TRATTI
L’assedio di Parigi
Ed. Mobydick, 2011

Racconti, idee, pensieri “da una provincia dell’impero”. Luca Masia è presente al n. 86 della rivista di letteratura Tratti con un racconto originale dedicato alla Sicilia e all’opera dei pupi. La storia di Carlo Magno e dei suoi paladini, come nessun puparo l’ha ancora raccontata.La scena si svolge in un piccolo teatrino della Sicilia meridionale, grosso modo a Siracusa. Un puparo mette in scena per l’ennesima volta L’assedio di Parigi anche se in sala ci sono solo quattro spettatori: due bambini e i loro genitori. Un racconto lieve, un omaggio a un mestiere antico che parla il linguaggio della poesia. Una poesia spesso urlata alle orecchie, ma sempre sussurrata al cuore.

***

L’assedio di Parigi
di Luca Masia
(racconto originale scritto per la rivista «Tratti»)

Alla famiglia

Il puparo decise di andare in scena. Qualche sera prima aveva rifatto i conti e si era convinto che ci volevano almeno dodici spettatori per non andare in perdita. In sala adesso c’erano solo quattro persone: due bambini e i loro genitori. Ma siccome i bambini non pagavano, era come se fossero solo in due. Una miseria.
L’estate era quasi finita e la sera tiepida. Tutto sembrava sospeso, come in attesa di prendere una direzione. Le finestre del teatro erano aperte, ma non c’era più il caldo dei giorni scorsi; anche dietro la scena, nello spazio angusto dove lavorava il puparo, si respirava meglio.
Era quasi ora. Aveva messo in scena “L’assedio di Parigi” centinaia di volte, forse migliaia. Aveva cominciato da bambino, aiutando il padre. All’inizio stava in laboratorio e guardava. Alle volte chiedeva qualcosa, ma raramente il padre gli rispondeva. Di solito sorrideva e taceva. Quando era di buon umore diceva: “Guarda come faccio io”. Ogni tanto spiegava, e quelle volte bisognava stare attenti perché le cose le diceva una volta sola. Un giorno ebbe il permesso di toccare gli strumenti della falegnameria, poi l’onore di passarli al padre e infine l’incarico di rimetterli a posto al termine della giornata. Solo da adolescente gli fu permesso di salire sul palco. Doveva starsene in un angolo e rendersi invisibile. Si faceva d’aria e spariva nel buio delle quinte, per poi materializzarsi all’improvviso non appena coglieva un ordine del padre, impartito con un impercettibile movimento del corpo. Allora sgusciava dall’oblio, afferrava un pupo dalla rastrelliera e lo porgeva al puparo che lo afferrava e lo metteva in scena senza mai smettere di recitare.
Poi tornava nell’ombra. Invisibile, ma presente. Lì imparò ad amare il profumo del palcoscenico, quella sottile euforia intrisa di legno, vernici, resine e calore. Il calore del pubblico che palpitava dietro il sipario, e il calore dei pupi, che nelle mani del puparo sembrano vivi, fatti di carne e sangue e muscoli. L’ombra delle quinte fu il suo rifugio per molti anni, una terra di mezzo sospesa tra il pubblico e il niente. Un nulla a volte disperato che assediò sempre la sua vita oltre l’arte e il lavoro.
Ancora qualche istante. Il puparo si accese una sigaretta e aspirò lentamente. Non avrebbe dovuto fumare, gli faceva male alla salute. Però gli faceva bene alla voce, che per lui era importante come le mani.
Attimi. Giusto il tempo di tirare un ultimo profondo respiro, poi avrebbe spento le luci e si sarebbe disciolto nello spettacolo. Sarebbe diventato un corpo unico con i suoi pupi, si sarebbe trasformato nelle loro voci e nei loro gesti. Grida, suppliche, condanne, sortilegi, offese, perdoni: faceva tutto lui. Non aveva nessuno ad aiutarlo. Nessun figlio. Nessun bambino a cui dire: “Guarda come faccio io”.
Intanto che fumava guardava il pubblico. I bambini fissavano il sipario, cercando di intuire la storia che nascondeva. I genitori erano seduti dietro di loro, ma era come se non ci fossero. Sorridevano guardandosi intorno, forse imbarazzati di essere lì ma al tempo stesso confortati di essere soli. Cercavano lo sguardo dei figli, che però erano con la mente già sul palco. Per loro lo spettacolo era già iniziato.
Il puparo si gustò la situazione e sorrise. Ecco perché aveva deciso di andare in scena. Quei due bambini, che non avevano pagato niente, l’avrebbero ripagato della fatica. Era già successo altre volte. Sapeva come funzionava.
Un istante ancora, l’ultimo. Il puparo abbassò l’interruttore, spense la sigaretta e lasciò che un alito di fumo gli accarezzasse i polmoni e gli riscaldasse la voce.
Poi disse piano, quasi sottovoce:
– Benvenuti, signore e signori. Benvenuti all’Opera dei Pupi. Se avete un cellulare acceso, siete pregati di spegnerlo…
A questo punto cominciò ad alzare il tono, che divenne sempre più forte e deciso, fin quasi a gridare una rabbia cui era impossibile sottrarsi:
– Se avete fame o sete, sappiate che non potrete né mangiare né bere, e non cercate di sfuggire al vostro destino, qui sulle mura di Parigi assediata. Affrontate piuttosto con mano ferma la sorte e affilate le spade, gentile pubblico, perché quando i saraceni attaccheranno, i vostri corpi impauriti non avranno altra via di fuga. Potranno solo restare: piangere o combattere…

