23 dicembre 2015 - I ragni di D’Annunzio.

Oggi siamo in Abruzzo. Il paese è Rocca San Giovanni, il paesaggio la Costa dei Trabocchi. Le coordinate geografiche sono 42°15’ Nord e 14°27’ Est.

Bisogna immaginarselo questo tratto di costa adriatica, con le insenature, le scogliere, le colline ricoperte di oliveti che si tuffano ripide sulla spiaggia.

Tra la terra e il mare corre la vecchia linea ferroviaria, ormai dismessa. Un passo più in là affiorano i trabocchii ragni di D’Annunzio, simili a preistoriche creature anfibie. Il poeta si ritirava spesso su queste colline e i trabocchi erano parte integrante del suo paesaggio. Costruzioni apparentemente precarie, capaci invece di resistere al mare e distendersi verso il largo appoggiandosi agli scogli.

– Bisogna avere un po’ di immaginazione – dico a Massimo, il nostro regista, e a Marco, l’operatore, mentre usciamo dall’autostrada e percorriamo gli ultimi chilometri lungo la litoranea. Sono ore che guidiamo e ormai è buio. Ma soprattutto siamo immersi nella nebbia e non riusciamo quasi a vedere i cartelli stradali.
– Qui in inverno è spesso così – ammette Marino, il protagonista della puntata. Ci incontriamo all’ingresso del nostro albergo, poco dopo.
– Certi giorni – prosegue – al mattino e alla sera la nebbia è molto fitta. Poi si alza, quando arriva il calore del sole.

Marino è un giovane pescatore e agricoltore, proprietario del grande trabocco di famiglia che ha recentemente restaurato, sotto la supervisione attenta del padre. Mi spiega che i trabocchi sono gli antichi strumenti di pesca degli agricoltori della zona. Quegli uomini ingegnosi e coraggiosi, non possedevano barche e nemmeno sapevano nuotare, così inventarono queste strutture in legno per spingersi al largo, senza muovere un passo da terra.

Il ristorante dove ceniamo è proprio sulla spiaggia, di fronte al trabocco di Marino. Prima di sederci a tavola, torce alla mano, ci avventuriamo sullo scheletro del dinosauro addormentato. La passerella affiora nella nebbia e il corrimano offre un appiglio sicuro.
– Un tempo non c’era – dice Marino camminando sulle acque davanti a noi. Poi esclama: Sul trabocco saliva solo il traboccante: era troppo pericoloso!
Il trabocco è bellissimo e suggestivo. Vorrei descriverlo, ma nella notte e nella nebbia, con la luce fioca della torcia che rimbalza negli occhi, posso solo immaginarlo. Tornati nel ristorante, definiamo il programma delle riprese. Massimo, il regista, è determinato a filmare la creatura lignea avvolta dai fumi della nebbia che si dissolvono tra i bagliori rosati dell’alba. Ha un’immagine precisa in mente. Domattina presto sarà lì, sulla spiaggia, ad aspettare che il quadro si formi nell’obiettivo della telecamera.

L’indomani mattina, appena sveglio, guardo fuori dalla finestra in cerca dell’alba. È ancora buio e la nebbia è sempre fitta. Mi vesto con calma e scendo a fare colazione. Sono tutti lì, tranne Massimo e Marco. Loro sono sulla spiaggia, ad aspettare l’immagine giusta, quella che non arriva mai se non le vai incontro. Li troviamo infreddoliti, con la telecamera spenta. Marino è con loro, un po’ dispiaciuto. Ha il telefonino pieno di immagini di tramonti e albe mozzafiato che fanno da sfondo al suo trabocco, il Sasso della Cajana.
– Cosa significa Sasso della Cajana? – domando.
– Sasso è lo scoglio, cajana il gabbiano: scoglio del gabbiano.

