LA FIERA DI MILANO
Lavoro e società nei manifesti storici 1920-1990
Silvana Ed., 2011

“Il Comitato esecutivo della prima Fiera Campionaria di Milano, ideata da pochi volenterosi in ore di sangue e di angoscia, iniziata in un anno di pace vittoriosa ma inquieta, rende grazie al Governo, al Comune, agli Istituti tutti ed ai privati che aiutarono e resero possibile questa prima splendida prova.” Queste parole sono state scritte nel 1920 sul frontespizio della prima pubblicazione della Fiera Campionaria di Milano. Sono la traccia del primo passo di un lungo cammino che ha attraversato il Novecento con esemplare regolarità; ogni anno una nuova edizione della Campionaria, nel centro di Milano che per quindici giorni diventava il centro del mondo.
Il volume ripercorre la storia della Fiera inserendola nel più ampio contesto di un secolo denso di trame economiche e sociali, scientifiche e tecnologiche, umane e politiche. Storie di relazioni, idee e culture che nella Fiera di Milano si incontravano e si confrontavano.
Reti materiali e immateriali che riemergono nel corso della narrazione storica e che si riflettono fedelmente nel materiale iconografico del libro. I manifesti della Fiera costituiscono un patrimonio di straordinario valore che permette di rivivere il cammino di una società nata con i sogni dell’Ottocento e protesa verso il Duemila.
Per quasi un secolo, la Fiera Campionaria di Milano è stata un potente ingranaggio nel motore dell’economia nazionale, ma anche uno strumento di conoscenza e condivisione dei saperi. La sua storia è anche il racconto degli uomini che l’hanno vissuta da protagonisti. Come operatori o come semplici visitatori.

***

Il mercato è fatto di relazioni personali. Le merci non si incontrano se non si incontrano le persone. Il lavoro umano si realizza nelle fabbriche, negli uffici, nelle reti immateriali del web e produce gli strumenti più efficaci, gli accessori più mirabolanti e tutto ciò che costituisce l’universo tecnico che ci circonda. Ma tale universo, per divenire macchina che produce altra macchina, oppure strumento che adempie a compiti che è possibile assolvere grazie ad apprendimenti che spesso sono secolari, tutto questo universo deve incontrare coloro che lo rendono mondo vitale. Generalmente sono chiamati compratori, acquirenti, clienti.
Sfogliando le pagine di questo libro comprendiamo subito che queste definizioni da vocabolario non possono racchiudere il significato vero delle persone che quell’universo rendono possibile e che fanno ciò instaurando, con coloro che quell’universo producono, una rete di relazioni. Nel linguaggio comune, che troppo spesso nasconde la realtà semplificandola sino a renderla irriconoscibile, tutto questo processo si chiama mercato. Ma se si avrà la pazienza di leggere questo libro e soprattutto di meditare sulle straordinarie immagini che lo arricchiscono si comprenderà che il mercato si è costruito così come si è costruita la “nostra” Fiera di Milano.

