27 gennaio 2014 - L’oro rosso di Villalba.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Villalba, il paesaggio quello della Valle del Bilìci. La strada è scorrevole. Guido piano, tanto ho tempo. Conosco bene questo litorale che da Trapani porta a Palermo. Mi piace attraversare i vigneti dell’interno, seguire con lo sguardo la montagna che cresce sulla destra e il mare che si distende sulla sinistra.

Dopo l’aeroporto, il Monte Pellegrino. La grotta di Santa Rosalia mi ricorda il primo Festino che ho scritto nel 2004. Supero la lapide in memoria della strage di Capaci. Prima c’era un pezzo di guard-rail verniciato di rosso. Sangue vivo, sulla strada esplosa.

A Palermo c’è molto traffico. Procedo a passo d’uomo superando banchetti di pane e panelle. In piazza Kalsa c’è quello di Ciccio, il mio preferito; il suo panino con lo sgombro non ha rivali.
Ingoio il ricordo e tiro dritto, verso la Conca d’Oro.

Una manciata di chilometri appena, poi a Termini Imerese svolto a destra e comincio a salire. La strada di cui conoscevo ogni metro diventa all’improvviso un territorio nuovo e inatteso. Addirittura sorprendente. Si procede in quota, attraversando un paesaggio aspro e lieve al tempo stesso, superando piccoli paesi che interrompono pascoli e campi coltivati. Procedo davvero molto lentamente, lasciando che l’occhio rimbalzi tra i dettagli delle cose. Ogni tanto mi fermo, scendo dalla macchina e scatto delle fotografie; altre volte accosto, resto a bordo e guardo soltanto.

Quando arrivo nella Valle del Bilìci è tardissimo. Dobbiamo iniziare subito le riprese. Massimo mi viene incontro e mi passa dal finestrino un cesto di pane fatto in casa e una bottiglia d’acqua. È ciò che desideravo. 
Siamo qui per raccontare una piccola storia d’agricoltura antica
, legata alla coltivazione del pomodoro pizzutello siccagno. “Siccagno”, cioè secco, senz’acqua.

Decidiamo di andare con Davide e la sua sedia sulla cima del monte di Marianopoli, dove ci sono le pale eoliche e si domina la valle. Lui si mette comodo e si sente subito come a casa. Guarda in basso e spiega che «il nome Bilìci, pare che significhi ombelico…».
Questo è infatti il cuore della Sicilia, dove le temperature superano i quarantacinque gradi ma possono anche scendere sotto lo zero. Il terreno è secco e argilloso, ma ricchissimo di sostanze organiche.

Visto dall’alto, il paesaggio mi ricorda certe foto di Olivo Barbieri, dove il controllo del contrasto e della messa a fuoco rendono i luoghi simili a plastici. Un treno attraversa la vallata e sembra un modellino; gli alberi lungo la strada assomigliano a quelli che gli architetti fanno con le spugnette e gli stuzzicadenti per abbellire i progetti. Tutto pare una riproduzione della realtà, e noi dei giganti che da lassù potremmo prendere il mondo con la punta delle dita.

Credo che sia una specie di illusione ottica: un effetto di luce che stimola una reazione della mente. Ne parlo a Francesco, il protagonista della puntata, che mi risponde con un sorriso: «Qui è sempre così – dice – tutti i giorni, a tutte le ore».

Francesco non sembra un contadino; un ricercatore, piuttosto. Senza dubbio uno sperimentatore, uno a cui piace giocare con la terra e costruire castelli. Zappare campi, seminare piante, ritrovare cibi dispersi e risvegliare sapori addormentati.
Fosse nato a New York avrebbe forse coltivato orchidee in serra, come Nero Wolfe; ma è nato nel cuore della Sicilia e coltiva il pomodoro pizzutello siccagno.

Pizzutello è la varietà, siccagno la tecnica. Come dicevo, una coltivazione arcaica senz’acqua, l’unica possibile in un posto dove non piove quasi mai e i pozzi sono pochi, profondi e lontani.
Il pizzutello si semina a marzo e per tutta l’estate non riceve da bere né dal cielo né dall’uomo. Il contadino deve però smuovere il terreno e zappettare il campo tra i filari, per rompere la crosta argillosa e permettere all’umidità di correre tra le radici e nutrire le piante.

