ALEMAGNA
Storia italiana di vite e impresa
Silvana Ed., 2008

Il volume ripercorre la storia in un’azienda che per molti anni è stata un modello di eccellenza. Una storia che intreccia le vicende di Gioacchino e Alberto Alemagna con quelle dell’Italia del Novecento, dal dopoguerra alla crisi degli anni settanta.
Un successo travolgente che si è spento alle soglie del terzo millennio, soffocato dai limiti della politica e dalla crescita della globalizzazione.
Della grande Alemagna rimangono intatti i valori, la tradizione e una cultura d’impresa di cui oggi avvertiamo sempre più il bisogno. Una lezione da studiare a fondo, per comprendere il presente e affrontare le insidie del prossimo futuro.  

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“A Milano sono arrivato che ero uno studente liceale. Venivo da Piacenza, cittadina emiliana così vicina alla Lombardia da averne tutte le caratteristiche di cultura e di carattere, ma poche decine di chilometri valevano un mondo intero. In quel dopoguerra così ricco di attese, di speranze, di necessità che avevano l’urgenza dei sogni, Milano era la città della ricostruzione, come raccontate in questo bel libro, della vita nuova dove tutto era possibile, del futuro. Per me e la mia famiglia, l’inizio non era stato facile: dovevamo ambientarci, conoscere persone diverse, trovare lavoro, andare a scuola, inserirci nella città, che scoprivo con i miei genitori, con gli amici e da solo.
La pasticceria Alemagna tra via Orefici e via Torino era un punto d’attrazione irresistibile, un meraviglioso bar dove tutto era ricco, ma anche solido e austero, con quella lieve frivolezza del simbolico centrino di pizzo sotto la grande A del marchio. E quel profumo di dolce, di cioccolato, di caffè: goloso e corposo, mi piaceva tanto e mi accorgo che mi è rimasto nella memoria, come la madeleine di Proust, a ricordo di quegli anni eccitanti e difficili. Dall’altra parte di piazza del Duomo, alla Rinascente, ho lavorato prima come vetrinista, poi come coordinatore degli acquisti di moda maschile: è partita da lì la mia vita adulta, sempre carica di sogni e di quel desiderio del fare che è il segno più forte dei milanesi.
In qualche modo, se guardo alla storia quotidiana di questa città, rivedo tante storie che assomigliano alla mia: storie di lavoro e di fantasia, di invenzioni imprenditoriali, di una visione del mondo diversa che entra nella vita di tutti i giorni e un po’ la rispecchia, un po’ la modifica. Un filo sotterraneo le lega tutte e a volte il destino le sovrappone. E’ vero: dove c’era la storica pasticceria Alemagna di via Manzoni, con i suoi marmi e le essenze di legno pregiato, oggi c’è Armani/Manzoni 31, il primo dei concept store che portano per il mondo il nome e le collezioni Armani. All’interno, vicino alla boutique dei fiori, si trova anche un piccolo e prezioso Armani/Dolci, con il cioccolato, le marmellate, i panettoni, i caffè. Perché ‘la vita dolce’ è una tentazione irresistibile anche per chi la offre, e non soltanto per chi la gusta. E’ uno spazio limitato, come uno scrigno che raccoglie piaceri e gioie. Nato non per caso, ma che il caso ha voluto che diventasse un elemento di eccellenza di questo spazio.
osì, caro Alberto e caro Tancredi Alemagna, che giustamente definite ‘bellissima’ la vicenda della vostra famiglia e del marchio Alemagna, con quell’indimenticabile angioletto che offre la fetta di panettone, mi è venuta in mente una frase di Bernanos che mi ha aiutato a capire tante cose che possono accadere. “Il caso?” scriveva il grande scrittore cattolico, “il caso ci assomiglia.” E aveva ragione.”
Giorgio Armani 

 

