SAN BENEDETTO. UN LUNGO SORSO DI FRESCHEZZA.
Sessant’anni di cultura dell’innovazione e rispetto per l’ambiente

Mondadori, 2015

La macchina della famiglia Zoppas parte al mattino presto da Conegliano e sale verso le Alpi bellunesi. È vacanza, tempo di montagna. Poco prima di San Vito di Cadore c’è una sorgente. L’auto si ferma e accosta vicino alla fonte.

Ci sono già altre persone; qualcuno beve solo un bicchiere, altri riempiono bottiglie e damigiane che riporteranno in città. Il piccolo Enrico scende dall’auto. Non ha sete, però obbedisce ai genitori e insieme ai fratelli beve quell’acqua che dicono sia miracolosa.
Tutta la famiglia si unisce a lui e celebra il rito. 
Oggi, quella fonte esiste ancora. Però, vicino allo zampillo, c’è un cartello con la scritta “Acqua non potabile”.
Nell’immediato dopoguerra, l’Italia era disseminata di fonti che si credeva avessero proprietà benefiche e curative. Sorgenti considerate millenarie, dal passato avvolto nella leggenda. Spesso si trattava di acque solforose, quasi imbevibili, che emanavano un odore caratteristico e insopportabile. Alcune erano addirittura chiamate “acque marce” e più erano cattive più si pensava che facessero bene. L’acqua per molti era una specie di medicinale: una piccola punizione necessaria alla salute. L’acqua minerale, come la intendiamo oggi, quasi non esisteva nelle case degli italiani. Si consumava al bar, in prevalenza gassata, e il più delle volte veniva usata per allungare il vino o preparare aperitivi come lo spritz, con vino bianco frizzante e una scorza di limone.
Soprattutto in Veneto, il consumo di vino era molto alto e la qualità media del prodotto piuttosto scarsa. Per reggere oltre 100 litri di vino a testa all’anno, i consumatori avevano bisogno anche di acqua, molta acqua. L’oste allungava il vino nel bicchiere e permetteva a tanti clienti di tornare a casa in piedi, senza cadere dalla bicicletta.

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Prefazione di Ferruccio De Bortoli

C’è una frase, riportata in questo libro, che Luigi Zoppas dice al figlio Enrico: “Un tempo il problema era sopravvivere. Non si mangiava per vivere e il piacere non era nel cibo ma nello stare al mondo”. Descrive perfettamente lo stato d’animo delle famiglie nell’immediato dopoguerra, e racchiude in sé anche il valore di un passaggio di testimone generazionale tra un imprenditore e suo figlio. Si cominciava a intravedere, in quegli anni, uno scorcio di benessere che veniva però vissuto addirittura con un senso di colpa. Il ricordo dei dolori e delle privazioni, non solo della guerra, era ancora inciso nella carne della gente, era impresso nella memoria collettiva.

Si stentava a credere che quello che si possedeva – persino il semplice ingrediente di una modesta cena – potesse rappresentare una conquista duratura. Una condizione psicologica che riassumeva la saggezza e il senso pratico di un’Italia ancora contadina, timidamente affacciata alle soglie del benessere, temprata nel carattere dallo spettro della fame e dai rigori di inverni gelidi. Gente non ancora abituata al consumo, talvolta vissuto addirittura come uno scialo, ma consapevole che sacrificio e lavoro venissero prima o poi premiati.

In questo piccolo ritratto identitario degli italiani della seconda metà del Novecento – e specie degli abitanti di quel Nord-Est dal quale ancora si emigrava in massa – si trovano le radici di un’imprenditorialità ruspante e irrequieta ma solida e concreta. Legata alla terra, al proprio modo di essere, ma non chiusa, aperta al mondo.

Con un’inarrestabile curiosità di conoscere e sperimentare. Abituata a stare in fabbrica come nei campi. A lavorare accanto ai propri dipendenti, gomito a gomito, quasi confondendosi con essi. La dedizione al lavoro di Bruno ed Ermenegildo Scattolin, gli iniziatori dell’avventura dell’Acqua San Benedetto – che sgorga da un campo di radicchio della piana di Scorzé – ne è una prova. L’industria come prosecuzione dell’attività agricola. E l’acqua, elemento senza il quale non si coltiva nulla, non può che esserne il simbolo per definizione. La tenacia e la visione di Giuliano De Polo che, per lunghi anni, insieme a Enrico Zoppas, ha assicurato all’azienda la conquista di nuovi mercati, spiegano molto del particolare legame che si instaura tra un imprenditore e la propria creatura. La fabbrica è la famiglia. Il prodotto un figlio.

La famiglia Zoppas, nelle sue varie attività industriali, è stata protagonista di quel periodo ormai mitico che prende l’ampio e abusato titolo di “miracolo economico”.

I suoi elettrodomestici hanno migliorato la vita delle famiglie, sono entrati a far parte del lessico quotidiano. Il marchio con il loro nome ha, ancora oggi, un sapore familiare. “Zoppas li fa e nessuno li distrugge”, era lo slogan di una fortunata campagna pubblicitaria. Frigoriferi, lavatrici, cucine economiche erano sogni accarezzati a lungo, tra sacrifici e risparmi dolorosi. Autentici simboli di un successo sociale, l’ammissione a una cittadinanza superiore, l’emancipazione da fatiche secolari. Il marchio Zoppas, come tanti altri, ci ha accompagnato, con una presenza discreta e sicura, lungo la strada di un progresso tumultuoso del quale oggi abbiamo grande nostalgia. Certo, suscita un forte rammarico constatare che oggi l’industria del bianco non è più italiana.

Da cronista dell’economia, seguii tutta la crisi Zanussi, che coinvolse come noto anche la famiglia Zoppas, prima della cessione all’Electrolux. Una vicenda amara. Una storia da rileggere, una lezione da imparare.

Questo libro celebra i sessant’anni di un’eccellenza italiana. E va dato atto alla famiglia Zoppas, in particolare a Enrico, di aver saputo diversificare per tempo. E a Giuliano de Polo, scomparso nel 2004, di aver intravisto le linee di evoluzione di prodotti e bisogni. Non è da tutti. Molte famiglie imprenditoriali hanno seguito il declino della loro principale attività e ne sono state travolte. Molte hanno gettato la spugna, incapaci di pensare a un’attività diversa da quella di cui si sentivano unici e legittimi interpreti. Molte altre, per fortuna il cuore pulsante del made in Italy, hanno seguito intelligentemente la via di una progressiva internazionalizzazione, diventando leader di segmenti, anche minuscoli ma globali. La San Benedetto è tra queste. Per farlo, il coraggio è indispensabile. Persino più dei capitali. Quelli si trovano. Il coraggio non è in vendita, non è quotato. Ci vuole poi anche una dose sufficiente di umiltà, di cui i veneti (chi scrive lo è per origine) non sono ricchi. Hanno altre qualità, ma non questa. Enrico Zoppas sostiene che la “morte dell’imprenditore avviene quando ritiene di non doversi più confrontare con gli altri… e inizia la discesa, spesso rovinosa”. La sindrome di appagamento è diffusa, non la registra alcun indicatore aziendale, non c’è in nessuna posta di bilancio. Ma è perniciosa. Nella storia raccontata in questo libro non c’è.

Alla San Benedetto non sono mai soddisfatti. Si può fare sempre meglio. E si deve.

Il settore delle acque minerali, negli anni in cui San Benedetto muoveva i primi passi sul mercato, era dominato da marchi poi finiti in secondo piano o da altre realtà acquistate da multinazionali straniere che hanno saputo, bisogna dirlo, valorizzarle all’insegna della qualità italiana. La storia di San Benedetto ha una sua peculiarità. Perché nel suo settore è l’unica a capitale interamente italiano. Tiene testa alle multinazionali e non ha mai ceduto alle loro lusinghe di offerte generose. Collaborazioni sì, tante, come quelle con Cadbury-Schweppes, con Pepsi-Cola, con Coca-Cola, con Danone, ma senza rinunciare a una competizione aperta e, qualche volta, persino temeraria.