Guardo verso il mare. Scorgo la prua del Sasso della Cajana, da dove sporgono le antenne, due lunghi pali che sorreggono la rete. C’è una coppia di gabbiani in controluce che distendono il corpo mentre il sole affiora nel cielo. Aprono le ali; le sbattono nell’aria schizzando gocce d’acqua. È il segnale. La nebbia si sta dissolvendo e possiamo cominciare. Marco, l’operatore, accende la telecamera.
– Azione! – esclama Massimo, mentre Davide mette la sedia in spalla e s’incammina lungo la passerella del trabocco per raccontare una nuova storia.

Come dicevamo, i trabocchi sono le antiche costruzioni realizzate dai contadini per pescare. Sono enormi camminamenti costruiti sugli scogli: architetture d’aria, fatte con materiali di risulta e legni di pino o di acacia.

Marino è un moderno traboccante, un giovane pescatore che ha recentemente restaurato il trabocco che era del padre e prima ancora del nonno. I pali sembrano disposti a caso, ma sul trabocco niente è per caso. Su queste strutture essenziali e funzionali, c’è spazio solo per ciò che serve dove serve. Tutto deve essere leggero e solido, capace di parlare con la natura e resistere al vento e al mare. I legni si spaccano a mano e si toglie la corteccia, poi si infilano tra gli scogli e quando si gonfiano d’acqua formano delle strutture solide.

Il trabocco è una creatura viva: è sempre lui che chiede al suo traboccante dove mettere o togliere un palo. Marino mi racconta che quando restaurava il Sasso della Cajana, spesso gli capitava di mettere un palo che credeva fosse necessario. Poi, una volta terminato il lavoro, il trabocco gli tornava in mente e lo svegliava di notte, con il ricordo confuso del suo intreccio di pali. Marino non si dava pace, finché capiva l’errore. Allora tornava sul trabocco e toglieva il palo di troppo, quello che pensava giusto e che invece appesantiva la struttura. Il legno che irrigidiva invece di irrobustire.

In fondo alla passerella c’è la zona di pesca vera e propria, con le antenne e la rete, chiamata trabocchetto.
– Una trappola, un tranello, da cui il nome: trabocco! – dice Davide durante le riprese. Poi si alza di scatto e aiuta Marino e il padre a muovere il grande argano. D’istinto si butta all’estremità del palo. Il padre di Marino, l’anziano traboccante, lavora invece all’inizio del legno, proprio accanto alla ruota dell’argano. L’esperienza gli suggerisce di posizionarsi là, dove farà meno fatica e il gesto sarà più efficace.

La rete adesso è in acqua. Il pesce si avvicina. Marino scruta il mare dalla prua del trabocco: un pulpito che sembra una balconata sull’Adriatico. Quando il pesce arriva al centro della rete, lancia l’ordine di salpare. Gli uomini all’argano ricominciano a girare in senso contrario e sollevano la rete sopra la superficie del mare. È molto pesante, gonfia d’acqua. Per catturare il pescato, che guizza nell’aria al centro della rete, si usa uno speciale guadino chiamato volega. Anche questo viene azionato da bordo del trabocco con un ingegnoso sistema di cime e carrucole che permettono di manovrarlo a metri di distanza.

Pesce azzurro, spigole, cefali, novellame… Un tempo i pescatori erano contadinioggi sono anche ristoratori. Le leggi che avevano incentivato negli anni novanta il recupero dei trabocchi, permettono oggi di utilizzarli nei mesi estivi come piccoli ristoranti. Pochi tavoli, sospesi sull’acqua. E nei piatti, solo il pesce freschissimo del trabocco. La madre di Marino si mette ai fornelli e noi ci sediamo a tavola. Sarebbe tempo di andare, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi. Ma prima c’è una paranza da onorare. Nessuno cucina il pesce come il pescatore.

Massimo ci riprende con la telecamera a spalla, mentre mangiamo insieme a Marino e alla sua famiglia. La nostra gioia andrà in televisione.
– Anche questa è l’Italia della qualità!- esclama Davide, prima di chiudere la sedia e incamminarsi verso la terraferma lungo la passerella del trabocco.

Venite anche voi in Abruzzo, sulla Costa dei Trabocchi; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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