15 agosto 2012 - L’infinito polveroso: tributo a Giovanni Semerano.

In questo periodo sono immerso in un libro che considero straordinario, un vero pozzo da cui attingere idee.

Si intitola “L’infinito: un equivoco millenario” ed è il risultato di una vita di ricerche compiute da Giovanni Semerano, un linguista morto di recente che deve essere stato un uomo eccezionale. Intelligente, colto, ironico: un sapiente nel senso antico del termine, cioè colui che “sa fare”, “sa vivere”.

Per oltre quarant’anni ha esplorato la storia degli esseri umani scavando nelle origini etimologiche del greco, del latino e del sanscrito per riportare alla luce la lingua-madre accadica.

Per anni ci hanno educato al dogma della cultura indo-europea (i nazisti ci hanno ricamato tanto sopra…) e invece adesso sappiamo che la culla delle culture occidentali è l’antica civiltà semitica accadica.

antica tavola sumera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il libro smonta un’infinità di pregiudizi e ogni argomentazione di Semerano è come una dimostrazione matematica: una festa dell’intelligenza.

Un esempio: la celebre riflessione di Anassimandro dove si dice che “l’uomo nasce dall’infinito e all’infinito torna”. Per dire “infinito”, Anassimandro usa il termine “àpeiron”, da “péras” (limite) con l’alpha privativa. Semeraro ci porta invece indietro nel tempo e ci fa riascoltare i suoni di altre parole e di altri significati, come il semitico “apar” e l’accadico “eperu”, che si legano nel corso dei secoli all’ebraico biblico “aphar”. Queste parole, così assonanti al greco “àpeiron”, significano “polvere”.

L’uomo “nasce dalla polvere e alla polvere torna”. Semplice no?

Com’è semplice pensare che la parola “mano”, dal latino “manus”, ha attraversato il tempo senza una radice etimologica. Finché anche “la proiezione kantiana della mente” ha ritrovato la sua origine nell’accadico “manû”, che significa calcolare, computare.

Dunque la mano serve a far di conto.

Due esseri umani, quando si danno la mano, smettono di calcolare…


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