BREVEMENTE
Ed. Mobydick, 1996


Quattordici racconti brevi e brevissimi di altrettanti autori della nuova narrativa italiana. Un libro scritto da Eraldo Baldini, Giancarlo Baroni, Marcello Fois, Guido Leotta, Giuseppe O. Longo, Carlo Lucarelli, Gian Ruggero Manzoni, Luca Masia, Fabio Mongardi, Giovanni Nadiani, Bernarrdino Prella, Daniele Serafini, Stefano Tassinari, Paola Lauretana Vitali per festeggiare i primi dieci anni di vita delle Edizioni Mobydick.
Quattordici racconti da leggere tutto d’un fiato per non dimenticare il bene prezioso che risponde al nome di buona lettura.
La pubblicazione è stata distribuita anche in allegato all’ultimo numero del 1996 della rivista Avvenimenti.
Nel 1998, il volume è stato tradotto in Gaelico e pubblicato a cura del Ministero della Cultura Irlandese con il titolo “I mBeagàn Focal”.

***

Lo Strumentista
di Luca Masia
(racconto originale scritto per la raccolta “Brevemente”)

La stagione di pesca stava per cominciare e la locanda si riempiva di fumo e di marinai. Lo straniero si fece largo tra loro e si avvicinò al tavolo del signor Tuna.
“So che cercate uno strumentista di bordo.” disse.
Il signor Tuna alzò gli occhi su di lui e lo squadrò a lungo. Poi li riabbassò.
“Tu non sei uno strumentista.”
Lo straniero allora si sedette al suo tavolo.
“Di preciso no.” disse a bassa voce. “Io non suono nessuno strumento, se è questo che intendete. Però canto, e molto bene anche. Qualsiasi cosa lei voglia sentire io sono capace di cantarla. E in confidenza le dirò anche che qualche strumento, con la voce, riesco a farlo piuttosto bene. Perché non mi mettete alla prova?”
Il signor Tuna sorrise. A lui servivano strumentisti veri, gente capace di leggere sul quadrante dello scandaglio e del radar i più segreti movimenti del pesce, e tuttavia quel giovane gli era simpatico. Si guardò allora intorno cercando uno spunto, e quando vide l’oste che versava della birra in un boccale, spillandola da una piccola botte sospesa sopra il bancone, disse:
“Cantami una canzone sulla birra.”
Lo straniero a sua volta sorrise. A lungo. Lo fece per prendere tempo, perché di canzoni sulla birra non ne conosceva nemmeno una. Poi però si voltò anch’egli verso l’oste e vide ciò che gli serviva. Seguì il movimento della birra che usciva dalla botte e scorreva lungo il vetro inclinato dei boccali. S’infilò allora in quel rigagnolo giallastro, orlato di schiuma e invaso di bollicine. S’immaginò la vita all’interno della botte, quando il liquido riposa e i colori ancora non esistono, quando tutto è immobile, vivo, ma inerte.
Iniziò con una nota lunga, bassa e sofferta. Senza allegria. Una nota in minore che affiorava dal suo corpo e una volta nell’aria vibrava aggrappandosi alle pareti della locanda.
Il signor Tuna appoggiò il cucchiaio al bordo del piatto.
Lo straniero socchiuse gli occhi e inclinò la testa. Dalle sue labbra usciva sempre la stessa nota, ma di una tonalità leggermente più alta. Cantava una nota sola, niente di più, eppure era già il primo movimento di una sinfonia.
Un rapido fraseggio s’appoggiò a quella base e salutò la gioia della nascita. La birra usciva dal buio della botte, incontrava la luce, i colori, lei stessa si tingeva di giallo, se ne meravigliava quasi, e suggeriva una cascata di note cristalline che si ammucchiavano le une accanto alle altre. Ma non era un virtuosismo fine a se stesso. Lo straniero non cantava più per essere assunto, non cercava di stupire nessuno. Non stava suonando uno strumento musicale. Lui era la musica, senza intermediari, senza corde né archetti, tasti o legni, perni o leve. Non la suonava, ma la portava dentro di sé. La musica era nel suo corpo: era muscoli e aria e polmoni.
Poi l’ordine. La mano dell’oste reggeva il boccale colmo di birra e lo appoggiava al vassoio. Ogni goccia di liquido era adesso inquadrata, allineata alle altre, e così anche le bollicine e gli sbuffi di schiuma che s’incurvavano oltre il vetro. Le note divennero allora più austere, l’andamento quasi marziale, il ritmo incalzante. Con un angolo del corpo lo straniero produsse un violino e picchiando con forza le mani contro il petto anche dei timpani. Stava per consumarsi la fine del sogno: la perfezione, il luogo ideale delle cose stava per svanire mentre la zuppa del signor Tuna si ghiacciava.
Lui, immobile, ascoltava.
Poi la fine. Il boccale vuoto. Solo melanconiche tracce di schiuma restavano aggrappate alle pareti prima di raccogliersi sul fondo, senza forze. Lo straniero si avviò a concludere con un’altra nota lunga. Bassa come quella d’inizio, ma che invece di crescere andava spegnendosi nel brusìo del locale. E mentre quella nota cupa e grave moriva, con la coda dell’occhio si accorse che la vita, intorno a lui, andava avanti. Che altra birra veniva versata, che altre botti salivano dalla cantina. Allora ebbe un sussulto e in un angolo della bocca, tra il palato e la lingua, raccolse un flauto. Vi soffiò delicatamente e chiuse, questa volta per davvero, con un ricciolo di speranza. Con un delicato e tremulo serpentello di note che incerto saliva verso l’alto e spariva alla vista e all’udito, lasciando di sé solo un piacevole ricordo.
Musica. Solo musica.
Il signor Tuna non aveva più fame né sete.
“Sei assunto!” disse. “La paga non è alta, la vita a bordo è dura, ma perdio, se ancora lo desideri, quel posto di strumentista è tuo.”


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