3 marzo 2015 - Le botti con duecento anni di storia.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Castell’Alfero, il paesaggio la Valle Versa. Le coordinate geografiche sono 44°58’ Nord e 8°12’ Est.

Questa è una regione di morbide colline che sembrano lievi sussulti della pianura. Si esce ad Asti e si prosegue verso nord lungo una strada dritta e rettilinea. Poi le prime case, un cartello che indica il castello, la svolta a sinistra e una manciata di tornanti in salita per raggiungere il centro storico di Castell’Alfero, un borgo rialzato e adagiato su una terrazza naturale. La pianura si stende in basso, con le colline dei vigneti che si rincorrono da un podere all’altro; sullo sfondo la cerchia delle Alpi.

Osserviamo il paesaggio da un punto di vista privilegiato, che permette di vedere le cose con chiarezza. Tutto sembra racchiuso in un plastico talmente ben costruito da sembrare reale. Anche la Storia acquista una prospettiva viva. Scopro infatti che a Castell’Alfero è nato alla fine del ‘700 Giovan Battista de Rolandis, un giovane patriota la cui famiglia era già radicata nel territorio da secoli. Una casata nobile, di rango e di spirito. Tanto per dire, il padre di Giovan Battista si era laureato in medicina a Parigi e in Valle Versa svolgeva gratuitamente il mestiere di medico dei poveri. In certa misura, redistribuiva la ricchezza. Il figlio Giovan Battista iniziò la sua formazione presso l’Accademia Militare di Torino, poi la completò nel Seminario di Asti, un luogo frequentato da personaggi come don Giovanni Bosco e Benedetto Cottolengo.

De Rolandis è stato uno dei patrioti che hanno ideato il nostro tricolore: la bandiera che riprendeva gli ideali della Rivoluzione Francese ma che se ne discostava per rivendicare l’unicità dell’Italia e ribellarsi al suo generale Napoleone, colpevole di non aver sostenuto l’insurrezione del 16 settembre 1794.

Dall’alto del castello, Massimo inquadra il bianco delle nuvole, gonfie di libertà, e il verde della speranza custodita nei boschi e nei vigneti. L’oste del castello ci raggiunge nel cortile con una bottiglia di rosso; la stappa, la versa e mentre Massimo completa il filmato della bandiera, Davide brinda con Eugenio, il mastro bottaio protagonista della puntata.

Eugenio mi indica i tanti paesi della valle. In ogni villaggio c’era almeno un bottaio fino alla metà del Novecento. Adesso è rimasto solo lui, insieme al figlio Mauro. Sono la sesta e la settima generazione di una famiglia di mastri bottai da oltre due secoli. Un mestiere antico, dove la manualità dell’artigiano si fonde con la conoscenza del botanico e la sensibilità del vignaiolo. Un tempo le botti erano semplici contenitori, oggi sono veri e propri mondi, dove i buoni vini invecchiano e diventano grandi.

Sempre dall’alto, Eugenio mi indica una distesa di ordinate cataste di legna. Sono le assi che diventeranno le doghe delle botti. Restano lì, nel suo deposito, a maturare per anni all’aria aperta, in modo da acquisire aromi e perdere tannini.
Saliamo in macchina ed Eugenio mi spiega come nasce una botte, prima ancora che le doghe vengano tagliate.
– La qualità del legno è fondamentale, – dice.
– Quale legno? – domando.
– Rovere: Quercus peduncolata e Quercus sessili
– Ah… – borbotto, fingendo di capire. Poi, come assillato dal mito della filiera corta domando: – Vengono dai boschi della zona?
– No, – mi sorride Eugenio. – Dalla Francia!
– Ah… – borbotto, mentre camminiamo tra le torri di legna.

Le assi sono ordinatamente disposte e incrociate, da terra fino a un’altezza di alcuni metri. Sembrano i palazzi di una città. Passeggiare tra questi viali stretti mi ricorda il Cretto di Gibellina. Un assistente di Eugenio ci raggiunge con il montacarichi. Massimo apre il cavalletto e sale sul pianale con la telecamera. Io mi aggrego per scattare alcune immagini dall’alto. Quando scendiamo, Eugenio completa il racconto della legna prima che diventi botte.
– Erano i primi anni Ottanta, – dice, – quando con mia moglie mi sono avventurato in Francia alla ricerca dei merrendier, i tagliatori di legna specializzati nella produzione di barrique.
Troncais, Allier, Nevers, Cher sono i nomi delle foreste secolari che si estendono nel centro della Francia. Ogni regione boschiva presenta caratteristiche specifiche e il merrendier le conosce tutte alla perfezione. Ma devono conoscerle anche il bottaio e il vignaiolo, perché ogni legno possiede caratteri che trasmetterà al vino.