Le fiere, nel Medioevo, erano luoghi in cui la spada del sovrano garantiva la pace, così come l’interno della Chiesa garantiva l’immunità. Anche in tempo di guerra ci si doveva scambiare merci, prodotti e per farlo gli uomini dovevano entrare in relazione tra di loro. Per questo la violenza doveva cessare, gli animi dovevano chetarsi, gli uomini stessi dovevano trasformarsi. Spesso si trasformavano da guerrieri in mercanti. Oppure, molto più spesso, la società produceva degli specifici ceti sociali destinati a riprodurre sia in tempo di pace sia in tempo di guerra la rete di relazioni: ecco i mercanti. E’ naturale, quindi, che più sorgevano le città più potevano sorgere queste isole di pace e più i mercanti potevano divenire un ceto specializzato nel costruire le relazioni sociali. Per tutti i secoli dell’età moderna le fiere erano dominate dai mercanti che fungevano da legami sociali ed economici tra coloro che producevano e coloro che consumavano oppure tra coloro che producevano in forma semplice e coloro che producevano in forma complessa.
Il diritto commerciale nasce, sulla scorta del diritto romano, per garantire e trasmettere la proprietà e per garantire e trasmettere la relazione economica.
La fiera diventa luogo di transitività: luogo dove i beni passano dalle mani del produttore a quelle del mercante a quelle di un altro produttore oppure a quelle di un consumatore finale.
Senza fiere niente strumenti giuridici per regolare queste transazioni: il diritto commerciale non sarebbe nato. L’età contemporanea inizia con l’avvento del capitalismo industriale che è ben più potente di quello commerciale: aumenta a dismisura la produttività del lavoro, e produce continuamente necessità di relazioni sociali per rendere solvibile la domanda finale. Non è un caso che l’apogeo del capitalismo industriale tra Ottocento e Novecento abbia avuto come suo corollario internazionale le grandi esposizioni universali. Esse sono ben diverse dalle fiere medievali e dell’età moderna. Sono trionfo dello scambio e della produzione grazie al trionfo dell’idea di nazione. I padiglioni sono e vogliono essere l’emblema della coscienza nazionale, il prototipo dello spirito di potenza, l’orgoglio di un soggetto che supera il produttore, il mercante, l’acquirente: questo soggetto è il cittadino, cittadino dell’universo dello scambio e della relazione sociale che rende lo scambio possibile. Se si guarda dall’alto della meditazione storica lo sviluppo del commercio capitalistico, si vede che in tutto il mondo alle esposizioni universali succedono, in tutto il mondo lo ripeto, le moderne fiere. Esse ereditano il capitale simbolico dell’esposizione universale, riversandolo, come un vaso di Pandora, su quelli che sono i territori economici, su quello che è il tessuto a macchia di leopardo dell’industrializzazione e poi via via della neo industria dei servizi. Per certi versi si ritorna alle origini, le città ritornano a essere il cuore dello scambio. In effetti esse sono il cuore dell’ethos borghese, e l’ethos borghese sublima l’ethos dei mercanti. Fa sì che il mercante diventi, con il commercio fieristico, un protagonista della modernità, e la modernità ha bisogno di simboli. Ogni fiera ha i suoi, che mutano con l’andare della storia, che riflettono le oscillazioni del gusto artistico e che sono, in definitiva, le manifestazioni dello spirito del tempo che si realizza nella relazione sociale.
Milano, terra di mezzo per eccellenza, non poteva che essere la città della fiera per eccellenza: la Fiera di Milano. Ricordate Carlo V? Considerava Milano la luce dei suoi occhi: la terra di mezzo del suo immenso impero che collegava Spagna e Germania. Oggi Milano continua a essere terra di mezzo, ma lo è come centro della rosa dei venti. Dal cuore della pianura padana si dipartono le linee verso l’Europa Continentale, verso gli Urali, verso i Balcani, verso il Medio Oriente, verso il Nord Africa, verso l’Atlantico e le Americhe.
E oggi, con le moderne tecnologie, si va ben oltre,
si va fino al Sud Est asiatico e all’Estremo Oriente, si va fino agli antipodi dell’ Oceania.

Questo libro racconta in forma piana e completa insieme la storia della Fiera di Milano. Dai suoi inizi, per l’azione di alcuni coraggiosi argonauti che partirono con una nave che ha attraversato i flutti della nostra storia d’Italia: dall’età liberale, al suo occaso, al fascismo, alla rinata democrazia, alla ricostruzione, alla crescita impetuosa, e al suo declinare e risorgere grazie a un tessuto appunto di relazioni sociali che la Fiera ha costruito grazie a quella rosa dei venti prima evocata. Ma il fascino del libro sta nello straordinario materiale iconografico che accompagna il racconto, la narrazione. Attraverso di esso comprendiamo come l‘arte della vendita sia nata attraverso la comunicazione e come l’arte della comunicazione sia l’arte di produrre simboli. E come queste arti si sostanzino di capacità tecniche che fondano la creatività artistica, interpretando e spesso anticipando il gusto del tempo. Di più, spesso contribuiscono a formarlo. La pubblicità non è condizionamento dello spirito ma è immaginazione dello spirito, immaginazione con lo spirito e quando lo spirito diventa spirito del tempo, il prodotto diventa
il simbolo di un senso, di un significato di cui non possiamo fare a meno.
Oggi, nella sincopata nostra età, tutto ciò lo chiamiamo brand. Ma l’incunabolo di tutto ciò, il glorioso incunabolo di tutto ciò, noi continuiamo a chiamarlo come deve essere: Fiera di Milano.

