11 ottobre 2013 - Il latte in via di estinzione.

Oggi siamo in Liguria; il paese è Rezzoaglio, il paesaggio quello della Val d’Aveto.

Ci aspetta Ugo, un ragazzo di mezza età nato in una valle del chiavarese, quando le case erano masserie autosufficienti e avevano il bestiame, l’orto, la vigna e il forno. Dopo aver studiato e lavorato in città per una trentina d’anni, Ugo ha deciso di tornare alle origini e risalire in montagna con un’idea fissa in mente: allevare la mucca Cabannina, tipica dei sentieri impervi e dei boschi fitti della Val d’Aveto. Nel pomeriggio, davanti alla macchina da presa, Davide spiegherà che «la Cabannina si stava estinguendo, perché si stavano estinguendo gli allevatori».

E’ una vacca piccola e robusta, che mangia poco e si accontenta di ciò che trova; i suoi piedi non si feriscono sulle pietre e le sue zampe affrontano i rovi come quelle dei cinghiali. Ogni tanto qualcuno prova a portare quassù le Frisone, abbagliato dal miraggio del guadagno. In genere non resistono al primo inverno. La Cabannina si arrampica come una capra e non si ammala mai. Quasi non conosce il veterinario. Partorisce dove capita e il suo latte è eccezionale. Ne produce poco, ma per tutta la vita. In valle si parla di esemplari capaci di superare i venticinque anni di età, con oltre quindici lattazioni!

Un latte davvero unico, quello della Cabannina. Un latte in via di estinzione, che rischiavamo di perdere per mancanza di mucche e di allevatori.

Massimo e io partiamo da Albenga al mattino presto. I chilometri per raggiungere Rezzoaglio sono pochi, ma la strada è tanta. Filiamo veloci fino a Chiavari, poi da lì imbocchiamo la provinciale e cominciamo a salire. Un viaggio nel tempo. Curva dopo curva ritroviamo un po’ della nostra storia. Il territorio, le comunità. Acqua di mare che bagna le radici del monte. Alberi che respirano sale. Liguria…

A Cabanne la strada spiana e il motore dell’auto respira.

Un migliaio di anni fa, i monaci avevano eretto da queste parti il santuario di San Michele de’ Petramartina. Nei loro piani doveva essere meta di pellegrinaggi, ma il territorio lo rendeva inaccessibile. La valle era paludosa perché il corso dell’Aveto era ostruito da una frana. Così, avevano cominciato ad accendere con meticoloso puntiglio dei grandi falò per spaccare le rocce, liberare il fiume e spianare la strada ai fedeli. Un’impresa biblica, da gente di fede, durata anni e capace di produrre la piana fertile che adesso percorriamo cercando un cartello che indichi la fattoria di Ugo.

La storia dei monaci di Cabanne è anche crudele. I pellegrini dell’alto Medioevo avevano effettivamente cominciato a frequentare la valle; non il santuario, però, ma altre chiese che nel frattempo erano sorte nel più agevole territorio. Il monastero era rimasto tenacemente abbarbicato alla sua rocca, chiamata appunto Petramartina.

Anche l’azienda di Ugo si chiama così, in ricordo di quella cengia che sovrasta l’Aveto e osserva immobile lo scorrere del tempo in riva al fiume. Una valle per gente paziente. Pescatori di trote…

Anche Hemingway era stato da queste parti e aveva paragonato l’Aveto a certi fiumi delle Montagne Rocciose. Lui però non era un tipo paziente. Un pescatore d’altura, più che da mosca.

Quando arriviamo a Petramartina non è più tanto presto. Davide è ancora in viaggio, mentre Ugo e sua moglie Serena stanno facendo il formaggio. Il famoso U’ Cabannin.

Motore, azione: Massimo inizia a lavorare. Io resto fuori. Guardo, penso. A modo mio, lavoro. Vedo un recinto e scorgo due mucche all’interno. Una di loro si avvicina allo steccato e mi tende il muso. Si chiama Raia.

Sta per partorire. E’ quasi pronta. Mi spiegano che potrebbe dare alla luce il vitello anche adesso, davanti a me. Nel caso, non saprei cosa fare. Ma non c’è da preoccuparsi: è Raia che sa cosa fare.

Dopo la casera, il pascolo. Davide è arrivato e ha indossato l’abito di scena. Mi stupisco ogni volta di come l’abito faccia il monaco. Me l’ha insegnato lui, lavorando in teatro. Con questo completo di fustagno scuro diventa un naturalista da campagna di fine Ottocento. Prende la sedia e se la mette in spalla come fosse una sciarpa; un gesto lieve, disinvolto. Poi s’inerpica lungo il sentiero con il passo deciso del camminatore. È un cercatore incallito di paesi e paesaggi.

Le mucche lo accolgono con un misto di curiosità e interesse. Non hanno mai visto un essere umano che si siede in mezzo a loro, parla nel vuoto e guarda fisso nell’obiettivo di una macchina da presa, con milioni di persone che lo ascoltano dall’altra parte del mondo. Ne approfittano per dire qualcosa anche loro. Muggiscono forte e quasi coprono le sue parole. Una vacca più anziana delle altre lo sfiora mentre Davide spiega che ci troviamo “a soli settanta chilometri da Genova, tra vallate di pascoli, castagneti e faggeti punteggiati da borghi e castelli feudali. Un territorio selvaggio, però modellato dall’uomo…”

Verso sera, quando terminiamo le riprese, le mucche tornano in stalla. Le loro giornate sono tutte simili, fatte di fieno e digestioni lente; scandite dai tempi delle mungiture e dai ritmi delle stagioni. Davide si toglie l’abito mentre noi restiamo a lato del sentiero. Osserviamo Ugo che raduna le mucche e le guida verso casa. Dalla stalla al pascolo, dal pascolo alla stalla. Tutti i giorni così, dal mattino alla sera. Albe e tramonti racchiusi in una collezione di giorni e notti.

Massimo filma. In silenzio, da lontano.

I gesti del pastore sono precisi, esatti. Netti come i versi della sua bocca e i movimenti delle sue mani. Sono ciò che le mucche conoscono. Ciò che a loro serve.  Allora, come dice Davide, «se venite in Val d’Aveto, fate amicizia con una mucca Cabannina e seguitela nei suoi sentieri. Se poi incontrate Raia, chiedetele del suo vitello e al mattino ricordatevi di guardare il sole che sorge dietro l’Appennino. Molti dei nostri figli non hanno mai visto un’alba, mentre i nostri nonni non ne hanno mai persa una…».

Il sole tramonta e sembra pure lui incamminarsi lungo un sentiero che dall’alto scende verso casa, al di là del mare.

Ugo ci offre un vasetto di yogurt bianco, fatto con latte di Cabannina e un pizzico di miele di Petramartina. Amo le api di Ugo, generose come le sue mucche. Il miele delle sue arnie vale il latte della sua stalla.

Bene, adesso è proprio tempo di andare.

«Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi» dice Davide alzandosi dalla sedia. Poi la chiude, se la rimette in spalla riprende a camminare. In lontananza, quasi sparendo nel bosco, la sua voce dice: «Venite in Val d’Aveto, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti».

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |