7 gennaio 2014 - Un sorso di Venezia nativa.

Oggi siamo in Veneto. Il paese è Mazzorbo, il paesaggio quello della Venezia Nativa.

Le parole con cui Davide inizia la puntata di Paesi, paesaggi, oggi vacillano. Il paese è in realtà un’isola; il paesaggio uno scenario storico e culturale prima che geografico. Ci attende un viaggio nel tempo, verso la Venezia Nativa di millecinquecento anni fa.

Dopo aver parcheggiato le macchine nell’imbarcadero di Cà Noghera, siamo saliti sulla barca di Alessandro. Per un paio di giorni – circondati d’acqua – le auto non ci serviranno.
Quando molliamo gli ormeggi è già buio. Alessandro procede lentamente, sfiorando i canneti che costeggiano i canali. In alto, nel cielo, le stelle sembrano lanterne sospese che indicano la via a chi sa leggere rotte nascoste.

In basso, in laguna, la barca svicola tra le briccole che affiorano dall’oscurità e segue percorsi tracciati nella mente.
La navigazione nel tempo procede fluida, finché a un certo punto Alessandro si volta verso di noi e dice: «Ci siamo, è là che andiamo…».

Indica un punto indefinito, una meta che nessuno di noi riesce a vedere e che si perde nel fondo della notte.
Abbiamo lasciato la terraferma e stiamo cercando rifugio sulle isole. Come gli abitanti di Antino, che nel quinto secolo scappavano dai barbari che mettevano a ferro e fuoco le loro case, i loro campi.

Le invasioni barbariche inghiottivano il loro passato, ma nelle isole della laguna avrebbero trovato un futuro inatteso: un luogo anfibio come una creatura mitologica, per metà marino e per metà terrestre.

Un terreno fertile, nato dall’unione di sabbia di mare e limo dei fiumi. Un rifugio dal clima mite dove per secoli le famiglie della comunità nativa avrebbero vissuto in pace dedicandosi all’agricoltura, alla pesca e alla caccia.

Arriviamo a Mazzorbo poco prima di cena e camminiamo lungo il perimetro dell’isola. Meno di due chilometri che racchiudono una manciata di case, un cimitero e un orto murato che si confondono nell’oscurità.

Domani, passeggiando tra i filari di vite che si distendono verso Burano sotto il campanile di Santa Caterina, Davide spiegherà che «intorno all’anno Mille, quando Venezia non era ancora nata, sulle isole vivevano già cinquantamila persone!».
Una storia bellissima, che pochi conoscono.

Gianluca, il protagonista della puntata, ce la racconta seduti a tavola. Le sue parole, accompagnate da un piatto di moscardini, limone e pepe verde, stimolano l’immaginazione. Penso a una giovane donna che raggiunge piazza San Marco alla testa di un gruppo di turisti. È una guida che spiega Venezia in tutte le lingue del mondo. Immagino che improvvisamente si volti e cammini verso l’acqua. Infine, dando le spalle al Duomo e guardando le isole, esclama: «Ecco a voi, Venezia!»

Gianluca ci racconta di Mazzorbo, Burano, Murano e Torcello; parla di antichi prati fioriti, ortaggi e alberi da frutta. Acque pescose e acini d’uva ambrati come gocce d’oro. Io continuo a fantasticare. Disegno nella mente una serie di bottiglie di vetro che dalla laguna galleggiano verso la terraferma. Ogni bottiglia contiene una storia, una traccia della Venezia Nativa che riemerge dal tempo e consegna la sua esistenza al presente.

Domani, Massimo filmerà un primissimo primo piano di Davide che dirà: «Quando venite a Venezia e ne ammirate i monumenti, ricordatevi che la sua anima agricola è nata molto prima di quella commerciale!»

A tavola, dopo lo sgombro al carcadé e mela verde, gustiamo i tagliolini alla cima di rapa con broccolo fiolaro, acciughe e limone.
Gianluca ci racconta che qualche anno fa, uscendo dalla basilica di Torcello, aveva notato nel terreno di una sua conoscente un vitigno molto particolare, quasi sommerso da altre uveche si contendevano il campo.
Una pianta con una foglia diversa da tutte. Con due ali arricciate e due incavi profondi come occhi. Sembrava una maschera.

«Questa è una pianta antica», gli aveva confidato la signora, come attingendo le parole dai ricordi di famiglia. «È il vitigno autoctono di Venezia!»
Gianluca cominciò allora a ricercare, sui libri e nei campi. Scoprì che quel vitigno si chiamava Dorona, che era stato coltivato fin dal primo Medioevo e che era poi diventato il vino dei dogi. Intuì però che quel vitigno era conosciuto già dalla popolazione nativa, da quella comunità di agricoltori, artisti e artigiani che aveva abitato le isole di Venezia prima che nascesse Venezia.