Giulio Sapelli

***

A partire dal 1948, tradizionalmente, la data del 12 aprile (e poi del 14) prevedeva a Milano due appuntamenti fissi: l’arrivo del Presidente della Repubblica, e quello della pioggia, entrambi richiamati dall’inaugurazione della Fiera Campionaria. Normalmente, il maltempo lasciava rapidamente spazio all’esplosione della primavera; e le folle che sciamavano per la Fiera intorno alla data di chiusura, il 27 aprile, pregustavano ormai l’estate. Ma, variabilità climatica a parte, Milano, nei giorni della Fiera, poteva riconoscere a se stessa due peculiarità che erano lentamente maturate nell’ultimo secolo e mezzo e che ne avrebbero definito il ruolo negli anni avvenire: essere il motore insostituibile dell’economia italiana; e presentarsi come la vetrina del Paese sui mercati internazionali. Per questo, non c’era discussione che il Capo dello Stato presenziasse all’appuntamento, con fedeltà paragonabile a quella riservata alla prima della Scala. Fu proprio il valore simbolico di quell’appuntamento, tanto più nell’anno che ne segnava la ripresa dopo la tragedia bellica, che spinse un nuovo giornale milanese a presentarsi al pubblico nella data di apertura della nuova Fiera (che non aveva ancora ripreso la cadenza di aprile), il 12 settembre 1946. Si tratta di “24 Ore”, il nuovo quotidiano economico di Ferdinando di Fenizio, Libero Lenti e Federico Maria Pacces, (aveva due pagine e costava 5 lire) che quasi vent’anni dopo si sarebbe fuso col “Sole”, e che così spiegava in quel primo numero la scelta: “Abbiamo voluto che il primo numero…coincidesse con una data altamente significativa nella vita del nostro Paese: quella della ripresa della Fiera di Milano, alla quale da ogni parte d’Italia e dall’estero le energie produttive concorrono in una manifestazione di fede materiata di fatti e non di parole”. E in questo sobrio richiamo alla tradizione ambrosiana del fare c’è la prova di come la Fiera Campionaria abbia davvero rappresentato molto di più che uno strumento, ancorché prestigioso, di promozione dell’intera produzione italiana, oltre che una formidabile macchina di ricchezza per Milano: essa, infatti, come poche altre istituzioni dell’economia – e credo di poter aggiungere: al mondo – ha segnato un legame imprescindibile fra una città e la sua vocazione industriale e imprenditoriale. In essa si sono riconosciute, per decenni, generazioni e generazioni di milanesi, che nella Campionaria vedevano, forse un po’ ingenuamente ma con entusiasmo, il simbolo più dinamico della propria città, dominata dalla capacità di saper fare, di saper vendere, di saper accogliere e di saper comunicare.

Sono gli aspetti che hanno reso ai milanesi familiare la loro Fiera; di quel sentimento si rese testimone, tra gli altri, un grande scrittore, uno dei massimi del Novecento, Carlo Emilio Gadda, che aveva così fotografato i visitatori del 1936: “La folla della Fiera si agglutina in un impasto, ma dei più ragionevoli: serena, educata, le tre o due lire che ognuno dei novanta mila visitatori ha introdotto negli sportelli della biglietteria, conferiscono alla popolazione della cosmopoli un tono risultante piuttosto elevato. Ognuno è conscio della necessità di ‘godere’ il biglietto. L’abito buono, poi dà a tutti un’aria di benessere domenicale, e il benessere, per quelli della provincia, è particolarmente confermato dai colori saluberrimi del volto”. E poi Gadda va avanti, apprezzando la compostezza nella gestione dei rifiuti prodotti dalle “refezioni all’aria aperta”; e osservando incuriosito “l’unico tic del quale è affetta la ragionevolissima folla” (e sfido qualunque milanese ad alzare la mano se, quand’era bambino, non ne sia stato anch’egli contagiato nelle sue scorribande fieristiche), ossia la sindrome di raccogliere ogni sorta di informazione e di pieghevole pubblicitario, “di fogli colorati e stampati, con tutti i numeri di telefono dell’indicatore della Stipel e tutti i nominativi della guida Savallo”. Questo legame tra la città e la sua vocazione merceologica viene certo da lontano: già Bonvesin de la Riva, nel suo panegirico di Milano, della città non trascura di esaltare – nel 1288! – che ai quattro mercati generali che vi si tengono “mirabilmente affluiscono, in numero quasi incalcolabile, venditori e compratori delle varie merci” per dare vita a un sistema, diremmo noi oggi, tale da far sì che “ogni giorno quasi tutti i beni necessari agli uomini vengono esposti in abbondanza non solo in luoghi determinati, ma nelle piazze, e messi in vendita con gridi di richiamo”.  Per concludere, con toni assai poco ‘declinisti’, diremmo ancora noi oggi, che a Milano “illi qui habet sufficientem pecuniam est optimum vivere”. E credo che la traduzione sia superflua. La Fiera trova antesignani più recenti nella serie delle grandi esposizioni che culmina in quella universale del 1906, realizzata nell’area nella quale la Fiera stessa si trasferirà nel 1923 dalla sede originaria dei Bastioni di Porta Venezia. Quegli appuntamenti segnano davvero la raggiunta vocazione milanese a capitale della produzione italiana; e quella del 1906, in particolare, sottolinea la proiezione internazionale della città, segnata dall’apertura del traforo del Sempione, per la realizzazione del quale Milano si era duramente battuta contro Torino, interessata piuttosto a spostare a proprio favore, sull’asse del progettato traforo del Monte Bianco, i traffici con l’Europa.