Adesso la stagione è finita e i filari sono spogli. Come sono diverse queste piante di pomodoro da quelle della mia infanzia nella piana di Albenga! Nei pomeriggi d’estate, noi ragazzi le innaffiavamo con una grossa canna nera che mettevamo all’inizio del solco. Poi camminavamo lungo i filari sincronizzando le chiacchiere con lo scorrere dell’acqua. I nostri pomodori erano tondi e gonfi, questi sono piccoli e allungati, crescono rasoterra e sembrano nascondersi tra le crepe del campo.

Francesco ci mostra la tecnica di coltivazione. La sua zappa scalza rapida il terriccio tra le piantine, seminate con cura a una a una. È sempre bello vedere l’artigiano al lavoro, quando usa gli strumenti come estensioni degli arti. Quando modifica se stesso insieme alla materia che lavora.
Il momento ha una sua magia. Massimo se ne accorge e toglie la telecamera dal cavalletto per inseguire i gesti di Francesco e filmare il suo lavoro.

Davide e io siamo sempre nell’inquadratura. Il regista ci rimprovera. Noi facciamo del nostro meglio per rimanere alle sue spalle, ma lui è troppo rapido: saltella da destra a sinistra, avanti e indietro per catturare le azioni del contadino, sempre chino sul terreno con la zappa in mano.

Decido allora di allontanarmi. Il padre di Francesco mi raggiunge e mi offre un peperone piccolo e dolcissimo. Un altro tesoro di questa terra. Lo mangio a piccoli morsi, come fosse un biscotto. Da lontano vedo Davide che prende un pizzutello dalla pianta e dice al pubblico a casa: «La produzione è scarsa e la fatica tanta, ma la qualità eccezionale! Pensate che le mogli dei contadini, per fare la passata di pomodoro, volevano solo u’ pizzutellu siccagnu e dicevano al marito: ‘Non mi portare nient’altro in casa, voglio solo quello!’»

La sera a cena, Francesco ci racconta della sua attività di ricercatore e di sperimentatore agricolo. Anni fa, sulle orme del Kamut, aveva scoperto che si trattava dello stesso grano che i contadini di Villalba e Valledolmo coltivavano nella loro terra e chiamavano Perciasacchi. Un nome affettuoso, derivato dall’uncino del chicco che rompeva la tela dei sacchi. Tutto questo prima che la multinazionale americana del Kamut nascesse e inventasse la leggenda del grano egizio dei faraoni.

Ma sono molti i grani autoctoni di questa zona della Sicilia. Francesco li coltiva in maniera rigorosamente biologica, con basse rese e alta qualità. Ci sono ad esempio il Tumminia e il Realforte, tipico grano duro dei Monti Sicani; oppure il Casedda, grano tenero ideale per fare pane, dolci e preparare la “Cuccia”, il piatto tipico della festa di Santa Lucia.

Poi mi racconta della lenticchia di Villalba e si perde nel mondo dell’olio e degli ulivi. Un universo ancora tutto da esplorare. Mi spiega che nella valle del Bilìci ci sono varietà che nessuno coltiva più e che invece sono eccezionali.

Dopo cena usciamo nel cortile di casa. In questa terra dove tutto sembra in miniatura, la luna ci appare gigantesca. Sorge da dietro il monte e illumina i nostri gesti. Comincia a fare fresco. Francesco mette una mano in tasca e quando la tira fuori, nel pugno, ha degli altri semi. Altre piante dimenticate da seminare e far germogliare. Altre storie di questa terra da raccontare.

Poi si va a dormire. Domani saremo tutti a Palermo. Francesco al mercatino del biologico di Palazzo Steri, Davide e io in piazza Kalsa, da Ciccio, a mangiare il suo panino con lo sgombro.
Guardo l’orologio e vedo che si è fermato. Domani, in città, cambierò la pila. Adesso non mi serve. Qui il tempo si è fermato e l’orologio è un oggetto inutile, da dimenticare.

Bene, adesso è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Allora, come dice Davide, venite a Villalba, nella Valle del Bilìci; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Cliccate qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |