2 dicembre 2015 - Le pietre della Lessinia.

Oggi siamo in Veneto. Il paese è Bosco Chiesanuova, il paesaggio la Lessinia. Le coordinate geografiche sono 45°37’ Nord e 11°1’ Est.

I servizi di Paesi, paesaggi nascono sempre prima della messa in onda. Bisogna individuare le storie, scriverle, girarle e montarle. Un lavoro lungo e minuzioso, che può cominciare da una segnalazione, un articolo, una parola ascoltata per caso. Può anche capitare che tutto nasca da un festival cinematografico. Massimo, il nostro regista, era stato al Lessinia Film Festival e si era innamorato dei luoghi e delle persone. Dietro le pietre di Prun aveva scoperto volti e lingue: culture come quella cimbra da conoscere e valorizzare.
– Luca dobbiamo assolutamente andare in Lessinia – mi aveva detto al telefono.
– Bene – avevo risposto io – andiamo in Lessinia.

Il mio viaggio, come sempre, inizia leggendo. Per alcune sere ho esplorato il territorio e mi sono immerso nella storia dei Cimbri sfogliando i libri. Sapevo qualcosa dell’architettura vernacolare a nord di Verona, ma non immaginavo tanta potenza e bellezza. Una cultura della pietra arcaica e al tempo stesso moderna; la forza delle costruzioni e la loro leggerezza, frutto di semplicità e funzionalità.

Per capire la pietra della Lessinia, bisogna partire dalle origini di queste montagne nate dal mare. Occorre attraversare i boschi fitti delle terre emerse, tagliati poi dai Veneziani affamati di legna per le barche e la città. Bisogna infine bussare alle porte dei Cimbri: generazioni di anonimi scalpellini, falegnami, agricoltori e pastori che hanno plasmato la Lessinia trasformandola in un’opera d’arte, con scorci unici al mondo. Boschi, sentieri, malghe e contrade sono diventati elementi vivi di un paesaggio naturale modellato dall’uomo.

Dopo lo studio, l’azione. Raggiungo in serata Bosco Chiesanuova dove ho appuntamento con Davide, Massimo e il resto della troupe. Ci vediamo in piazza, dove c’è un bel ristorante. La proprietaria ci accoglie con un sorriso contagioso; indossa il costume tipico ed è un vulcano di vita. Parla un po’ di Cimbro: è la prima volta che ascolto questa lingua lontanaspigolosa e ruvida. Vibrazioni che riportano alla Terra prima di Adamo, alla formazione delle rocce intarsiate di fossili marini. Dopo cena ci fermiamo al bar. Sul banco c’è un grosso libro fotografico, l’oste lo apre e lo sfoglia insieme a noi. Si tratta di un volume sulla Lessinia con immagini stupende scattate in ogni stagione dell’anno.

– Massimo – dico sottovoce al regista – potremmo filmare le pagine di questo libro e avremmo già pronto il servizio.
– È un’idea! Non riusciremo mai a realizzare immagini così belle.
– Avranno impiegato anni.
– Noi abbiamo solo un giorno.
Già, solo un giorno: e allora tutti a letto, a riposare. Domani sarà un lungo, unico giorno di lavoro. Mi addormento pensando ai libri e alle pagine sulla Lessinia.

Capitolo primo: la geologia e il dono della natura, che ha deposto nel terreno dell’altopiano sottili strati di rocce sovrapposte, separati da un velo di argilla. Ha fornito agli esseri umani la pietra già pronta per essere usata come fosse legno. Lastre intere da conficcare nel terreno per tracciare i sentieri e delimitare le proprietà, oppure da mettere una sull’altra per formare i muri delle case, le pareti delle stalle, i tetti dei fienili.

La pietra in Lessinia è diventata l’elemento ordinatore del paesaggio.

Capitolo secondo: i Cimbri. Una popolazione di origine germanica, scesa a sud delle Alpi intorno all’anno Mille. In Lessinia, i Cimbri hanno trovato una terra libera dove costruire strade e villaggi, bonificare campi, creare comunità.

Capitolo terzo: l’architettura e la cultura della pietra. Lo sfruttamento della pietra di Lessinia, o pietra di Prun, è iniziato intorno all’età del ferro. Paolo Portoghesi, l’architetto, ha affermato che la pietra della Lessinia ha suggerito agli scalpellini e ai muratori il modo in cui fare le case, sviluppando una grammatica architettonica costruita sul materiale. In altri termini è stata la pietra a comandare, dicendo agli uomini cosa fare e come fare.

Al mattino partiamo con l’abituale determinazione. I miei contatti però si sommano a quelli di Massimo, le persone e i luoghi si moltiplicano e andiamo in confusione. La giornata è appena cominciata e abbiamo già accumulato tanto materiale da montare un’intera puntata di Striscia. Delle tante cose fatte e viste, vale la pena di ricordarne almeno due: la contrada e la stalla del Modesto.

La contrada è in una vallata. Per raggiungerla bisogna percorrere una strada sterrata in salita, con salti violenti provocati dalle piogge che hanno scavato profondi solchi nel terreno. Sono felice di non essere a bordo della mia auto. Monto invece sulla coupè di un amico di Massimo, che guida senza incertezze verso la contrada Zamberlini. In estate è abitata, ma adesso è deserta ed esprime un fascino sospeso, da città metafisica. La pietra è ovunque, dalle pareti delle case ai tetti dei fienili, dalle fontane agli archi, ai muretti, alle decorazioni. Sopra le costruzioni, i boschi si distendono come tappeti sui crinali della montagna. Ci sono tutti i colori del disco cromatico, con qualche accenno di blu e viola, e ogni sfumatura di verde, rosso e giallo.

A un tratto usciamo dal borgo e raggiungiamo una casa isolata. Sul sentiero c’è una poetessa. Recita in Cimbro una propria lirica; noi ne cogliamo le suggestioni, perdendone i significati. Indossa una gonna azzurra che sembra anch’essa scolpita. Davide le si avvicina per un’ultima inquadratura, poi saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la stalla del Modesto. Prima però facciamo tappa da Roberto, uno degli ultimi lapicidi, i lavoratori della pietra. Roberto realizza sculture di carattere religiosoma anche grandi fontane e elementi d’arredo. Usa solo scalpelli, martelli e mazzette. Fa tutto a mano ed è uno spettacolo vederlo lavorare sbalzando le figure e le scritte dal blocco di pietra. Anche il padre era uno scalpellino, così come il nonno, nato nel 1848.

Tre generazioni di artisti: un vita per la pietra.

Quando lasciamo la casa di Roberto è già sera. La stalla del Modesto è un vero capolavoro rurale costruito tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Le pareti sono realizzate con gigantesche lastre di pietra disposte a coltello, legate sugli spigoli con un sistema che ricorda gli incastri angolari dei tronchi di legno nelle baite di montagna.

La luce del sole al tramonto filtra tra i rami degli alberi in livrea autunnale e illumina le pietre della ghiacciaia. Verso la vallata c’è un muro di roccia e muschio che la sostiene, come una diga. Lo sguardo si perde oltre l’edificio, negli spazi delle malghe. La solitudine dei luoghi e l’essenzialità delle costruzioni ispirano un senso di raccoglimento. Vorremmo continuare a filmare per riempire la memoria della telecamera di quadri come quelli del libro. Per fortuna giunge il buio e cancella le nostre esitazioni.

È tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

In un attimo, la Lessinia svanisce e con la mente siamo già al prossimo servizio. Massimo invece rimane qui. Ci saluta e sparisce nella notte, con il cuore che rifiuta di staccarsi dalla pietra. Me lo immagino che si aggira sui monti della Lessinia come una creatura del bosco. Un’ombra, che saltella e fuma. Macchina da presa in spalla, continua a filmare e a dire:
– Qui, mi sento come a casa…

Venite in Lessinia, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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