MOTION BUILDINGS, MEETING PLACES
La mutazione dei grandi centri commerciali

Electa, 2017

Un volume dedicato alla storia e alla filosofia dello studio di architettura Design International, specializzato nella progettazione di grandi centri commerciali in tutto il mondo. Fondato nel 1965 a Toronto, conta oggi sedi a Londra, Milano e Shanghai. I moderni mall sono edifici dinamici, luoghi d’incontro capaci di offrire agli ospiti esperienze uniche e inattese. Nel libro Paul Mollé, Lucio Guerra e Davide Padoa – attuali partner di Design International – raccontano se stessi, i loro percorsi individuali e i progetti comuni. Svelano ciò che ha reso i loro edifici le nuove icone internazionali dell’architettura e del commercio.

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Era un venerdì pomeriggio, assolato e umido. Si preparava il temporale della sera. Lo aspettavo, mentre sulla carta del mio blocco schizzavo architetture astratte. M’immergevo nella mia solitudine. Intorno a me la riunione procedeva a singhiozzo. L’indonesiano era una lingua sconosciuta: una specie di musica da ascoltare senza capire. Lunghe sequenze di consonanti nervose e saltellanti, talvolta interrotte da silenzi improvvisi, oppure morbidi appoggi vocali, materni e caldi. Ero a Giacarta da tre mesi. La città mi aveva accolto con il suo clima afoso, milioni di abitanti e un inestricabile miscuglio di modernità e arretratezza. Un luogo impegnativo da decifrare, soprattutto per me. All’epoca stentavo a decifrare anche me stesso. Giacarta assomigliava a una grande madre, sempre sudata ma con l’alito fresco e la pelle che profumava di spezie. Mi aveva ospitato offrendomi un lavoro: la cosa più importante. Era una madre affettuosa, ma silenziosa. Sorrideva e taceva. Tutti tacciono, in Asia. Un continente dove i silenzi parlano e i movimenti del corpo addirittura gridano.

Mi sentivo solo. Le vele della mia barca interiore sbattevano nella calma equatoriale e procedevo senza una direzione. In quei giorni difficili, mi affidavo solo al mio grande naso. Da piccolo avevo il complesso del naso, ma adesso che la corrente mi spingeva lontano, solo il mio naso a forma di deriva impediva che lo scafo si ribaltasse. Il naufragio, comunque, sembrava imminente.

A un lato del tavolo c’eravamo noi architetti e ingegneri dello studio Wiratman & Associates, dall’altro i potenti vertici della della banca PSP, parte del gruppo Dharmala Bank. Eravamo stati incaricati di progettare un centro commerciale basso e stretto, sovrastato da una torre a specchi molto alta. Il problema era estetico, non tecnico. Dovevamo trovare un punto di equilibrio tra le forme del centro commerciale e quelle della torre: accordare un elemento solido e statico che si sviluppava sulla pelle della città con un segno improvviso e dinamico che invece schizzava verso l’alto. Terra e cielo in contrasto. Avevamo portato molte idee e disegni, ma il cliente non era soddisfatto. Naturalmente non lo diceva apertamente, ma lo manifestava con il prolungarsi dei silenzi, il rimbalzo degli sguardi tra i colleghi. Non capivo l’indonesiano e mi concentravo sui movimenti dei corpi. Stavo imparando una delle lezioni fondamentali della mia vita di architetto e di uomo. Cominciavo ad ascoltare le pause e a leggere le assenze di parole. Iniziavo ad apprezzare le ombre che danno rilievo alle forme, i vuoti che definiscono i pieni.

Non mi sbagliavo. A un certo punto, il direttore della Dharmala Bank si alzò per andare in bagno. Io avevo appena ruotato il blocco per sfruttare l’altezza della doppia pagina. Stavo ombreggiando una specie di chiocciola che dal terreno si slanciava verso l’alto e diventava una torre vista di scorcio. Il centro commerciale in basso, nel guscio dell’animale, gli uffici della banca nella torre di specchi che osservava Giacarta da oltre 240 metri. Non era un brutto disegno. Uno dei tanti. Non avevo un ruolo preciso in quella riunione, ero solo un giovane architetto straniero. Il mio incarico era aggiungere un tocco di esotismo. Quando mi aveva assunto, il professor Wiratman Wangsadinata era stato molto esplicito: avrei partecipato a tutte le riunioni ma sarei stato sempre zitto. Nel caso mi avessero chiesto un’opinione, avrei dovuto rassicurare il cliente. Fino a quel giorno, però, nessuno mi aveva mai chiesto un’opinione. Lavoravo da tre mesi a Giacarta senza aver mai lavorato un solo giorno: sudavo camminando per le strade, m’inzuppavo di piogge improvvise e durante le riunioni riempivo di schizzi i fogli del mio blocco. Aspettavo. Potevo solo aspettare che Giacarta, la grande madre indonesiana, si decidesse a parlarmi.


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