23 marzo 2014 - Note di birra.

Oggi siamo in Emilia-Romagna. Il paese è Roncole di Busseto, il paesaggio quella della Bassa Padana.
Sono qui con Davide, in piedi, immobile nel piazzale di fronte alla casa di Giuseppe Verdi. In fondo alla strada vediamo l’auto di Massimo che procede verso di noi. Un sorriso, un cenno della mano, poi lui accelera e sterza bruscamente.

Il botto è inatteso. Un tonfo sordo di ferro e gomma e aria compressa che si avventano sul rilievo del marciapiede…
Molti anni fa, durante un colloquio di lavoro, un celebre direttore creativo mi disse una cosa che non ho mai dimenticato: «Gli oggetti vedono e sentono tutto, non dimenticano niente e parlano a chi li sa ascoltare. Quando fai un colloquio di lavoro, per capire se quel posto va bene per te, non ascoltare le persone ma i muri!»

Aveva ragione; gli oggetti assistono alle vicende umane e registrano anche i segnali più deboli. Nulla sfugge alla memoria delle cose.
Da oggi in poi, gli alberi che guardano la casa di Giuseppe Verdi e i muri del bar di Giovannino Guareschi non ricorderanno solo le arie del maestro e le frasi dello scrittore, ma anche il dolore della ruota di Massimo, le sue imprecazioni, le telefonate alla ricerca di un gommista il sabato mattina nel cuore nebbioso della Bassa Padana.

Manuel e Giovanni ci vengono incontro. Il padre di Manuel individua anche un meccanico disposto a «dare un’occhiata» alla macchina del nostro regista. Le cose si mettono bene e dalla campagna giunge l’eco della forza del destino. Poche note appena abbozzate che ci suggeriscono d’iniziare a lavorare.

Decidiamo che l’anima di questo territorio sarà un luogo sulle rive del Po. Il fiume è la chiave di questa zona, capace di regalare emozioni che emergono da una coltre di apparente anonimato.
Davide – che ama la Bassa Padana – sceglie con cura un’ansa del fiume con gli arbusti di spalle e l’acqua sempre presente. Acqua corrente, sonora come un basso continuo; un moto perpetuo di ricordi e pensieri che scivolano da monte a valle. Li registriamo tutti, mentre Davide dice: «Ecco, qui mi sento come a casa! Siamo sulle rive del Po. Per secoli, questa è stata una terra d’acqua: distese d’acquitrini strappati al grande fiume. Una terra fertile, calda e umida; spesso nebbiosa e misteriosa…».

Non oggi, però! La foschia del primo mattino si è dissolta e la luce del sole è abbagliante. Nella macchina da presa tutto si deposita nitido e brillante, come fossimo su un ghiacciaio alpino. I monti di Bergamo e Brescia sono proprio lì, di fronte a noi, e sembrano vicinissimi.

Giovanni è il protagonista della puntata insieme a Manuel. Sono due amici che nel 2006 hanno deciso di trasformare la loro passione in un’impresa. Manuel si occupava di logistica nel settore alimentare mentre Giovanni era un aspirante birraio con una naturale inclinazione per le questioni umanistiche.

Gli studi di agraria lo avevano reso un tecnico di cibi e bevande anche quando era un dilettante. Poi l’amore per i luppoli e i lieviti è diventato un mestiere. Così, la professionalità si è messa al servizio della passione, la ragione al fianco del cuore.

Troviamo continuamente punti di contatto. Giovanni è stato allevato dal padre alla scuola del cinema. Anche per lui, all’origine di tutto c’è la parola. La narrazione è una grande rete di sostegno delle cose del mondo.

«Fare birra è un atto creativo, come dipingere o suonare,» mi dice mostrandomi alcune delle sue creazioni. «La birra la fanno i lieviti,» continua Giovanni, «ma è la creatività del birraio che li guida e li ispira».

Le sue birre sono le più premiate al mondo e ognuna ha una storia da raccontare. Nascono da emozioni racchiuse nello spazio di un boccale.
La sua idea di riferimento è l’equilibrio. Un concetto sfumato, di cui tanti parlano ma che pochi realizzano.

Molti cercano di fare una birra sensazionale, che stupisca al primo sorso. Le birre di Giovanni devono invece piacere fin dal primo sorso, e poi continuare ad appagare il naturale bisogno di equilibrio degli esseri umani.
«Come la musica immortale di Verdi,» aggiungo io.
«Come la musica immortale di Mozart,» precisa lui.

Davide ci ascolta e sorride. Poi guarda nella macchina da presa ed esclama: «Le birre di Giovanni sono diverse da tutte ma godibili da tutti; puro piacere dal primo all’ultimo sorso!»
Le bevono anche i contadini tedeschi che da generazioni coltivano il luppolo. Le espongono con orgoglio sui davanzali delle finestre e affermano che siano le uniche dove ritrovano i profumi e i sapori della loro materia prima.