San Benedetto non è stata solo un buon investimento per i suoi azionisti. Se non ci fosse stata anche passione, voglia di innovare, di sperimentare nuovi materiali (ad esempio la rivoluzione del PET, le tecnologie d’imbottigliamento in ambiente asettico e tante altre innovazioni descritte benissimo nei testi di Luca Masia) probabilmente sarebbe già passata di mano.

Quando Enrico Zoppas e Giuliano De Polo incontrano il numero uno della Coca-Cola Douglas Duft, mettono subito in chiaro che non vogliono vendere. Lo stupiscono realizzando in tre mesi un progetto che ad Atlanta avrebbero impiegato lustri per farlo. Le diverse joint ventures, realizzate negli anni con i colossi del settore, per lanciare nuove bibite al passo con i cambiamenti di gusto, sono sempre caratterizzate da un rapporto il più possibile paritario. Il processo di internazionalizzazione non ha mai sacrificato l’anima veneta del gruppo.

Le tecnologie si acquistano o si condividono, venderle per uscire dal mercato, anche monetizzando, non serve a nulla. Il beneficio economico è solo apparente. Forse c’è un eccesso di sicurezza (e di marketing aziendale) in queste parole di Enrico Zoppas: “Continueremo a crescere da soli perché siamo consapevoli di avere un tasso d’innovazione più alto dei colossi internazionali. Siamo più veloci e coraggiosi”. La frase va un po’ tradotta. La certezza di aver fatto un buon lavoro c’è sicuramente, ma non si trasforma in sicumera e nemmeno in un’affermazione arrogante. I piedi rimangono per terra, ben piantati tra i campi di radicchio del Veneto. O nei tanti luoghi d’Italia, a Nepi o sulla Majella, dove si è esteso il marchio realizzando una rete di acque locali di qualità. Nel 2008, all’esplodere della crisi finanziaria, che ha portato a un ridimensionamento drastico della capacità industriale italiana, Enrico Zoppas deve prendere la decisione più importante della sua vita. Continuare da solo oppure lasciare. Riceve dagli istituti di credito, grazie all’intermediazione di Mediobanca, 500 milioni. Li restituirà in pochi anni. Finanzierà così l’ulteriore crescita della società. In controtendenza rispetto all’andamento del mercato. Oggi è presente in oltre cento Paesi. La storia di San Benedetto ci insegna altre cose. L’innovazione è possibile e ha un grado di profondità inaspettato, anche in attività all’apparenza semplici come imbottigliare l’acqua alla fonte. Le ricerche sul PET, sui sistemi di imbottigliamento in ambiente sterile, lo dimostrano. Negli oggetti, anche i più semplici della nostra vita quotidiana, c’è più innovazione di quanta non ne sospettiamo. Il racconto del brevetto acquistato dagli americani della Continental per la fabbricazione di un fondo “a petali” delle bottiglie ha qualcosa di romanzesco. Gli americani pensano non valga niente. I veneti vogliono pagarlo. E lo pagano. Vanno dai giapponesi che non credono sia possibile realizzare un fondo bottiglia con quelle caratteristiche. Ma i veneti insistono e alla fine hanno ragione.

Un buon prodotto, dalle acque minerali alle varie bevande, va venduto.

E la comunicazione è fondamentale. Ma non può essere ingannevole. Se Zoppas dice “abbiamo imparato dalla natura a creare benessere”, non può essere smentito.

Il rispetto per l’ambiente (trattandosi di plastica poi) è parte di un’identità aziendale oltre che un dovere civico. Oggi più che mai. Conforta sapere che le emissioni di anidride carbonica sono state abbattute, che una bottiglia da 1,5 litro richiede una grammatura di plastica dimezzata rispetto ai primi tempi in cui veniva commercializzata. La pubblicità del marchio è sempre stata originale e accattivante. Lo slogan “Arranciatevi” di Sylva Koscina lasciava un po’ a desiderare. Ma come si diceva un tempo: “Con quella bocca può dire ciò che vuole”. Il santo di Scorzé avrebbe diritto a qualche royalties. Ma siamo sicuri che, in dialetto veneto, rispettosamente cristiano, Zoppas e i suoi saprebbero convincerlo del contrario. Auguri.


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