– Ecco, adesso parla di me, e dice che ho riunito la corte e che annuncio il pericolo. Poi dico: “Si chiami il prode Orlando!” ma qualcuno mi risponde che non c’è. Allora lo mando a cercare e tutto, dico tutto, finisce lì.
I pupi erano appesi sulla rastrelliera in attesa di entrare in scena. Fremevano. Ascoltavano le parole del puparo e attendevano il loro turno nell’ombra delle quinte, pronti a diventare parte dello spettacolo. Solo il re, Carlo Magno, se ne stava in disparte. Appeso a un’estremità del palo, guardava gli altri senza emozione. Il puparo, dovendo fare tutto da solo, aveva riscritto gli spettacoli eliminando alcuni personaggi. I meno importanti. E lui, nonostante fosse il re, era stato escluso.
Aveva ancora qualche battuta, ma sempre fuori campo. Tutti facevano riferimento a lui, alle sue decisioni e ai suoi ordini, ma nessuno lo vedeva. Era come uno di quei moderni dittatori che guidano i destini della gente nascosti agli occhi del mondo. Vivi ma inesistenti.
E invece Carlo Magno esisteva. Voleva esistere. Non avrebbe retto un altro assedio di Parigi fuori scena. E se proprio doveva starsene lontano dai bastioni, decise che sarebbe stato vicino al pubblico. Almeno questa volta. Senza che il puparo lo notasse, si sganciò dalla rastrelliera e si lasciò cadere a terra. Ammortizzò l’impatto con un’agile flessione delle gambe e scese i gradini che lo separavano dalla platea.
Lo spettacolo proseguiva con fluidità. Il prode Rinaldo aveva messo in fuga il re dei saraceni e lo stava inseguendo nella foresta.
Re Carlo scostò la tenda e allungò lo sguardo verso i bambini in sala. La sua attenzione fu catturata dal piccolino, un maschietto dalla faccia sveglia che seguiva i combattimenti con i movimenti del corpo e che si agitava sulla seggiola accompagnando quelle contorsioni con una serie infinita di grida trattenute. La sorella, più grande, seguiva con attenzione e sembrava interessata alla vicenda d’amore tra Rinaldo, Orlando e Angelica più che agli scontri armati.
Senza dare nell’occhio, il pupo scese i gradini del palco e s’infilò tra le sedie vuote, finché raggiunse quelle occupate dai bambini. I loro genitori non si erano accorti di nulla. In tanti anni di vita si era convinto che raramente i genitori si accorgono di qualcosa.
La bimba vide Carlo Magno giungere ai piedi del fratello e toccargli con la punta della spada le gambe nude. Intanto, sul palco, Orlando e Rinaldo combattevano selvaggiamente per disputarsi la mano di Angelica. La bambina disse:
– Guarda chi c’è!
Il bambino, richiamato dalla sorella, si accorse del re. Il pupo lo fissava dritto negli occhi come fosse uno dei suoi paladini. Il piccolo lo riconobbe subito, anche se non l’aveva mai visto in scena. Gli tese la mano e lo aiutò a sedersi accanto a lui.
– Ti piace lo spettacolo? – chiese il pupo.
– Aha…- rispose il bimbo senza staccare lo sguardo dalla scena.
– E’ la mia storia.
– Aha…
– Ecco, adesso mi si dovrebbe vedere perché sono agitato, e non riesco a prendere sonno. Capisci, sono preoccupato per l’assenza di Orlando…
Il puparo fece un rapido cambio di scena. Tolse il fondale della spiaggia e calò quello con le stanze del re mentre con la gola produceva il tono grave della voce di Carlo Magno che invocava il ritorno del nipote.
– Vedi, – disse il pupo al bambino, – fa la mia voce ma non mi fa vedere. Non ha bisogno di me!
– Aha…- disse ancora il bambino.
Il puparo stava adesso interpretando la scena in cui Ruggero raggiunge il castello del misterioso saraceno.
– Vedi, – continuò il pupo mentre il bambino teneva lo sguardo fisso sul palco, – Ruggero l’ho mandato io. Il puparo lo muove verso il castello perché io ho ordinato così.
– Aha…
– Aha? –  ripetè spazientito Carlo Magno. – Ma non sai dire altro?