«Che senso ha coltivare il luppolo dietro casa», mi domanda Giovanni, «se poi devo ammazzarlo di chimica per tenerlo in vita?»
Giusto. Meglio abbandonare il concetto di filiera corta se diventa un mito da inseguire a tutti i costi. Meglio cercare altre forme di dialogo con la terra e i suoi frutti.

Nel birrificio di Giovanni e Manuel, ad esempio, c’è una cantina dove alcune birre invecchiano in botti di rovere che erano state usate per affinare grandi vini, whisky o liquori. Una di queste birre speciali matura addirittura trenta mesi in botti di Amarone. Ha una vita di cinquant’anni e andrebbe stappata un mese prima di berla!
Chissà quante storie e quali emozioni hanno da scambiarsi la giovane birra e l’anziano legno…

Bene, abbiamo appena terminato le riprese ed è già tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Salgo in macchina e guido verso Parma pensando alle birre del Maestro e alle loro storie. A poco a poco i pensieri prendono forma, accompagnati dal piano di Brad Mehldau che suona My favorite thing. Li appunto nella mente, poi in albergo li scrivo di getto.

Ecco, sembrano un racconto. Dedicato a Giovanni, a Manuel e alle loro birre.

La stagione della pesca stava per cominciare e la locanda era piena di fumo e di marinai. Il ragazzo raggiunse il tavolo dell’armatore; davanti a lui, una ciotola di zuppa.
«So che cercate uno strumentista di bordo», disse.

L’armatore alzò gli occhi sul giovane. Poi li riabbassò e iniziò a mangiare.
«Tu non sei uno strumentista».

«Di preciso no», ammise il ragazzo. «Non suono alcuno strumento, se è questo che intendete. Però canto, e molto bene anche. Con la voce, posso fare qualsiasi strumento».

L’armatore sorrise. A lui serviva gente esperta, capace di leggere sul quadrante dello scandaglio i movimenti segreti del pesce. E tuttavia quel ragazzo gli era simpatico.

Si guardò intorno alla ricerca di un’idea, e quando vide l’oste che versava della birra spillandola da una botticella metallica sospesa sopra il bancone disse: «Cantami la birra».

Il ragazzo prese tempo e seguì il movimento del liquido che scorreva lungo il vetro inclinato del boccale. S’infilò in quella materia fluida, orlata di schiuma e pervasa di bollicine. S’immaginò la vita prima dell’inizio, quando la birra riposa al buio e i colori ancora non esistono.

Iniziò con una nota lunga, bassa e sofferta. Affiorava dal suo corpo e una volta nell’aria vibrava aggrappandosi alle pareti della locanda.
L’armatore appoggiò il cucchiaio sul bordo del piatto.

Il ragazzo socchiuse gli occhi e inclinò la testa. Dalle sue labbra usciva sempre la stessa nota, ma di una tonalità leggermente più alta. Una nota sola, niente di più, ma era già il primo movimento di una sinfonia.
Un rapido fraseggio s’appoggiò a quella base e salutò la gioia della nascita. La birra usciva dalla botte e incontrava la luce, i colori, si tingeva di giallo e se ne meravigliava producendo una cascata di note cristalline che si ammassavano le une accanto alle altre.

Non era un virtuosismo fine a se stesso. Il ragazzo non cantava più per essere assunto, non cercava di stupire nessuno. Ancora una volta era diventato musica. Non la suonava, ma la portava dentro di sé.

Poi vide la mano dell’oste che reggeva il boccale e lo offriva a un marinaio. Era giunto il momento dell’ordine, la maturità delle cose. Le note divennero più severe, il ritmo cadenzato. Con un angolo del corpo, il ragazzo produsse una coppia di archi e picchiando con forza le mani contro il petto anche dei timpani.

Lunghe sorsate. Il marinaio si asciugò con cura le labbra con il bavero della giacca.

Alla fine, sulla parete verticale del boccale rimanevano solo tracce di schiuma che scivolavano sul fondo. Il ragazzo si avviò a concludere con un’altra nota lunga. Con la coda dell’occhio si accorse però che intorno a lui altra birra veniva versata.

Allora ebbe un sussulto e da qualche parte, tra il palato e la lingua, scovò un flauto. Vi soffiò delicatamente e chiuse con un ricciolo di speranza. Una delicata linea di note che saliva verso l’alto e spariva alla vista e all’udito, lasciando di sé un piacevole ricordo, un’emozione lieve.

L’armatore si asciugò le labbra. Non aveva bevuto, eppure qualcosa gli era scivolato fino in fondo al corpo, pizzicandogli le corde dell’anima.

«La paga non è alta e la vita a bordo è dura», disse infine, «ma se ancora lo vuoi, quel posto di strumentista è tuo».

Bene, adesso è proprio tempo di andare. Venite a Roncole di Busseto e lasciatevi pizzicare le corde dell’anima dalle birre di Giovanni e Manuel; ma non venite come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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