– Ah, les Italiennes, – sospira la moglie di Eugenio, ricordando quegli anni spesi a cercare di stabilire un contatto con i diffidenti francesi, eredi di Napoleone. Due tricolori a confronto.
– Oggi ci rispettano, – dice infine Eugenio. – Lavoriamo insieme da trent’anni e siamo garanzia di qualità gli uni per gli altri.
Sorride e lascia intendere che non è stato facile. Però quando gli chiedo perché vada proprio in Francia a prendere il legno, i suoi occhi si riempiono di ammirazione. Mi spiega che in quelle foreste si trova il rovere migliore, che viene lasciato invecchiare a lungo e tagliato ad arte solo nel momento giusto. Le querce salgono dritte come fusi alla ricerca della luce e vengono tagliate solo quando hanno almeno centosessant’anni. L’età è garanzia di stabilità, robustezza e ricchezza di aromi.

Eugenio si avvicina con Davide a una pila di assi. Con il temperino stacca una scheggia di rovere, la porta alla bocca e la mastica. Non credo ai miei occhi. Davide lo imita.
– È dolce… – dice, gustando il legno crudo.
– Assaggia questo, – gli suggerisce Eugenio, spostandosi davanti a una pila di assi più grandi.
– È più amaro! – esclama Davide. – Ci sono sentori di spezie, tabacco, torba…
Gli avevo visto mangiare di tutto: mai del legno. Il viaggio prosegue nel laboratorio, dove quattro operai stanno lavorando all’interno di una grande botte da quasi cento ettolitri. Le doghe erano state piegate con un sistema esclusivo ad acqua calda e vapore messo a punto proprio da Eugenio e suo figlio. Un metodo simile a quello che usavano gli Egizi nell’antichità e l’ebanista Michael Thonet nell’Ottocento per curvare le liste di faggio delle sue sedie. Adesso gli operai stanno inserendo il fondo della botte e lo incastrano con gesti precisi e ampi, le mazze che battono alternativamente sui cerchi e sulle doghe, all’interno e all’esterno della grande botte. Una specie di casa, senza spigoli vivi.

Eugenio e Mauro ci guidano infine nella zona della tostatura. Le doghe della barrique vengono tagliate leggermente più larghe al centro e strette in testa, poi accostate e assemblate in modo che combacino perfettamente. Infine vengono chiuse a un’estremità e la botte aperta, con le doghe ancora dritte, viene appoggiata su un braciere dove arde un fuoco vivo di legna di rovere. Le botti luccicano nell’oscurità con le fiamme che s’intravedono tra le doghe. Siamo in un luogo magico, una specie di forgia impregnata dei profumi del pane, dei biscotti, dei dolci.

Il calore piega le doghe senza spezzarle. A poco a poco, mentre il legno cede, una stringa di ferro viene posizionata sull’estremità aperta della botte e progressivamente serrata; poi si inseriscono i cerchi e infine, con la mazza, si batte l’opera alla ricerca della forma ideale. Un colpo al cerchio e uno alla botte, finché tutto nella barrique combacia e s’incastra alla perfezione.

Eugenio lavora con maestria. Gli operai lo osservano. Davide chiede se può provare e comincia a battere anche lui, accarezzando con la mazza il legno e i ferri di una giovane barrique. Il pastore tedesco di casa li osserva quieto, accucciato a terra: sembrano due percussionisti. Massimo, che ama le percussioni ed è segretamente un musicista, spegne la telecamera, raccoglie un legno da terra e comincia a battere sulle botti, unendo i suoi ritmi a quelli di Davide ed Eugenio.
Una specie di concerto, che segna il battere e il levare del tempo.

Tempo di andare, naturalmente, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.
Venite a Castell’Alfero, in Valle Versa; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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