Sperava che almeno il bambino avrebbe capito. Aveva provato a fare colpo su di lui mostrandosi vivo, parlandogli. Ma al bimbo interessava solo la storia. Nient’altro che la storia.
In quell’istante il re comprese che il suo tempo era finito.
Di colpo sentì il cuore indurirsi e farsi di legno. Anche i muscoli delle gambe e delle braccia s’irrigidirono. Si lasciò cadere dalla sedia e rovinò a terra, incapace di manovrare il proprio corpo.
A fatica appoggiò la schiena alle gambe della seggiola. Forse era giunto il momento di morire. Strano destino per un re morire senza gloria tra le fila deserte di un piccolo teatro di Sicilia.
Che desolazione morire senza che nessuno si accorga della tua morte.
Rimase immobile tra le gambe dei bambini e attese il momento.
A un certo punto si sentì leggero, senza peso, come sollevato da terra. Era una strana sensazione, gli sembrava di volare.
Da tanto tempo nessuno lo manovrava più e aveva scordato l’effetto che faceva essere presi per il ferro che gli spuntava dalla testa e che saliva verso il cielo, verso le mani del puparo.
Non era la morte ingloriosa dell’imperatore, ma la bambina che si era accorta di lui e lo sollevava delicatamente per metterlo a sedere tra lei e il fratello.
La bimba disse a bassa voce:
– Tutto bene, maestà?
Maestà? Forse il peggio era passato. Il pupo percepì un’onda lieve di calore che gli accarezzava il cuore e i muscoli. Le sue fibre ricominciarono a fremere, mosse dalle parole della bambina. Forse non tutto era perduto.
– Va meglio? – chiese ancora la ragazza.
Il re fece cenno di sì con la testa e abbozzò un sorriso.
Forse non tutto era perduto.
Da dietro sentì la madre che chiedeva ai bambini dove avessero preso quel pupo e ordinava loro di rimetterlo a posto subito dopo lo spettacolo.
Nessuno le rispose mentre la storia proseguiva spedita verso la fine. Il puparo ci sapeva fare, bisognava ammetterlo. Lui era la storia. I pupi erano prolungamenti delle sue mani. Ne aveva solo due, ma era come se fossero molte di più. La scena era sempre piena di azione: voci, gesti, salti, combattimenti, tutto filava liscio e senza intoppi. Era bello starsene lì, tra le gambe calde e abbronzate dei due bambini, senza niente da fare se non godersi lo spettacolo.
Vide Ruggero morire, per finta naturalmente. Poi Orlando e Rinaldo riappacificarsi e tornare a Parigi per difendere il suo castello. Sapeva che anche questa volta i saraceni sarebbero stati sconfitti e già pregustava quella piccola vittoria quando la bambina si chinò nuovamente su di lui e disse:
– Non dovete tornare al castello? Stanno arrivando i vostri paladini…
Anche il bambino si voltò di scatto e aggiunse:
– Se non vi trovano, magari muoiono…
Di colpo il pupo capì che la storia era la cosa che teneva tutto insieme, tutto unito, dentro e fuori dal palco. Capì che l’unica cosa veramente importante era avere una storia da raccontare. Il puparo e i bambini lo sapevano bene, e quella sera gliel’avevano insegnato.
– Avete ragione, – disse balzando giù dalla sedia e correndo verso i gradini che salivano a lato del palcoscenico.
Era già oltre la tenda quando sentì la madre dire:
– Bravi, avete rimesso a posto il pupo…
Carlo Magno, l’imperatore, si riappese alla rastrelliera e tutto tornò come prima.

Alla fine dello spettacolo il puparo si appoggiò alla spalliera che reggeva i fondali e prese fiato.
Era affaticato, ma sorrideva. Il re lo vide distintamente voltarsi verso di lui e lanciargli un’occhiata d’intesa.
Di là, in sala, i bambini applaudivano. Erano solo due, ma sembravano molti di più.
Il puparo li scorgeva oltre le pieghe del sipario ed era come se qualcuno, dall’alto, muovesse le loro mani.
– Che soddisfazione, – pensò.
Poi si voltò ancora una volta verso Carlo Magno.
Il re fece finta di non vederlo. Però sorrise dentro di sé e pensò:
– Che soddisfazione.


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