14 ottobre 2013 - Grapppoli d’aceto.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia; il paese è Cormons, il paesaggio quello del Collio.

Pensavamo di arrivare in fretta, perché eravamo già nel Carso. E invece siamo stati risucchiati dal raccordo tra Villesse e Gorizia, costretti a passare e ripassare sotto il grande arco che simboleggia la porta d’Italia. La strada è un lungo cantiere.

Pare infinito. Davide guida. Il satellitare impazzisce e noi con lui. Percorriamo una ventina di chilometri in un senso e non troviamo l’uscita per Cormons. Pensiamo di averla mancata, distratti dalle chiacchiere, così torniamo indietro. Niente. Sparita. Forse sollevata dalle gru che lavorano sospese lungo la strada rettilinea.

Usciamo e rientriamo. Poi usciamo ancora e rientriamo un’altra volta. Infine decidiamo di proseguire all’antica, senza strumenti e sulle strade di paese. Abbiamo perso molto tempo. Ma non importa. Arriveremo. Attraversando le vigne che costeggiano il confine di Stato, ci domandiamo che senso abbia allungare il tempo della vita per poi accanirsi ad accorciare i tempi di vita.

Josko ci aspetta senza fretta nel bosco della Subida; la testa in Italia, un piede in Slovenia.

Abita qui, in un angolo di paradiso, dove attorno alla sua acetaia ha realizzato un vero borgo recuperando antiche case contadine. Una specie di villaggio delle fate. Un luogo magico, da vivere soprattutto di notte, appena rischiarato dalla luce delle stelle e da un pizzico di luna. Una di quelle notti di mezza stagione, in bilico tra sudore e brivido, quando il piacere di stare fuori si confonde con l’invito a rientrare.

La sera siamo suoi ospiti. La tavola del ristorante è un dizionario di cultura del territorio. I piatti della tradizione sono interpretati con intelligenza e proposti con rispetto. Anche orgoglio. La polenta la prepara lui sotto i nostri occhi, mentre parliamo di tante cose, tutte insieme. Come una zuppa. Sul focolare ha realizzato una struttura in ferro per girare il paiolo di rame sul fuoco vivo. Già ammirare il gesto vale il viaggio.

Ma intanto Mitja, il figlio di Josko, ci racconta della pasta che sta servendo. Si chiama “buttata” ed è un piatto in apparenza semplice; un dono della tradizione fatto di farina e uova che viene preparato e – appunto – buttato all’istante, quando in casa non c’è niente di pronto. Josko la serve in una specie di grande bicchiere di vetro, condita con verdure di stagione del luogo. «Quello che c’è, quando c’è…» dice.

Penso a quanta perfezione ci sia nella semplicità delle cose “buttate lì”; cose di tutti i giorni, ma con la forza di resistere al tempo.

La passione per l’aceto, Josko l’ha maturata coltivando quella per il cibo. Lui è un ristoratore, addirittura stellato; l’aceto gli serve per i suoi piatti. Per condirli, naturalmente, ma soprattutto per cucinarli.

Josko parla lento, ragiona su ciò che dice e ascolta. Qualità rare. Mi piace osservare l’esattezza dei suoi gesti a tavola, quel delicato equilibrio di forza e leggerezza. Certe cose le impugna, altre le sfiora.

Ascoltare. Domandare… Josko ascolta Mitja che parla dei cibi in tavola. Ogni tanto domanda qualcosa. Quando il figlio risponde, il padre ascolta. Qualità rare.

Quello dell’aceto è un mondo misterioso, per certi versi nascosto e poco considerato.

«L’aceto sta al vino come l’asino al cavallo» dice Josko con un lampo brillante. Sono pochi gli acetai d’Italia, meno di dieci in tutto.

Del resto, anche chi scrive di vino non parla volentieri d’aceto.

Domani, durante le riprese, Davide poserà la sua sedia su un’altura del Collio, si metterà comodo e spiegherà che all’industria bastano due ore per trasformare il vino in aceto: centoventi minuti appena, mentre Josko ci mette tre anni! Però il suo aceto è unico, perché non nasce dal vino, ma direttamente dall’uva.

E’ fatto con la Ribolla gialla, uno dei migliori vitigni del Collio. Come dire: da una grande uva, un grande aceto.

Dopo la vendemmia, Josko mette gli acini di Ribolla nei tini di rovere della sua acetaia; quella in legno costruita nel bosco, vicino alle case delle fate. Ci lavora sodo per una decina di giorni mescolando e rimescolando l’uva. Un’operazione che si chiama folatura. Qui dicono che viene “bagnato il cappello”, cioè vengono spinte sul fondo del tino le vinacce che galleggiano per effetto della fermentazione. Si tiene appunto “bagnato il cappello”.

Poi gli zuccheri diventano alcol, il cappello cade e allora bastano due folature alla settimana, per un anno intero!

A questo punto – tecnicamente – l’aceto è pronto, ma per Josko è ancora troppo giovane. Deve invecchiare, come il vino, in barrique di rovere per altri due anni.

Josko porta alle labbra il suo aceto. Increspa le rughe; sta sorridendo. Mi ricorda che oggi il mercato penalizza le differenze: smussa gli angoli perché tutto sia simile e stia nel mezzo. «I grandi numeri si fanno nel mezzo» aggiunge. L’aceto di Josko non sta nel mezzo. È lontano dalla media e distante dai grandi numeri. Una figura capace di staccarsi dallo sfondo.

Al termine delle riprese, Davide si sistema sulla sedia. Giulio, il designer, l’ha progettata bene, ma alla fine della giornata risulta sempre un po’ stretta. Inforca gli occhiali e apre il taccuino. Poi prende la matita e comincia a scrivere. Infine alza la testa, fissa la sigaretta di Massimo accanto alla telecamera ed esclama: «Dunque, centoventi minuti dell’industria contro un-mi-lio-ne-cin-que-cen-to-set-tan-ta-sei-mi-la minuti di Josko! Ma il suo aceto d’uva è speciale: ha l’anima della Ribolla gialla, la testa e il cuore di chi l’ha fatto e allevato come un figlio!»

Poi Davide si domanda cosa aspettino i grandi chef a scoprire un prodotto come quello di Josko. A me viene in mente che anche l’aceto ha una madre, come gli esseri umani…

Allora, se venite nel Collio e accarezzate una botte di rovere, ricordatevi che potrebbe contenere aceto. Il migliore.

Non dimenticatevi di annusare i profumi dell’ospitalità e gustare i sapori delle culture, che qui si incontrano e passeggiano mano nella mano lungo la linea di confine.

Per noi è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Come dice Davide: «Venite nel Collio, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Perché questa è anche casa vostra.»

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