Tracce di Dorona erano sparse nei terreni della laguna. Poche piante abbandonate allo scorrere del tempo, come tenute in vita dal caso. Gianluca cominciò a realizzare una serie di micro-vinificazioni e si rese conto delle straordinarie caratteristiche di un vino bianco che aveva la forza di un grande rosso. Corpo e carattere solidi, invecchiati dal tempo e maturati al sole dell’esperienza.

Notò però che la qualità del vino tendeva a peggiorare a mano a mano che ci si allontanava dalla terraferma. Il terreno della Venezia Nativa è infatti un equilibrio generoso – ma precario – di sabbia e fango. Basta poco perché il sogno svanisca.

Nell’isola di Mazzorbo, accanto a Burano, si erano forse create le condizioni migliori. Ed è proprio a Mazzorbo che Gianluca ha recuperato un antico orto murato e gli ha ridato vita. Due soli ettari: uno di filari di Dorona e l’altro coltivato a prato e orto. Dell’orto si occupano gli anziani dell’isola, che praticano un’agricoltura sostenibile e ripercorrono i sentieri dei loro avi, con un unico obbligo: quello di coinvolgere nel lavoro del campo i bambini delle isole.

Il vigneto è invece lavorato direttamente da Gianluca e dal fratello Desiderio, che coltivano la Dorona come fosse un dono prezioso. Solo trenta quintali d’uva all’anno, perché le caratteristiche uniche della pianta si concentrino in pochi acini. Poi lasciano macerare il mosto sulle bucce per oltre un mese e lo affinano in botti di rovere per almeno due anni.

Durante le riprese, Davide guarda il pubblico nascosto dietro la telecamera ed esclama: «Un bianco superiore vinificato come un grande rosso. Pensate che una bottiglia di Dorona può vivere anche trenta o quarant’anni!»

A tavola, mentre concludiamo con gelato di camomilla e meringa al limone, chiedo a Gianluca qualcosa in più su questo tempo lunghissimo. Gli domando se la Dorona migliori o peggiori nel corso dei decenni. Naturalmente non sa cosa accadrà nel futuro del suo vino. Però lo immagina e mi risponde con una parola sola: «Evolve,» dice in tono sospeso, ricordandomi che la vita è sempre trasformazione; maturazione e ricerca della libertà.

Al termine delle riprese, Massimo decide di filmare anche con la luce del giorno il nostro arrivo nella Venezia Nativa e il distacco dalla terraferma. Allora saliamo nuovamente sulla barca di Alessandro e ripercorriamo in senso inverso il nostro viaggio nel tempo.

Alessandro mette in moto e dirige la prua verso Nord. I secoli scorrono rapidi sotto la chiglia del motoscafo, sfiorano gli argini dei canali, sfilano sotto le reti sospese dei pescatori. Qualche cane abbaia da terra e difende il territorio; ci considera barbari minacciosi.

Arriviamo di fronte a piazza San Marco e galleggiamo tra le gondole e i vaporetti. I turisti sono tutti lì, schierati di fronte al Duomo, armati di strumenti capaci di fermare il tempo e contenere il mondo. Sono tanti, tutti divisi per lingue e tratti somatici, con le macchine fotografiche puntate sulla colonna e il leone alato.

Mentre Massimo filma, Davide e io osserviamo le guide turistiche. Ci voltano le spalle e guardano la città. Spiegano Venezia in tutte le lingue del mondo.
Noi ci sentiamo al di qua di un’immaginaria linea di confine.

Improvvisamente vediamo una di loro che si gira su se stessa. È una giovane donna. Raggiunge il bordo dell’acqua, distende un braccio e indica le isole dietro di noi, lontane nel tempo. Dice qualcosa ai turisti mentre Massimo, che ha appena terminato le riprese, chiede ad Alessandro di ripartire.
Non sento le parole della guida, ma le immagino: «Ecco Venezia, la Venezia Nativa…». Le stesse parole che diremo noi in trasmissione.

Adesso è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Allora, quando venite a Venezia, immergetevi nella sua anima nativa, un tesoro ancora custodito nelle isole della laguna.
Da vedere ci sono i grappoli di Dorona e da toccare c’è la bottiglia del suo vino, con una foglia d’oro zecchino battuto a mano e fuso nelle vetrerie di Murano.

Vino, oro e vetro: tutta Venezia in una bottiglia! Venite nella Venezia Nativa, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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