Ecco dunque che questo volume, ripercorrendo la storia della Fiera, consente di cogliere un’angolatura particolare della storia di Milano e del consolidamento delle sue vocazioni. Il libro lo fa con parole e immagini, presentando e commentando una serie di manifesti che celebrarono (e pubblicizzarono) la Fiera, di cui furono spesso autori artisti tra i più significativi e celebrati dei propri anni.
L’attenzione alla comunicazione dimostrata dai manifesti della Fiera prefigura altre vocazioni della città, quelle che oggi si esprimono nelle attività dell’informazione e della pubblicità, ma anche della grafica e del design. Tutte attività nel quale labile si fa il confine tra funzione d’uso e valore artistico, e sempre più consistente il valore emozionale ed esperienziale che rendono unici un messaggio, un manifesto o un oggetto. Ed è proprio in questa capacità di arricchire di valori immateriali e simbolici che si manifesta la competitività autentica del prodotto italiano che, non più alla Campionaria, ma nelle fiere specializzate di Milano (e non solo) si presentano sui mercati internazionali.
Questi manifesti, dunque, non rappresentano la testimonianza squisita di una comunicazione ormai archeologica, ma il simbolo di una costante capacità della città e delle sue istituzioni economiche di proiettarsi nel mondo e di vendere valore. Ma la loro efficacia comunicativa ribadisce anche l’antica specialità della Fiera Campionaria di attrarre e coinvolgere masse di cittadini e consumatori generici, che in essa trovavano l’opportunità di riconoscere e condividere con la propria città una centralità che, già allora, la rendeva uno dei grandi centri dell’innovazione e della modernità.
E allora davvero questa pubblicità si presenta, per dirla con Gian Paolo Ceserani, come la “vera faccia”, anzi come “la lingua” di Milano, come “una cultura, un collante, una comune base comportamentale” capace di dare voce a un sentimento profondo di identificazione sociale.
Per Milano, la Fiera significava trasformarsi in autentica città-mondo. I cittadini se ne rendevano conto: la gita imprescindibile tra i suoi padiglioni, le visite ai macchinari più astrusi, l’incontro coi Paesi più remoti dava il senso che il pianeta (un pianeta produttivo peraltro assai più ridotto, allora) in quei giorni si miniaturizzasse nel quadrilatero sempre più congestionato della Campionaria. In questo senso, in anni in cui viaggiare era ancora un miraggio, la Fiera ha svolto per molte generazioni di milanesi una funzione insostituibile di apertura e di addestramento alla curiosità, alla scoperta delle innovazioni scientifiche e all’ammirazione per le nuove frontiere della produzione. La Fiera svolgeva così una peculiare funzione sociale ed educativa, che molto ha contribuito a definire il complessivo profilo borghese della città, inteso non già come appartenenza a una classe, ma piuttosto come condivisione tra le classi della cultura del lavoro. Proprio in quest’ultima, non a caso, Gaetano Afeltra (nel 2000) riconosceva la “sostanza profonda” della città, che “ancora oggi, nonostante le trasformazioni, il degrado, gli scandali, resta sempre la serietà, la maniera civile, morale di intendere il lavoro: ognuno sa che ciò che si deve fare va fatto, e va fatto bene”.

