19 febbraio 2016 - Liquirizia di Calabria.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Rossano, il paesaggio la Piana di Sibari.

Le coordinate geografiche sono 39°34’ Nord e 16°38’ Est. Rossano è un’antica città affacciata sullo Jonio e sulla Sila. Da un lato onde lunghe, stirate dal vento; dall’altro pareti ripide e distese di conifere che custodiscono abitazioni in pietra, piccoli borghi e chiese bizantine come l’abbazia di Santa Maria del Patire. Proprio qui saliremo nel tardo pomeriggio, cogliendo gli ultimi istanti di luce, per filmare Davide che passeggiatra i mosaici.

La piana di Sibari è un territorio unico, armonia di culture di mare e di montagna. Questo era il cuore della Magna Grecia; fa un certo effetto camminare oggi tra capannoni selvaggi e scheletri di edifici, pensando alla terra dei padri: Erodoto e la storia, Pitagora e la matematica, Alcmeone e la medicina, Milone e lo sport.

Ignoranza e avidità sono armi potenti, capaci di distruggere.
In questi terreni, così ricchi di storia, la natura ha nascosto un vero tesoro: la liquiriziaUna radice selvatica che cresce praticamente solo qui in Calabria.

La famiglia di Fortunato – il protagonista della puntata – lavora da tredici generazioni in maniera artigianale la migliore liquirizia del mondo. La sua azienda è una delle pochissime a seguire tutta la filiera, partendo proprio dalla radice. Probabilmente è anche la più antica; l’attività era iniziata nel ‘500 e l’impresa è stata fondata nel 1731.

Trecento anni, tra quindici d’anni. Un patrimonio di cultura e di conoscenze che si sarebbe perso nel vortice della modernità, tra dolciumi di zucchero raffinato, coloranti e aromi artificiali.

Iniziamo le riprese nel campo, per seguire da vicino il cammino della liquirizia: dalla nuda terra a un’elegante scatoletta di latta. Tutto inizia con una pianta infestante, che cresce spontaneamente e si raccoglie ogni quattro anni, perché dopo l’estirpazione bisogna attendere che la radice si riformi.

La pianta ha un fusto esile e delicato, però dotato di radici potenti e profonde, spesso lunghe più di un metro. Un tempo si credeva che scendessero fino all’inferno!

La tecnica di raccolta è interessante. Immaginavo di passeggiare insieme a Davide e Fortunato in mezzo alle sterpaglie, strappando a braccia le radici di liquirizia dalle viscere della terra. Invece arriviamo con le macchine ai margini di un grande campo. Il terreno è perfettamente arato. Gli agricoltori hanno scavato profondi solchi con il trattore e sono entrati come soldati in quelle trincee per prendere le radici di liquirizia. Per raccogliere qualcosa dall’inferno, bisogna essere disposti ad andare molto vicino all’inferno.

Dopo il campo, la fabbrica; terminata la raccolta, inizia la lavorazione. Nell’azienda di Fortunatoè stato recuperato lo storico concio settecentesco, l’antico laboratorio dove le radici vengono tagliate e lavorate. Qui, la mano dell’uomo – con l’aiuto della tecnica – trasforma una semplice radice in un prodotto di altissima qualità, tutto naturale, senza additivi e dal sapore inimitabile.

La prima stanza di lavorazione è proprio il piazzale, dove le radici vengono depositate e selezionate in base alle caratteristiche. Ci sono mucchi di tronchetti di liquirizia, ancora sporchi di terra, ammassati sui bancali. Vengono continuamente movimentati dai muletti che li portano al taglio. L’odore è fortissimo, misto alla polvere di terra sospesa a mezz’aria. Anche il rumore delle macchine è assordante. Ce n’è una dotata di nastro trasportatore che taglia le radici, riducendole a una poltiglia fibrosa e verdastra. La massa grezza viene poi portata all’interno e caricata in una speciale caldaia dove un getto di vapore ne estrae il succo.

Sembra di essere in una distilleria. Il liquido esce dalla caldaia e passa nella conca, dove bolle e perde l’acqua. Diventerà una massa solida che poi sarà tagliata, lucidata e confezionata. Le conche sono due grandi contenitori di ghisa, dove la liquirizia si prosciuga fino a diventare una pasta. Attorno a queste grandi pentole sembra invece di essere in cucina. Il mastro liquiriziaio si muove come uno chef. Gli chiediamo di togliere il coperchio per permetterci di filmare il liquido scuro che gorgoglia smosso dalle pale. Impostiamo le luci e vediamo lo chef agitarsi, guardare l’orologio, annusare il fumo che fuoriesce dalla conca. Siamo troppo lenti e la liquirizia potrebbe bruciarsi. Così, per non avere sulla coscienza un turno di lavorazione, lasciamo perdere le luci e accendiamo il faretto a mano. Nella penombra portiamo a casa una delle inquadrature più suggestive di tutto il servizio.

Mentre ci trasferiamo nell’ultima stanza, Fortunato mi racconta che le conche sono state realizzate all’inizio del Novecento da pezzi unici di ghisa. Nel corso del secolo, la sua famiglia ha cercato più volte di sostituirle con altre d’acciaio, ma finora tutti gli esperimenti sono falliti. Solo quelle vecchie conche, scavate nella ghisa come Ulisse aveva scavato il suo letto nel tronco di un albero, resistono alle altissime temperature senza deformarsi.

Per lui è un problema, ma anche una bella storia da raccontare. Nel reparto del taglio scopriamo un altro mondo ancora. Adesso sembra di essere da un panettiere. C’è una macchina di metallo che sforna a intervalli regolari la pasta di liquirizia. L’operaio la taglia e la mette sul tavolo. Mi perdo con la macchina fotografica a inseguire i dettagli della trama di liquirizia grezza. Pani scuri che sembrano foche e leoni marini distesi sulla spiaggia. La testa e la coda alle estremità, la pancia debordante al centro. Il tutto racchiuso da una pelle grinzosa e ruvida.

Usciamo dal concio e procediamo verso il museo d’impresa. Uno spazio curatissimo, visitato da decine di migliaia di persone ogni anno. L’edificio che lo accoglie è la storica residenza di famiglia, che risale alla fine del Quattrocento. Per arrivarci bisogna passare sotto la strada statale. Chiedo a Fortunato se non si senta assediato da questa strada e dalle costruzioni intorno, che sembrano soffocare l’edificio e la sua storia. Mi racconta che il nonno aveva provato a opporsi alla costruzione. In famiglia conservano ancora la lettera dove le autorità spiegavano che il futuro non si poteva fermare.

Nel museo, Davide assaggia la liquirizia e davanti alla telecamera afferma che «è un potente tonificante, antinfiammatorio, antiossidante, cardiotonico, disinfettante della gola, dell’apparato respiratorio e di quello digestivo…»

Io ascolto con interesse, pensando a tutta la liquirizia che abbiamo mangiato e respirato oggi.

Scopro anche che questa radice prodigiosa si usa nell’alta cucina, nella produzione di liquori, distillati e in prodotti cosmetici come dentifrici, saponi e creme.

Quando Davide chiude la sedia, si chiude anche il servizio. Guarda verso la macchina da presa ed esclama: «La liquirizia pura è una vera delizia per tutto il corpo, sempre a portata di mano. Altro che caramelle!».

Bene, ora è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Rossano, nella piana di Sibari; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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