“Le vite degli individui si intrecciano – in questo caso si impastano – nei modi più imprevedibili e strani, nello spazio e nel tempo. Che c’entra, per esempio, Gioacchino Alemagna con Filippo Tommaso Marinetti? E che c’entro io con entrambi? Invece ecco, leggo a pagina 25 un attacco di capitolo che sembra l’inizio di un romanzo popolare: “E’ una fredda mattina d’inizio Novecento. Milano è ancora deserta. In piazza del Duomo, appoggiati ai muri della cattedrale ci sono tre bambini che si tengono per mano. I bambini sono Gioacchino Alemagna, di quattordici anni, Emilio di sette, e Aldo, il più piccolo, di tre anni.”  Il pensiero mi vola a Marinetti, che sto studiando da anni: in quel 1906 percorreva piazza del Duomo “elettrizzato da una gioia acutissima”  perché stava creando il futurismo, che avrebbe cambiato per sempre il rapporto arte/vita e dato linfa a tutte le avanguardie del Novecento. Chi sa. Magari Filippo Tommaso ha intravisto quei tre bambini, di ritorno da una delle sue riunioni notturne con gli amici poeti, o dalle osterie anarchiche che servivano due uova al burro e “alla Bakunin”. O forse stava andando da Cova, a comprare i panettoni. Già, perché leggendo questo libro mi sono ricordato una pagina delle memorie di Filippo Tommaso, trascurata dagli storici e dunque sconosciuta. Effetì, come lo chiamavano gli amici, andava pazzo per i panettoni, li spediva non solo come regalo di Natale, ma addirittura come omaggio ai recensori, insieme ai volumi della sua casa editrice. Non erano – non potevano essere – quelli della Alemagna, ma mi sembra di fare un regalo ai tre orfanelli riportando le sue parole. I futuristi vogliono fare un panettone di “6 metri di diametro e 2 di altezza”; in assenza di Gioacchino hanno “un dubbio sul vigore del lievito e ad ogni buon conto uova e farina uova e farina uova e farina per l’illusorio tono d’oro e poi una sublime leccatina di calorie a miliardi per ottenere la scricchiolante crosta che simuli il carbone. (…) O studenti milanesi il Futurismo vi regala un nuovo simbolo per i vostri berretti goliardici il Panettone Gigante della bontà e della veloce digestione destinato a fugare la preistorica pastasciutta del filosofico peso. O studenti milanesi il panettone che stiamo cucinando salverà la città. (…) O Poesia cuoci cuoci di sobbalzante lirismo torrido il nostro panettone amato”.
Il panettone, insomma, viene addirittura assunto a simbolo del futurismo.
Gioacchino Alemagna – come ho imparato a conoscerlo in questo libro – avrebbe sorriso alle mattane futuriste ma avrebbe condiviso tutte e quattro le affermazioni dei poeti francesi che ricevettero l’omaggio: Henry de Régnier poeta gallo a baffi spioventi dice: “Admirable ce gâteau milanais des faunes”. Paul Adam romanziere di Trust sentenzia: “Le panettone est le gâteau des grands industriels”. Verhaeren scrive: “Merci pour le panettone des ouvriers”. La poetessa de Noailles conclude: “Le panettone est le gâteau lettéraire par excellence”.
Facciamo un salto di cinquant’anni e eccoci alla mia infanzia, l’epoca dei dilemmi Coppi/Bartali e Alemagna/Motta, due delle tante coppie che moltiplicano le divisioni di un popolo che – a suo onore/disdoro – ama scindersi in guelfi e ghibellini, bianchi e neri. In casa mia Bartali, certo, perché era toscano e perché – tanto – scegliere non costava niente. Il panettone invece costava. Del resto non aveva ancora trionfato in tutta Italia e a Siena il Natale era ancora la festa del panforte, che a me non è mai piaciuto. Troppo duro, troppo dolce. Poi ecco gli anni sessanta, il boom, il trasferimento a Milano, i miei a lavoro in fabbrica, il miracolo economico che portava anche sulla nostra tavola il panettun: oh, mica Motta o Alemagna, uno di sottomarca, donato da padroni micragnosi.
Ho letto commosso, in questo libro commosso, il rito del taglio del panettone in casa Alemagna: con Gioacchino che incideva con solennità una croce sul dolce, prima di aprirlo con delicatezza e offrirlo alla degustazione della moglie, come fa un creatore con la propria opera. Mio padre lo divaricava a colpi netti, con un coltellaccio da cucina e l’impeto di un conquistatore.
Poi venne l’età delle ribellioni, che nel mio caso coincise addirittura con il Sessantotto: e addio panettone, simbolo della mediocrità abitudinaria borghese. Placato (ma non domo) lo riscoprii da grande, avrò avuto trent’anni, e ricordo benissimo che non ebbi nessuna esitazione: Alemagna. Forse perché tutti dicevano che era più buono, ma forse perché era il riscatto sociale da quei panettonacci seccagnoli e poco canditi dei miei ricordi. In seguito, una furibonda vita da single mi ha allontanato di nuovo dal panettone.
Questo libro – che è un bel libro di storia, fatto con cura pasticcera per gli ingredienti e i sapori – mi ha fatto tornare la voglia di panettone, e di condividerla con la mia compagna e con il mio bambino, che non ha neanche due anni. Soprattutto mi ha fatto sognare la scena che vivrò il prossimo Natale e quello dopo e dopo e dopo e dopo e dopo e dopo: io che, davanti agli occhi festanti di Paola e di Nicola Giordano, taglio solennemente il dolce soffice e pieno di canditi incidendovi prima una croce delicata.
Intanto Gioacchino avrà finalmente convinto Filippo Tommaso che il suo dolce deve essere più alto che largo, e insieme – dall’alto del cielo dei creatori – si staranno indaffarando
sul loro panettone alto sei metri e largo due.”
Giordano Bruno Guerri 

 

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“L’Italia degli anni sessanta non è più uno stivale rotto, lacerato dalle bombe della seconda guerra mondiale, e nemmeno uno stivale sporco di quel fango raccolto in secoli di lavoro nei campi. Dopo aver scoperto l’industria e abbandonato le campagne, il paese ha conosciuto la crescita economica; ha compiuto un balzo prodigioso che in pochi anni l’ha portato a diventare una delle prime potenze economiche mondiali. Certo, i problemi che si nascondono sotto l’accecante illusione del benessere sono molti e non tarderanno a manifestarsi: le disuguaglianze sociali si trasformeranno presto in conflitti, la cronica carenza di infrastrutture renderà vecchio in fretta un paese che probabilmente non è mai stato giovane. Ma adesso, nel cuore degli anni sessanta, nessuno sembra accorgersene. Il vecchio stivale che s’aggancia alle Alpi e si tuffa nel Mediterraneo sembra piuttosto una stella cometa capace di illuminare l’Europa del sud e guardare senza timori a quella del nord. Sotto Natale, poi, la stella dell’Italia brilla di una luce tutta particolare: un misto di speranza, gioia, voglia di vivere, lavorare, produrre.
Milano è il centro di questo rinnovato Bel Paese, il cuore pulsante di un nuovo sistema economico. Il mito positivista dell’Ottocento, che pareva naufragato con il Titanic e sepolto sotto le macerie della prima guerra mondiale sembra invece rinato con tutto il suo fascino. L’Italia dell’industria e dei consumi di massa, l’Italia dinamica della modernità urbana che si contrappone all’immobilismo della vecchia cultura agricola vive una nuova età dell’oro, segnata dall’illusione di una crescita continua e incessante.
L’incubo delle guerre è alle spalle, davanti sembrano esserci solo benessere e prosperità per tutti.
Nei giorni di Natale, Milano è al massimo del suo splendore. I festoni delle luminarie attraversano le strade e creano tetti di luce sotto cui i passanti camminano svelti, come di consueto, inebriati da un palpito di vibrante euforia. I negozi del centro sembrano i salotti della buona borghesia, ma anche le vie di periferia luccicano addobbate a festa, accoglienti e invitanti nonostante il freddo pungente e la nebbia fitta. La nebbia a Milano ha un odore particolare, come di cibo. A volte viene voglia di mangiarla, come fanno i bambini con la neve…”


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