Il lungo filo che si snoda dalle quattro fiere di Bonvesin, passando attraverso la Campionaria, così cara ai milanesi, non si arresta allora al nuovo polo di Rho-Pero: la vocazione della città-mondo cerca ora conferma e rilancio nella prossima Esposizione universale. Inserita in questa storia, Expo 2015, lungi dall’assumere il significato del gesto estemporaneo, richiama la città, a partire dalle sue istituzioni dell’economia, dell’impresa e della cultura a confermare le capacità che riconobbe loro “La Perseveranza” nel salutare il successo dell’Esposizione industriale del 1881: “La città nostra ha mostrato una sua dote particolare, ed è quella che tutti, dal nobile al borghese, dal ricco al popolano si trovano uniti come da una catena invisibile, da un sentimento comune, quando si tratta di compiere uno di quei fatti nei quali il lustro cittadino si confonde e prende rilievo da quello di tutto il paese”.

Salvatore Carrubba

***

Il manifesto di Leopoldo Metlicovitz mostra un uomo e una donna di spalle, accovacciati su una locomotiva che attraversa una galleria. Lui è Mercurio, il dio della velocità, delle comunicazioni, dei commerci; la galleria è il traforo del Sempione. La locomotiva corre veloce da Parigi a Milano. All’orizzonte, oltre la fine del tunnel, si intravedono le guglie del Duomo.
L’immagine annuncia la grande Esposizione Internazionale di Milano del 1906, dedicata ai trasporti e all’apertura del traforo tra l’Italia e la Svizzera. Un milione di metri quadrati di mostre nell’area compresa tra il parco Sempione e piazza delle Armi, duecento edifici tra cui l’Acquario civico, trentacinquemila espositori, oltre cinque milioni di visitatori. Tra le attrazioni della grande Esposizione c’è anche Buffalo Bill, il cowboy che per una settimana si esibisce all’Arena civica con il circo del selvaggio West.
Nell’immagine della Milano d’inizio secolo che visita l’Expo, c’è la sintesi di un’epoca che raccoglie l’eredità del positivismo e scontra i propri sogni contro il muro impietoso della Prima guerra mondiale. Il ritratto di una società che concepisce ancora la Storia come un flusso lineare e omogeneo di avvenimenti tesi al benessere della collettività; una società pervasa da un atteggiamento di fiducia nel futuro e nelle capacità dell’uomo di controllare l’ambiente e gli elementi, nella convinzione che il domani sarà sempre migliore dell’oggi.

In Italia si è stabilizzata la spinta rivoluzionaria del Risorgimento e si diffondono i fasti della “belle epoque”. Sono gli anni delle prime automobili e delle ultime carrozze, di artisti come Monet e Gauguin, di teatri sempre illuminati e affollati. Sono gli anni di Freud e della psicanalisi, di Marconi e delle onde radio, di Einstein e della relatività, della medicina e dell’elettricità; anni in cui l’Orient Express attraversa ancora il vecchio continente e collega Londra, Parigi, Milano e Vienna all’Oriente magico di Costantinopoli. In Italia sono gli anni di Giolitti, dello “Stato sociale” e delle elezioni “quasi” a suffragio universale maschile.
“Non è possibile,” scrive lo stesso Giolitti, “che in uno Stato nato dalla rivoluzione e costituito dai plebisciti, dopo cinquant’anni si continui ad escludere dalla vita politica la classe più numerosa della società.”
Nel 1912, mentre il giovane Benito Mussolini si trasferisce a Milano per assumere l’incarico di nuovo direttore dell’”Avanti!”, il Titanic affonda nell’oceano sulla rotta per New York. Come Buffalo Bill racchiudeva il fascino dell’America e della frontiera, il sapore dell’avventura e del coraggio eroico, così il Titanic custodisce nella propria sofisticata monumentalità il sogno fragile dell’uomo moderno. Un sogno che affonda nelle acque gelide dell’Atlantico e che anticipa di un paio d’anni lo scoppio della Prima guerra mondiale.

