9 febbraio 2015 - Le lame di Pozzomaggiore.

Oggi siamo in Sardegna. Il paese è Pozzomaggiore, il paesaggio il Logudoro Meilogu. Le coordinate geografiche sono 40°24” Nord e 8°40’ Est.

Davide e io partiamo nel pomeriggio dalla Maddalena e guidiamo lentamente verso l’interno. Tutto fila liscio fino a Olbia, dove un cantiere di lavoro manda in crisi il navigatore. Cominciamo a girare in tondo tra l’imboccatura del porto e una strada a scorrimento veloce, una specie di tangenziale. Il primo errore è accompagnato da una risata. Riproviamo e sbagliamo un’altra volta. Ridiamo ancora più forte. Al terzo giro smettiamo di ridere, accostiamo e scendiamo a chiedere. Risolviamo navigando all’antica, senza strumenti, solo con la voce e i gesti all’interno di un bar.

Ripartiamo e lasciamo la civiltà. La strada corre dritta verso il tramonto che rapidamente si oscura e a poco a poco svanisce. Nella notte ci avviciniamo alla zona delle mie radici. Sono un po’ emozionato di venire proprio qui, con Davide, nel paese dove è nato mio padre e dove vive ancora una parte della mia famiglia. Adesso è buio e non si vede niente, si può solo immaginare. Gli racconto di quanto sia affascinante il Meilogu, quella parte montuosa del Logudoro che corre tra Bosa, Alghero e Sassari.
Davide immagina. Domani vedrà tutto con i suoi occhi, ma intanto ascolta.

Comincio dalla terra, la più fertile dell’isola. Questa è una regione antichissima, il cratere di un vulcano. È chiamata la valle dei nuraghi perché ce ne sono tanti, anche dentro il paese. Gli antichi sceglievano con cura i loro luoghi.
I boschi e i pascoli si estendono come macchie d’olio. Noi di città siamo abituati alla voracità del cemento, ma il bosco – se non lo controlli – ti entra in casa.

– Conosci Tex? – gli chiedo.
– Sì, certo!
– Allora non ti racconto più niente; hai già visto tutto.

Davide sorride e mi chiede di continuare.
Gli spiego che poche terre assomigliano all’idea di Far West come questo lembo di Sardegna. Dal monte sopra Pozzomaggiore si vede il mare di Alghero, ma per arrivarci bisogna superare con lo sguardo un altipiano che sembra l’Arizona. La vallata di Villanova è invece uno scorcio di Montagne Rocciose. Un luogo dove anche Hemingway sarebbe venuto volentieri a pescare.
Abitazioni se ne vedono poche: giusto qualche magazzino per il ricovero degli attrezzi e degli animali. In genere, le vacche, le pecore e i cavalli stanno all’aperto. Gli ovini dominano il territorio e si spostano in greggi compatti scortati dai cani. Provate a passeggiare sul ciglio della strada nel mezzo del niente, magari andando verso Semestene o Cossoine: sarete aggrediti dai latrati e dovrete fare affidamento sulla tenuta
delle recinzioni. Questo è un altro aspetto interessante: i terreni sembrano vasti e liberi, ma sono tutti governati dalla mano degli umani. Qui niente avviene per caso. Nel frattempo siamo quasi arrivati a Pozzomaggiore ed è scesa la nebbia.

– Conosci Milano? – mi domanda Davide.
Io non rispondo. Intuisco il bivio fantasma, svolto secco ed entro in paese percorrendo la strada principale in direzione della piazza.
Lui mi guarda ammirato.
Io sospiro e dico:
– Qui mi sento come a casa.

L’indomani mattina ci troviamo tutti davanti all’officina di Paolo, il protagonista della puntata. Paolo è un fabbro e un mastro coltellinaio. Non tutti sanno che un coltellinaio è innanzitutto un fabbro. Paolo ha realizzato le sue prime resolzas quando era ancora un ragazzo e imitava i gesti del padre. Mi racconta che all’epoca ferrava già come un maniscalco. I coltelli però non erano facili da fare. All’inizio le difficoltà sembravano
insormontabili.
– E-i como? – chiedeva al babbo, che gli rispondeva in tono evasivo: – Ammenta su chi
t’apo nadu…

Si procedeva per tentativi, cercando di mettere insieme le parole ascoltate e i gesti osservati. Oggi Paolo realizza vere opere d’arte per collezionisti; eppure i suoi coltelli sono anche strumenti di lavoro, da usare tutti i giorni per tutta la vita. Un tempo erano destinati ai contadini e ai pastori. Il più delle volte non li vendeva, ma li scambiava con un capretto, un agnello o un maialino. Buoni affari.
In officina, la forgia è già pronta. Paolo ripete per noi il processo di produzione di un coltello in damasco. È la sua specialità: il pezzo pregiato che nasce dal fuoco, dal ferro e dall’incudine. Inizia realizzando una piattina di ferro, acciaio e nichel che salda a millecinquecento gradi. Poi la mette sull’incudine e la batte finché raggiunge il doppio della lunghezza, quindi la ripiega e la salda nuovamente. Di nuovo incudine, martello e fuoco per decine di volte, fino a ottenere centinaia di strati.

La lama di un coltello è come la spada di un samurai: un oggetto di un’esattezza impressionante. La guardi e sta già tagliando l’aria.
Il disegno del damasco è sempre originale, creato rielaborando gli antichi motivi dei coltelli sardi, arabi e spagnoli. Si realizza a mano, con martello e mola. Una volta terminata la lama, occorre impugnarla. Paolo usa vari tipi di corno – in particolare montone e muflone – che vengono raddrizzati dopo essere stati scaldati sulla fiamma. Ne mostra uno a Davide che si entusiasma per la bellezza del materiale satinato.
Paolo annuisce e spiega che deve essere ancora lucidato. Però Davide non ha torto: il manico in corno grezzo è elegante e caldo. Cerco qualche altro modello che abbia invece il manico in legno. Sul fondo di un cassetto ne individuo un paio.

– Sono tutti chiari, – osservo.
– In Sardegna non c’è l’ebano…

Giusto. Paolo usa solo legni nobili della sua terra, come l’olivo e la radica. Prendo uno dei due coltelli. Lo apro e sfioro la lama con la punta delle dita.

– Questo è finito?
– Non ancora… manca la firma.

Giusto, la firma. Paolo Calaresu: scritto in corsivo su due righe, vicino al manico. Tutte le opere d’arte devono essere firmate.
Lasciamo Paolo al lavoro e andiamo in campagna per filmare i paesaggi del Meilogu.
Raggiungiamo il nuraghe Ruggiu, dove mettiamo la sedia di Davide.
– La luce è bellissima! – esclama.
Davvero, c’è da commuoversi. Massimo – il regista – capisce che non mi capiterà più nella vita di girare un film sul paese di mio padre e mi regala scorci preziosi.
– È proprio come raccontavi tu, – sospira Davide alla fine del pomeriggio, mentre
saliamo in macchina per tornare a casa. Lo dice piano, come misurando le parole mentre
con un gesto rapido della mano si sfiora gli occhi.
Dev’essere il vento che inumidisce lo sguardo.

Venite in Sardegna, nel Logudoro Meilogu. Ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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