30 dicembre 2015 - Il cicotto di Grutti.

Oggi siamo in Umbria. Il paese è Grutti, il paesaggio l’Altopiano Petroniano: un vasto pianoro sospeso a cinquecento metri di altezza. Le coordinate geografiche sono 42°50’ Nord e 12°28’ Est.

Arriviamo tardi e con il buio non riusciamo ad apprezzare l’ampiezza dello scenario. Rimandiamo all’indomani mattina, dal castello di Grutti, la vista d’insieme delle colline di Todi, Massa Martana e Montefalco. Siamo nel cuore dell’Umbria, nel centro esatto della regione. Il castello di Grutti è una suggestiva costruzione medievale del XII secolo con un torrione a base quadrata, alto una ventina di metri e largo otto. Accanto c’è la chiesa romanica di Santa Maria d’Agnello, realizzata in travertino sui resti di una precedente abbazia. È del XIII secolo, con alcuni tocchi gotici che slanciano le bifore, il portale della facciata e il tetto a capriata. Guizzi d’agilità in un’architettura solida e quieta.

Due giovani netturbini, un uomo e una donna, stanno pulendo con cura la piazza. Hanno bagnato il selciato, come avrebbero fatto due direttori della fotografia per renderla più luminosa. Attorno agli edifici storici si è creato un piccolo borgo di case in pietra. Davide cammina tra i vicoli, con il passo deciso e la sedia in spalla; i toni caldi degli abiti si riflettono sulla superficie lucida delle pietre umide. Ci allontaniamo dal centro abitato e ci avventuriamo nelle campagne alla ricerca di uno spazio aperto dove mettere la sedia. Procediamo verso nord e ci fermiamo nei pressi di un grande terreno scosceso appena seminato. Appollaiato sulla vetta del pianoro, Davide spiega che il paese si chiama Grutti perché il monte è pieno di grotte: profondi cunicoli scavati nel travertino che hanno offerto riparo e protezione alle prime comunità di cristiani. Quelle gallerie sono state catacombe, poi magazzini e ricoveri di campagna, infine rifugi antiaerei. Ci sforziamo di individuare almeno una delle grotte di Grutti, ma non è facile, perché molte sono nascoste dalla vegetazione dei campi, alcune sono interrate e altre sono impossibili da raggiungere.

Ci indicano una casa. Il proprietario ci accoglie e ci guida in uno spazio nascosto del suo terreno. Una ripida scala a chiocciola permette di scendere in uno stretto corridoio, tra un muro e il monte. Lì sul fondo c’è una piccola grotta, dove mi dicono sia stato partorito un bimbo; poi una galleria, lunga oltre venti metri, che s’insinua nel ventre della montagna. Marco, il nostro operatore, accende il faro della telecamera e si avventura ginocchia a terra nel cunicolo. Dopo poco sparisce e non sentiamo più i suoi passi.

– Non è un romanzo, non lo monterò mai! – grida Massimo, il regista – Basta un’inquadratura di un secondo!

Invece passano alcuni minuti. Massimo accende una sigaretta e sbuffa, un po’ di fumo e un po’ d’inquietudine. Poi Marco si materializza all’esterno della galleria, con l’espressione soddisfatta di chi sa di aver catturato delle buone immagini.

Il castello, il pianoro sospeso, la grotta; siamo felici delle prime riprese e possiamo iniziare a lavorare sul serio. Finora abbiamo giocato ai turisti – anzi, agli ospiti – lasciandoci guidare da Luca, il protagonista della puntata. Siamo venuti qui per parlare della porchetta e soprattutto del cicotto, la specialità di Grutti. Luca ha raccolto l’eredità del nonno Valeriano e con lo zio Mauro si dedica a questa antica arte della lavorazione del maiale che si tramanda di padre in figlio. A Grutti ci sono tre famiglie che producono la porchetta e il cicotto, ma quella di Luca è stata la prima. Mi racconta che il nonno possedeva il forno del paese e ogni volta che si ammazzava il maiale era una festa per tutti. La gente faceva la fila davanti al forno e le persone più povere aspettavano con una gavetta di metallo per raccogliere il grasso di cottura. Quel brodo avrebbe dato sapore alle zuppe e nutrimento ai bambini.

– E i mercati? – domando – Quando è nata la porchetta come cibo di strada?
– I mercati sono venuti dopo, negli anni sessanta – dice Luca – ma il nonno Valeriano aveva visto lungo e già nel dopoguerra andava con l’asino in giro per i paesi dell’Umbria, della Toscana e del Lazio. Con la bicicletta si recava a Viterbo per acquistare il sale migliore, poi cucinava la porchetta e la metteva in una cassa di legno, la caricava sull’asino e la vendeva nei mercati del bestiame, davanti alle chiese e nelle feste di paese. Stava fuori giornate intere e aveva tutta la sua rete di conventi e locande dove fermarsi.

– Oggi usate i furgoni.
– Moderni autonegozi: comodi, veloci, igienici.
– Un’altra vita?
– Un’altra vita.

In realtà non è proprio un’altra vita. La passione e l’impegno sono rimasti gli stessi, la fatica è simile e la professionalità è molto aumentata. Ogni giorno, Luca e Mauro vendono la porchetta e il cicotto nei mercati della zona, da Marsciano a Perugia, da Terni a Tavernelle. Alla mattina presto, prima di lasciare il laboratorio, infornano il maiale; nel pomeriggio, dopo il mercato, preparano una nuova porchetta per il giorno seguente.

Tutto inizia con la scelta del suino, che proviene dalla Media Valle del Tevere. Ogni settimana, Luca e Mauro si recano negli allevamenti di fiducia e scelgono i capi migliori. Poi, una volta in laboratorio, disossano e conciano le carni. Davide indossa la parannanza e si dispone ad apprendere. Per lui è questo il momento più bello di ogni puntata di Paesi, paesaggi. Io esco e osservo la sua ombra che lavora in controluce, insieme a quelle di Luca e Mauro, oltre il vetro satinato del laboratorio. Intuisco i gesti, senza vederli.

Innanzitutto la disossatura, l’arte di non praticare troppi tagli, affinché durante la cottura la carne rimanga compatta. Poi la concia, con pochissimi ingredienti e nessuna dose: tutto q.b. – quanto basta – né troppo né troppo poco. Sale, pepe, finocchio fresco, aglio rosso di Cannara, tutto battuto a mano e cosparso solo dove serve. Quindi la ricucitura, con ago e spago. Davide imita i gesti di Luca e a poco a poco impara i nodi, intuisce i punti dove far passare il filo. Difficile dire dove finisca la norcineria e dove inizi la tessitura. Non sono molti i gesti degli artigiani. Infine la cotturalenta e paziente, che dura in media una decina di ore.

E il cicotto? Ricordate il grasso di cottura del maiale che la gente aspettava in fila davanti al forno con la gavetta in mano? Quello è la chiave di tutto; unito agli scarti del maiale opportunamente puliti diventa il vanto di Grutti: una vera delizia in versione street food. Orecchie, zampetti, stinco, lingua, trippa e altre interiora vengono infornate sotto la porchetta, per raccoglierne il grasso e le spezie.
– Vi assicuro, non si può spiegare! – esclama Davide addentando un panino al cicotto davanti al furgone di Luca e Mauro, nel mercato di Marsciano.
Poi aggiunge – Si deve assaggiare!

Oggi si fa un gran parlare di cibo di strada. È diventato di moda. Ma quanta storia e quanta cultura racchiude un panino al cicotto come quello?

Evviva l’Italia della qualità: ovunque sia, anche in strada!

Venite in Umbria, a Grutti; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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