La Fiera di Milano nasce nell’immediato dopoguerra come l’avventura coraggiosa, quasi eroica, di un gruppo ristretto di persone tra cui spiccano le figure di Luigi Bizzozero, Marco Bolaffio, Paolo Beghelli, Ettore Carabelli, Pietro Siebanech, Alfredo Colombo, Amilcare Buschini, Gaetano Boggiali e Paolo Taroni: uomini che riescono ad alzare lo sguardo sopra le macerie del presente e traguardare il futuro di una nuova società del lavoro. Vedono lo “spettacolo del lavoro”, la grande esposizione di saperi e di conoscenze che tessono la trama di una società della produzione e del consumo, dove le esperienze dei singoli diventano esperienze collettive e i numeri della produzione industriale dialogano con le eccellenze dell’artigiania d’arte. Una visione “illuminista” del mondo e degli uomini, che concepisce la società come un grande spazio aperto, abitato da comunità di individui liberi.
Già nel 1916, in pieno conflitto mondiale, sotto la spinta di un folto gruppo di industriali si era costituito un comitato composto dagli stessi Bizzozero e Carabelli, con Virgilio Viganoni, Luigi Brenni, Tommaso Pini e altri membri dell’Alleanza Industriale e Commerciale, per la progettazione di una fiera campionaria milanese sul modello di quelle di Lione e di Lipsia.
Terminata la guerra e passata l’epidemia di spagnola, il clima è particolarmente acceso sia nelle campagne sia nelle città, agitato dalla propaganda socialista che proclama la rivolta delle masse e organizza scioperi e manifestazioni. Nel paese dilaga la disoccupazione e l’intero sistema sembra paralizzato. Occorre riconvertire le strutture produttive e ridare slancio ai commerci, rimettendo in moto l’economia e guardando con fiducia sia ai mercati interni sia a quelli esteri. In un contesto difficile, ma pervaso di entusiasmo e desiderio di rinascita, il giornalista Marco Bolaffio riprende in mano il progetto della Fiera e investe quindici lire – lo stipendio di una sua giornata di lavoro – per acquistare gli opuscoli illustrativi delle maggiori fiere europee. Studia nei dettagli tutti gli aspetti organizzativi e il 1° novembre 1919 annuncia ufficialmente la nascita della Fiera Campionaria di Milano che si svolgerà dal 12 al 27 aprile 1920. Viene costituito un comitato promotore di cui Marco Bolaffio è segretario generale, il Grand’ufficiale Luigi Bizzozero presidente e Paolo Beghelli direttore generale. Il gruppo di lavoro occupa tre piccoli locali della ditta Manzoni in via Agnello 12. L’organizzazione dell’evento si rivela subito complessa e richiede un notevole investimento prima ancora di aver realmente sondato l’interesse dei potenziali espositori. I membri del comitato non desistono e anticipano un capitale personale di centomila lire ciascuno.

Viene individuata l’area dei Bastioni di Porta Venezia – la stessa utilizzata per le grandi Esposizioni del 1871 e del 1881 – e iniziano i lavori di costruzione delle opere necessarie alla Fiera. Nonostante la fretta, le difficoltà e gli innumerevoli imprevisti, la prima Campionaria di Milano viene ufficialmente inaugurata il 12 aprile 1920. Dietro l’arco in legno che identifica l’ingresso si apre una superficie espositiva di sedicimila metri quadrati; gli espositori sono poco più di mille e come stand vengono utilizzate anche le baracche in legno che in tempo di guerra avevano accolto i profughi di Caporetto. Pur nata in tempi rapidissimi e sotto la spinta di un’eccezionale voglia di fare, di costruire e ricostruire, le linee guida della nuova Fiera sono molto chiare sin dall’inizio. Si afferma subito come istituzione “privata”, autonoma e indipendente, e cerca fin dalla prima edizione di offrire la panoramica più ampia e allargata possibile del lavoro partendo dai prodotti e dalle idee, limitando l’offerta delle merci esposte a un solo “campione”, evitando “le scenografie e i sensazionalismi” tipici delle Esposizioni universali. Fin da subito, appare chiaro lo spirito commerciale della Fiera. All’inaugurazione della prima Campionaria, il presidente Luigi Bizzozero si esprime in questi termini:
“Le Esposizioni rispondevano alle esigenze di altri tempi, quando cioè le distanze non erano facilmente superate dalle comunicazioni e dall’abitudine ai lunghi viaggi. Erano una festa per la città in cui sorgevano, mille attrattive si aggiungevano per allettare il pubblico, che in grande percentuale era costituito da curiosi, di una curiosità, diciamolo pure, legittima, ma relativamente inutile. Le Mostre d’oggi, le così dette Fiere, hanno il duplice vantaggio di essere campionarie e temporanee. Sono la esibizione ridotta a dose omeopatica della produzione dell’oggi; sono la condensazione nell’espressione più sintetica del portato attuale dell’attività industriale. La loro durata dev’essere breve. Signori miei, il tempo pulsa con un ritmo velocissimo e l’invecchiamento è rapido.”

