BLUE JAZZ CAFE’
L’aroma delle note
Ed. Mobydick, 2011

Faxtet è una formazione nata nel 1990 e diventata protagonista di un fruttuoso lavoro di ricerca legato all’abbinamento di letteratura e musica. Al caffè e all’aroma delle note è dedicato l’ultimo progetto discografico del gruppo. Luca Masia aggiunge alla musica del Faxtet le parole di un racconto inedito, giocato sul filo sospeso dei gesti di un musicista negro che vaga per le strade di Aleppo in Siria.

***

L’aroma delle note.
di Luca Masia

Un corpo immenso. Un quintale abbondante, ben distribuito su un paio di metri d’altezza ricoperti di pelle nera. L’uomo scende dal treno e cammina senza fretta verso il posto di blocco. In spalla ha uno zainetto; in mano regge la custodia di una cornetta. Prende il passaporto e lo porge a un soldato siriano che lo guarda incuriosito. Sul documento c’è scritto: Jazz.

Mr. Jeffrey Jazz, New York City, musicista.

Il militare dà un’occhiata allo zainetto. Poi apre la custodia della cornetta; non vede nulla e la richiude.

– Tourisme? – chiede in francese.

– Tourisme, – risponde Jazz.

Fa caldo. Una mosca vola con insistenza accanto al viso del siriano. Jeffrey Jazz segue i movimenti irrequieti dell’animale. Coglie una serie di note lunghe e basse, suonate da un violoncello e da una viola. Cattura un elemento musicale interessante e lo annota tra i suoi pensieri. La mosca si ferma un istante, poi riparte nervosa. Una tromba esegue una serie di acrobatiche evoluzioni. Poi la mano del soldato scaccia l’insetto e la musica sfuma.

L’arabo è stanco, accaldato. Vorrebbe tornare a casa, bere del caffè sotto un albero di fico, parlare con un amico. Il ritorno improvviso della mosca lo costringe a concentrarsi sul passaporto di Mr. Jazz.

Al corso gli hanno insegnato che «gli americani pericolosi sembrano uomini d’affari e hanno sempre i documenti in ordine. Alcuni parlano addirittura in arabo…»

Mr. Jazz non sembra un americano pericoloso.

Richiude il documento e con un cenno del capo gli fa segno di andare.

– Welcome in Aleppo, – aggiunge con un sorriso.

– Sukran, – risponde Mr. Jazz.

Alle volte basta poco.

Jazz raggiunge l’uscita della stazione. Nella sua testa riaffiora il tema di prima. C’è una scala mobile in lontananza. Dev’essere rotta, perché produce un suono grave e continuo. Un vigoroso contrabbasso esegue quella nota mentre la tromba ricomincia a volteggiare assieme a un sassofono. Un paio di violini discutono fitto fitto ancora più in alto. Loro volano.

Di colpo si apre la porta a vetri e Jazz viene investito da un’ondata di caldo secco. Istintivamente si passa una mano sulla fronte, ma non è sudato.

La musica è svanita. Fa troppo caldo anche per pensare.

Sale su un taxi e scende in Baron Street.

L’ingresso dell’hotel Baron è monumentale e dimesso al tempo stesso. Ha l’aroma intenso della storia, delle cose che sopravvivono al loro passato. L’interno è prezioso, ma sconnesso. Dietro al banco sono appese le foto di Lawrence d’Arabia e Agatha Christie. Accanto a loro le immagini di tanti diplomatici e avventurieri che Jazz non riconosce.

La sua stanza è al primo piano, affacciata sul giardino. Il profumo del glicine si mescola ai suoni dei clacson in strada. Mondi lontani che coinvolgono i sensi e generano nuove note. Jazz cerca di resistere all’ossessione della musica. Dalla tasca dei pantaloni prende un foglietto di carta con un numero di telefono. Poi si siede sul letto e lascia che la rete ceda sotto il suo peso. Si toglie le scarpe, afferra il cellulare, compone il numero, attende in linea.

Libero. Ecco un’altra nota che s’insinua nella sua mente e si trasforma in una nuova idea musicale. Nessuno risponde; Jazz non riattacca. La musica si sposta nello spazio; parte dalla nota del telefono e si lega al tema della mosca nell’aeroporto. Poi la scala mobile, i clacson delle auto, il profumo del glicine. La musica del caso.

Quando la comunicazione cade, anche le note svaniscono.

Allora Jazz si alza e si avvicina alla custodia della cornetta. La apre con un movimento lentissimo. Avvicina il naso all’apertura e assapora l’aroma dello strumento. Infine la apre.

Dentro è vuota, a parte una borsa di cuoio chiusa con un laccio.

Jeffrey Jazz lo scioglie.

Dentro c’è una piccola caffettiera smontata.

Accarezza con il palmo della mano l’interno del bollitore e lo riempie d’acqua fino alla valvola. Soffia sul serbatoio, prende il sacchetto del caffè e lo versa con attenzione. Non troppo, solo quanto basta. Pulisce il filtro con un soffio deciso, poi controlla che il cannello sia libero, infine avvita il bricco. Da una tasca interna della custodia della cornetta prende un fornelletto a gas, lo accende al minimo e mette la moka sul fuoco.

L’attesa del caffè è un piacevole momento di sospensione. La speranza di un futuro possibile. All’inizio c’è solo il suono vibrato della fiamma tenuta bassissima. Poi il momento magico del liquido scuro che affiora dal cannello e si raccoglie sul fondo del bricco. Infine un soffio di vapore, ultimo slancio verso l’alto, e l’aroma si diffonde nell’aria. Ecco, adesso. Con un gesto deciso Jazz toglie la moka dal fuoco e spegne il fornelletto. Apre il coperchio e avvicina il naso al caffè per catturare le note dell’espresso.

Vorrebbe versarlo in una tazzina e girarlo con un cucchiaino, ma non possiede né l’una né l’altro. Così, ancora una volta, si limita ad annusarne l’aroma e bere con la mente quella partitura di aromi.

Infine si alza. Prende la moka e rovescia il caffè nel lavandino del bagno, lasciando scorrere un filo d’acqua che guida l’espresso nelle viscere di Aleppo.

Nella stazione, il soldato siriano sta terminando il turno di servizio. C’è ancora uno straniero da controllare. Un tipo magro, asciutto, con i capelli biondi, mossi. Ha la pelle chiara, quasi bianca. Anche lui ha uno zainetto in spalla.  Il soldato lo osserva con un certo sospetto. Ma non sembra pericoloso.

Monsieur Type. Parigi, scrittore.

Jeffrey Jazz, intanto, ha lasciato la sua camera. Cammina raso i muri per sfuggire ai raggi del sole. Prosegue lungo Yarmouk Street verso la Cittadella. Tre donne saudite attraversano la strada all’incrocio con Bab Antakya. Jazz si ferma a osservare il loro passo rapido, nascosto dai burka neri che le rendono simili a nuvole di fumo che scivolano sull’asfalto tra le macchine.

Incrocia lo sguardo con una di loro. Dev’essere molto giovane e bella. Vede solo i suoi occhi, neri come la pelle di Jazz, ma liquidi e profondi come pozzi di petrolio. L’assenza del corpo rende importanti quegli occhi. Due buchi neri capaci di attrarre qualsiasi oggetto in orbita nello spazio.

Jazz attraversa di corsa la strada e si rifugia in una pasticceria all’angolo con Al Mutanabbi Street. Se gli occhi della giovane saudita erano lievi e acuminati come le note di un quartetto d’archi, questa è un’aria sfacciata da Grand Opera. Le voci di Billie Holliday e Louis Armstrong con dietro le orchestre di Benny Goodman e Duke Ellington messe assieme. Scaffali zeppi di maamoul ripieni di noci, datteri e pistacchi; vassoi colmi di baklava al miele, manciate di lokum che traboccano da preziosi vasi siriani. Nella testa di Jazz si forma un fronte sonoro compatto, un concerto dove archi, ottoni, legni, fiati e timpani si mescolano alle voci di tenori, bassi, baritoni, soprani, contralti. Una massa omogenea dove un orecchio ben allenato può distinguere anche sassofoni, trombe, contrabbassi e addirittura strumenti elettrici. Secoli di storia della musica danzano tra gli scaffali della pasticceria.

Jeffrey Jazz è stordito. Ordina una manciata di lokum ed esce, in direzione del suk.

Anche Type cammina verso il suk. Attraversa la grande moschea degli Omayadi e sparisce nel vortice di genti e merci.

Jazz si ferma ai margini del mercato, davanti all’hammam al-Nahsin. Un ingresso quasi nascosto, con una piccola insegna e una porta in legno. China la testa, scende i gradini e di colpo si trova immerso in un silenzio fresco, irreale.

Un uomo lo accoglie e gli porge un pezzo di sapone con un asciugamano bianco a righe orizzontali blu. Poi gli indica lo spogliatoio. Jazz ricambia il sorriso. Si toglie la camicia, i pantaloni e i sandali, poi si sfila anche i boxer e si avvolge l’asciugamano in vita. Entra nella stanza del bagno turco. E’ solo. Il fluire dell’acqua nelle vasche calde di marmo genera vapore e note, che affiorano nella sua mente ed esplodono come bollicine d’aria prima di aggregarsi e diventare musica.

Jazz si siede su una panca di marmo e lascia che il vapore abbracci il suo corpo. Poi si sdraia e resta immobile. Solo con la punta dell’alluce batte nell’aria il tempo delle note che gli si formano in testa e che nascono e muoiono al ritmo del respiro.

Mezz’ora dopo compare un inserviente che gli porge un asciugamano pulito e lo invita a bere.

– Thanx, dice Mr. Jazz, mentre altri uomini entrano nell’hammam e si siedono davanti alla televisione che trasmette un film in francese con i sottotitoli in arabo. Qualcuno di loro osserva Jazz mentre apre la custodia della cornetta. Poi gli si avvicina quando, dopo aver preparato la moka e messo il caffè sul fuoco, attende che il prezioso liquido spinto dal vapore risalga il cannello e si raccolga sul fondo del bricco. Infine gli sono tutti intorno quando il caffè sale verso la superficie e diffonde il suo aroma.

Ancora musica. Un castrato che gorgheggia e sfida la tromba di Miles Davis: una gara d’agilità e di sofferenza. Aroma di note.

Jazz l’annusa direttamente dalla caffettiera.

Non ha un cucchiaino per girare. Non ha una tazzina per bere.

Allora prende il foglietto e riprova il numero di telefono che suona sempre libero.

Gli avventori dell’hammam tornano al film. Jazz si alza, svuota la moka e la ripone nella custodia. Poi si veste ed esce.

Nel suk si lascia travolgere dalla corrente di vita nascosta. Pensa a un formicaio, e ai frammenti di note percussive che milioni di minuscole zampe producono battendo la terra al di sotto del mondo.

Monsieur Type sta accarezzando un asino carico di frutta che sosta davanti al banco dei profumi. Il padrone dell’asino è un ragazzo che compra un flacone di «Opium» ben contraffatto.

Type prosegue attraversando la zona dei tessuti. Poi ancora cibo: banchi di carne, frutta, spezie, dolci. Passa accanto alla bottega di un barbiere e scivola a lato di un negozio di squillanti lingerie. Milioni di parole si affollano nella sua mente. Storie che s’intrecciano e s’aggrovigliano nella matassa convulsa della vita racchiusa nel suk. Tante frasi, incipit, qualche buon finale. Come i violini, anche le parole volano.

Infine, dopo lo slargo del serraglio, il negozio dei tappeti.

Lo accoglie un anziano venditore. Type lo segue nel retro e appoggia il suo zainetto su una pila di preziosi Tabriz persiani. Altre persone – tra cui qualche occidentale – conversa sorseggiando caffè e succo di melograno. Parlano del senso della vita. Seduti sui tappeti, che sono come racconti. Assomigliano ai libri. Ogni punto è una parola, ogni trama una storia. Le vicende degli uomini, le ragioni delle loro esistenze.

L’anziano venditore prende un backgammon. Type si siede e i due cominciano a giocare. Che è come parlare, immaginare. Scrivere, suonare…

Jeffrey Jazz ha appena acquistato per poche lire un famoso profumo maschile rifatto molto bene. Supera i banchi dei tessuti mentre lo sfiora un asino carico di frutta tirato da un ragazzo. Nel suk coperto di Aleppo gli asini possono trascorrere un’intera esistenza. Nascere e morire in quel dedalo di strade, producendo valanghe di note con il battere e il levare dei loro zoccoli. Supera anche lo slargo del serraglio e si trova davanti al banco dei tappeti. Sulla porta del negozio c’è un vecchio che gli sorride con gli occhi.

Jazz risponde al saluto. Due passi, poi abbassa la testa ed entra.

Un uomo biondo sta giocando da solo a backgammon. Alza la testa e incrocia lo sguardo di Jazz. Il venditore di tappeti li osserva in disparte.

Jazz ascolta le note prodotte dai dadi che rimbalzano tra le pareti del backgammon. Le unisce in frammenti musicali che rimangono sospesi. Appoggia la custodia della cornetta accanto allo zainetto di Type. La apre e inizia la cerimonia del caffè: il rito sublime della preparazione. Il montaggio della moka, il caricamento dell’acqua, la giusta dose di polvere, il fuoco al minimo.

Quando l’aroma del caffè si diffonde nel negozio di tappeti, Jazz avvicina il naso al bricco.

In quel preciso istante Type smette di giocare.

Dallo zainetto estrae la custodia di una vecchia macchina per scrivere. E’ di pelle scura, con la scritta «Underwood» sbiadita. Type la apre. Con infinita lentezza.

Dentro è vuota, a parte una piccola borsa di cuoio chiusa con un laccio.

Type lo scioglie.

Dentro ci sono una tazzina e un cucchiaino.

Lo scrittore francese porge il cucchiaino al musicista americano, che per la prima volta si concede il piacere di girare il caffè, lasciando che l’armonia di note dell’espresso si formi mescolando il fondo con la superficie.

Poi Type prende la tazzina e Jazz versa il caffè.

Per la prima volta, Mr. Jazz beve il suo espresso.

Solo un sorso, l’altro è per monsieur Type.

A questo punto Jazz prende dalla tasca dei pantaloni il foglietto di carta con il numero di telefono. Lo compone e lascia squillare.

Type finisce di bere e appoggia a terra la tazzina; non risponde al cellulare mentre dispone i pezzi del backgammon.

Jazz si siede di fronte a lui.

L’anziano venditore di tappeti ha concluso il suo racconto. Gli occidentali sorridono compiaciuti. Finché una giovane donna chiede:

– Finisce così?

– Proprio così, – risponde il venditore di Aleppo. – Dopo un buon caffè, l’uomo con la musica in testa e l’uomo senza parole cominciarono finalmente a giocare.


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