dice Davide in trasmissione, il suo aceto è eccezionale!
Questo il link della puntata per conoscere la storia di Josko e del suo aceto:
http://www.striscialanotizia.mediaset.it/video/videoextra.shtml?18181

 

 

Il latte in via di estinzione.

Oggi siamo in Liguria; il paese è Rezzoaglio, il paesaggio quello della Val d’Aveto.

Ci aspetta Ugo, un ragazzo di mezza età nato in una valle del chiavarese, quando le case erano masserie autosufficienti e avevano il bestiame, l’orto, la vigna e il forno. Dopo aver studiato e lavorato in città per una trentina d’anni, Ugo ha deciso di tornare alle origini e risalire in montagna con un’idea fissa in mente: allevare la mucca Cabannina, tipica dei sentieri impervi e dei boschi fitti della Val d’Aveto. Nel pomeriggio, davanti alla macchina da presa, Davide spiegherà che «la Cabannina si stava estinguendo, perché si stavano estinguendo gli allevatori».

E’ una vacca piccola e robusta, che mangia poco e si accontenta di ciò che trova; i suoi piedi non si feriscono sulle pietre e le sue zampe affrontano i rovi come quelle dei cinghiali. Ogni tanto qualcuno prova a portare quassù le Frisone, abbagliato dal miraggio del guadagno. In genere non resistono al primo inverno. La Cabannina si arrampica come una capra e non si ammala mai. Quasi non conosce il veterinario. Partorisce dove capita e il suo latte è eccezionale. Ne produce poco, ma per tutta la vita. In valle si parla di esemplari capaci di superare i venticinque anni di età, con oltre quindici lattazioni!

Un latte davvero unico, quello della Cabannina. Un latte in via di estinzione, che rischiavamo di perdere per mancanza di mucche e di allevatori.

Massimo e io partiamo da Albenga al mattino presto. I chilometri per raggiungere Rezzoaglio sono pochi, ma la strada è tanta. Filiamo veloci fino a Chiavari, poi da lì imbocchiamo la provinciale e cominciamo a salire. Un viaggio nel tempo. Curva dopo curva ritroviamo un po’ della nostra storia. Il territorio, le comunità. Acqua di mare che bagna le radici del monte. Alberi che respirano sale. Liguria…

A Cabanne la strada spiana e il motore dell’auto respira.

Un migliaio di anni fa, i monaci avevano eretto da queste parti il santuario di San Michele de’ Petramartina. Nei loro piani doveva essere meta di pellegrinaggi, ma il territorio lo rendeva inaccessibile. La valle era paludosa perché il corso dell’Aveto era ostruito da una frana. Così, avevano cominciato ad accendere con meticoloso puntiglio dei grandi falò per spaccare le rocce, liberare il fiume e spianare la strada ai fedeli. Un’impresa biblica, da gente di fede, durata anni e capace di produrre la piana fertile che adesso percorriamo cercando un cartello che indichi la fattoria di Ugo.

La storia dei monaci di Cabanne è anche crudele. I pellegrini dell’alto Medioevo avevano effettivamente cominciato a frequentare la valle; non il santuario, però, ma altre chiese che nel frattempo erano sorte nel più agevole territorio. Il monastero era rimasto tenacemente abbarbicato alla sua rocca, chiamata appunto Petramartina.

Anche l’azienda di Ugo si chiama così, in ricordo di quella cengia che sovrasta l’Aveto e osserva immobile lo scorrere del tempo in riva al fiume. Una valle per gente paziente. Pescatori di trote…

Anche Hemingway era stato da queste parti e aveva paragonato l’Aveto a certi fiumi delle Montagne Rocciose. Lui però non era un tipo paziente. Un pescatore d’altura, più che da mosca.

Quando arriviamo a Petramartina non è più tanto presto. Davide è ancora in viaggio, mentre Ugo e sua moglie Serena stanno facendo il formaggio. Il famoso U’ Cabannin.

Motore, azione: Massimo inizia a lavorare. Io resto fuori. Guardo, penso. A modo mio, lavoro. Vedo un recinto e scorgo due mucche all’interno. Una di loro si avvicina allo steccato e mi tende il muso. Si chiama Raia.

Sta per partorire. E’ quasi pronta. Mi spiegano che potrebbe dare alla luce il vitello anche adesso, davanti a me. Nel caso, non saprei cosa fare. Ma non c’è da preoccuparsi: è Raia che sa cosa fare.

Dopo la casera, il pascolo. Davide è arrivato e ha indossato l’abito di scena. Mi stupisco ogni volta di come l’abito faccia il monaco. Me l’ha insegnato lui, lavorando in teatro. Con questo completo di fustagno scuro diventa un naturalista da campagna di fine Ottocento. Prende la sedia e se la mette in spalla come fosse una sciarpa; un gesto lieve, disinvolto. Poi s’inerpica lungo il sentiero con il passo deciso del camminatore. È un cercatore incallito di paesi e paesaggi.

Le mucche lo accolgono con un misto di curiosità e interesse. Non hanno mai visto un essere umano che si siede in mezzo a loro, parla nel vuoto e guarda fisso nell’obiettivo di una macchina da presa, con milioni di persone che lo ascoltano dall’altra parte del mondo. Ne approfittano per dire qualcosa anche loro. Muggiscono forte e quasi coprono le sue parole. Una vacca più anziana delle altre lo sfiora mentre Davide spiega che ci troviamo “a soli settanta chilometri da Genova, tra vallate di pascoli, castagneti e faggeti punteggiati da borghi e castelli feudali. Un territorio selvaggio, però modellato dall’uomo…”

Verso sera, quando terminiamo le riprese, le mucche tornano in stalla. Le loro giornate sono tutte simili, fatte di fieno e digestioni lente; scandite dai tempi delle mungiture e dai ritmi delle stagioni. Davide si toglie l’abito mentre noi restiamo a lato del sentiero. Osserviamo Ugo che raduna le mucche e le guida verso casa. Dalla stalla al pascolo, dal pascolo alla stalla. Tutti i giorni così, dal mattino alla sera. Albe e tramonti racchiusi in una collezione di giorni e notti.

Massimo filma. In silenzio, da lontano.

I gesti del pastore sono precisi, esatti. Netti come i versi della sua bocca e i movimenti delle sue mani. Sono ciò che le mucche conoscono. Ciò che a loro serve.  Allora, come dice Davide, «se venite in Val d’Aveto, fate amicizia con una mucca Cabannina e seguitela nei suoi sentieri. Se poi incontrate Raia, chiedetele del suo vitello e al mattino ricordatevi di guardare il sole che sorge dietro l’Appennino. Molti dei nostri figli non hanno mai visto un’alba, mentre i nostri nonni non ne hanno mai persa una…».

Il sole tramonta e sembra pure lui incamminarsi lungo un sentiero che dall’alto scende verso casa, al di là del mare.

Ugo ci offre un vasetto di yogurt bianco, fatto con latte di Cabannina e un pizzico di miele di Petramartina. Amo le api di Ugo, generose come le sue mucche. Il miele delle sue arnie vale il latte della sua stalla.

Bene, adesso è proprio tempo di andare.

«Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi» dice Davide alzandosi dalla sedia. Poi la chiude, se la rimette in spalla riprende a camminare. In lontananza, quasi sparendo nel bosco, la sua voce dice: «Venite in Val d’Aveto, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti».

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