Gli inizi sono difficili, segnati però dalla ferma volontà degli organizzatori di proseguire nell’impresa, convinti della necessità di creare un punto d’incontro tra la domanda e l’offerta, tra la produzione e la distribuzione, sviluppando una fiera riservata soprattutto alle trattative d’affari e in misura minore al pubblico. Tutto si svolge nel clima di operosità e di rinascita economica che si respira nella Milano del primo dopoguerra. Una città con una solida tradizione industriale, che nella Fiera vede il ponte per raggiungere una dimensione realmente internazionale. L’onorevole Cappa, in un discorso tenuto al Teatro Diana sempre nel 1920, sottolinea il legame tra Milano e la Fiera:
“In questa Milano, dove il conflitto delle idee è acuto e così quello degli interessi, non ci sono monumenti che ostentino la fatale bellezza italiana di tipo tradizionalistico, poiché non bastano né il Duomo, né la chiesa delle Grazie a far tutta bella una città, né qualche altro monumento cristiano, qualche palazzo, una pinacoteca e qualche migliaio di volumi. La resistenza al lavoro, l’istinto del traffico, la pazienza nel produrre, l’abilità nel costruire pietra su pietra solide ricchezze sono in questa nostra metropoli atavico retaggio. Le Fiere Campionarie sono anche strumenti di rivelazione. Possono esercitare una funzione di conforto, quanto di stimolo intellettuale. Qualche volta l’industriale, come l’artista, si addormenta sugli allori. Coloro che non dormono mai meritano la ricchezza, siano essi popoli o individui. Marciare per non marcire!”

Lo sciopero generale indetto dai socialisti all’inizio dell’estate fallisce e la sera del 3 agosto 1922, dal balcone di Palazzo Marino occupato dai fascisti, Gabriele D’Annunzio pronuncia il celebre discorso “Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani”. Il prefetto Lusignoli rimuove il sindaco, scioglie il Consiglio comunale e nomina un nuovo commissario prefettizio mentre le camicie nere eseguono sistematiche azioni di rappresaglia. Nell’autunno dello stesso anno, i Fasci di combattimento organizzano a Milano la marcia su Roma. Poco dopo la chiusura della terza Campionaria, un regio decreto aveva costituito l’Ente autonomo Fiera di Milano campionaria internazionale. Forte di un’autonomia ormai formalmente riconosciuta e del crescente successo delle tre edizioni precedenti, la Fiera trova una sistemazione definitiva acquistando dal demanio pubblico un’area di quasi quattrocentomila metri quadrati intorno all’antica piazza delle Armi, già sede della grande Esposizione del 1906.
Iniziano i lavori di costruzione di quella che nel prossimo futuro diventerà una vera “città nella città”. In soli centocinquanta giorni si realizza il palazzo dello Sport e contemporaneamente altri padiglioni tra cui quello della Meccanica e le due palazzine degli Orafi, che in futuro diventeranno la sede della Fondazione Fiera Milano. Di anno in anno la cittadella della Fiera crescerà e svilupperà la propria struttura urbanistica sempre caratterizzata da una coppia di grandi vie diagonali che s’intersecano in una piazza centrale. Sono le vie dell’Agricoltura e dell’Industria, che si scambiano i relativi patrimoni di saperi e di conoscenze nella centrale piazza Italia, cuore del villaggio. Ci saranno poi il viale delle Nazioni, le vie del Commercio, dell’Arte, della Scienza, del Lavoro. Dal 1922 al 1928 saranno realizzati quasi novantamila metri quadrati di edifici per una spesa complessiva di oltre quaranta milioni di lire, interamente autofinanziati.

Nel 1926 le costruzioni in muratura sostituiscono completamente le vecchie e poco funzionali strutture in legno. Accanto ai padiglioni dei vari gruppi merceologici nascono i primi padiglioni regionali che saranno presto affiancati da quelli delle nazioni estere. Sempre nel 1926, la “libera e indipendente” Fiera di Milano – che richiama ormai più di un milione di visitatori e tremila espositori italiani ed esteri – si scontra con la politica del regime; viene commissariata e deve rinunciare, almeno formalmente, alla propria autonomia. In tutta Italia non esistono più né elezioni, né giunte, né Consigli comunali; il potere politico e amministrativo è interamente accentrato nella nuova figura del podestà. Alla guida dell’Ente Fiera viene nominato il conte di Lomnago Piero Puricelli, che resterà in carica fino alla Seconda guerra mondiale. Puricelli è però l’uomo giusto al posto giusto: un ingegnere di notevoli capacità e anche un imprenditore di successo. Nel 1922, mentre si costituiva l’Ente Fiera, Puricelli aveva realizzato l’autodromo di Monza, considerato “il più veloce del mondo”, e nel 1923, proprio mentre la Fiera s’insediava nella nuova sede, progettava e costruiva la Milano-Laghi, la “prima autostrada del mondo”. Puricelli, pur essendo un uomo gradito al regime, rimane innanzitutto un progettista e un imprenditore. Lavora al mantenimento della Fiera come punto d’incontro tra le culture e le società, intensificando il processo di integrazione della Campionaria nella città di Milano sotto il profilo architettonico e urbanistico.

Mentre si conclude la fase liberista del fascismo, il governo punta in maniera ideologica sulla campagna, azzerando le conquiste sociali che i contadini e i braccianti avevano ottenuto dopo la guerra, bloccandone gli spostamenti verso la città e avviando la “battaglia del grano”, una politica che attraverso l’aumento della produzione e l’imposizione di tasse sull’importazione mira a trasformare l’Italia in un immenso granaio, capace di rendere autosufficiente il paese sotto il profilo dei bisogni alimentari. Nelle campagne e nelle città dilagano la propaganda fascista, la retorica dell’autosufficienza e la mitizzazione dei valori legati alla tradizione. Comincia a delinearsi il progetto di una politica dell’autarchia che alla metà degli anni trenta porterà la Fiera di Milano verso un profondo mutamento, costringendola a rivedere la sua natura di “ponte tra le culture” per diventare una vetrina della capacità produttiva nazionale e dell’autosufficienza di un paese sempre più isolato dal resto del mondo. La politica dell’autarchia provoca la diminuzione dei consumi e il crollo delle esportazioni. Sono i primi segnali d’allarme di un contesto politico ed economico che sta rapidamente portando a un aumento dei prezzi e delle giacenze, con una crescita dell’indebitamento pubblico e privato. Siamo alla vigilia del crollo di Wall Street, un evento apparentemente lontano, eppure vicinissimo anche all’Italia di Mussolini. Siamo alle soglie di una crisi che innesca una spirale recessiva di proporzioni mondiali. Nell’Italia dell’autosufficienza, i disoccupati – spesso senza una casa – sono alla fine del decennio oltre un milione.

La “grande crisi” si sposta dall’America all’Europa e sembra annunciare la morte del capitalismo: la fine di un modello di società che aveva spinto il mondo occidentale verso l’industrializzazione e l’economia di mercato. Come scrive lo storico Valerio Castronovo, “la prospettiva di una decadenza del capitalismo, o la ricerca di un antidoto all’anarchia del capitalismo, fornì nello stesso tempo linfa e vigore anche al totalitarismo di destra, al corporativismo fascista dell’Italia di Mussolini come al nazionalsocialismo della Germania di Hitler”.
La Fiera di Milano vive l’evoluzione del mondo e ripensa a se stessa in funzione delle nuove prospettive di crescita del lavoro e della società. L’imprenditore Puricelli guarda agli anni trenta come a un periodo dove proprio dall’America e dal capitalismo potrebbero giungere le soluzioni ai gravi problemi innescati dalla stessa America e dal capitalismo.


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |