9 giugno 2015 - Le camicie di Ginosa.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Ginosa, il paesaggio quello delle Gravine. Le coordinate geografiche sono 40°34’ Nord e 16°45’ Est.

Partiamo nel tardo pomeriggio da Roseto Capo Spulico e percorriamo la statale SS106, la grande arteria litoranea che ci riporta verso Taranto. Anche ieri eravamo qui, però sull’altro lato della strada: da una parte c’era l’interno, nascosto nella notte, dall’altra il mare, squarciato dai lampi. Tutto molto bello e suggestivo. Oggi, in piena luce, la scena è ribaltata e il paesaggio che si distende attorno alla costa sembra espandersi, come per sfuggire alla vista e svanire oltre la linea di un orizzonte piatto e circolare.

Guido piano, dietro l’auto di Massimo, il nostro regista. Squilla il telefono. È Davide, al volante della macchina alla mie spalle. Lo inquadro nello specchietto retrovisore mentre mi parla.
– Hai visto?
– Sto vedendo.
– Questo fa l’uomo quando non ha cuore per i suoi luoghi.
– Non c’è rispetto.
– Manca il cuore.
Mette giù. La voce bassa per il raffreddore, il tono dimesso per la sottile amarezza. Continuiamo a guidare in fila indiana, scorrendo abitazioni, alberghi e capannoni: una distesa illogica di costruzioni che sembrano pugni nel ventre di un paesaggio immobile che tace, incassa e resta all’angolo, ripiegato su se stesso senza reagire. Quando lo farà, sarà alla sua maniera, violenta e inappellabile. Funziona sempre così, fin dall’antichità.

Poi, a un tratto, tutto cambia. Il territorio inizia a muoversi scosso dalle prime colline; a poco a poco sparisce il rumore del cemento e inizia la musica dell’ambiente. La mano dell’uomo è sempre presente, ma adesso organizza, crea e accompagna invece di distruggere. Una musica, appunto. Tutto diventa nitido e preciso, abbellito dalla luce radente del tramonto che scivola giù dai rilievi e accarezza i terreni. Massimo si ferma di colpo a lato della via. Vuole filmare un passaggio di Davide con la sedia mentre attraversa un campo di carciofi. Non utilizzerà mai questa scena, ma è bella e deve essere registrata.

Quando infine arriviamo a Ginosa e camminiamo sull’orlo della gravina è di nuovo buio. Così, scegliamo un posto dove mangiare e conserviamo per l’indomani la sorpresa del luogo. A prima vista Ginosa potrebbe assomigliare a Matera, invece è diversa, più lieve e selvatica. La gravina è anche qui una spaccatura nella montagna che circonda l’abitato e lo protegge come il fossato di un castello medievale. Però è meno profonda ed è sempre stata abitata. Dal fondo della gola fino al cielo è tutto un susseguirsi di case e grotte scavate nella roccia, orti strappati alla montagna, capre al pascolo e cespugli di piante spontanee. In fondo alla scarpata il fiume, secco d’estate e gonfio d’inverno. In alto, sull’altipiano, campi di cereali, frutteti, olivi e vigne. Il centro storico di Ginosa, visto da lontano, è di un bianco abbagliante. Ti avvicini e scopri che è in gran parte chiuso, con abitazioni abbandonate e strade sbarrate dopo l’alluvione. Davide avanza con la sedia in spalla percorrendo una ripida discesa. Il luogo è affascinante, sembra un campo che attende di essere coltivato: case e grotte che si compenetrano, vicoli erti annodati attorno alla Chiesa Madre, paesaggi sospesi che si aprono all’improvviso sulla gravina. Un mondo tutto da scoprire, restaurare e valorizzare, l’ennesimo patrimonio italiano dell’umanità. Mettiamo la sedia di Davide su un piccolo terrapieno che si affaccia sul versante nord della gravina. Il borgo alle nostre spalle sembra un presepe, la raffigurazione possibile di un sogno di armonia e equilibrio.

Angelo, il protagonista della puntata, è il sarto di Ginosa. Non potrebbe esserci persona migliore di lui per raccontare questo sogno. I vecchi sarti, per prendere le misure abbracciavano le persone. Anche Angelo fa così con la sua terra e riesce a cucirla nelle sue camicie. Passione, amore e alcune scelte radicali sono alla base della sua vita. La nonna cuciva a mano, e così il padre all’inizio dell’attività. Poi, sul finire del secolo scorso, arrivarono le macchine e l’illusione dei grandi numeri. Angelo, per fare un passo avanti e andare nel futuro, fece un passo indietro e guardò al passato. Ricominciò a fare tutto a mano, liberando la fantasia e concentrando il lavoro sulla punta delle dita, sfiorando i tessuti e maneggiando scaglie di gesso, forbici, ago e filo. Scoprì che ogni punto era il brano di un racconto; ogni passaggio del filo nel tessuto cuciva una storia, rammendava l’identità del luogo.

Angelo produce soprattutto camicie, con venticinque passaggi a mano e trenta ore di lavoroper ciascuna. Le indossano grandi attori, principi e primi ministri di tutto il mondo, ma anche tanta gente comune, persone che cercano se stesse indossando Ginosa e la sua gravina. Angelo potrebbe fare il sarto ovunque, nelle capitali della moda in Europa, America e Oriente; invece rimane qui, a restaurare un edificio del centro storico dove trasferirà la sartoria. Sta appunto rammendando il territorio, dando vita a un progetto che chiama di turismo sartoriale; in sintesi, chiede ai clienti di venire qui a scegliere i propri capi, perché sia Ginosa a prendere le loro misure. Una camicia può essere un pezzo di stoffa sulla pelle, oppure una voce, il canto di un luogo che svela se stesso. Un modello di qualità, come i quadri del Rinascimento, dove niente veniva dipinto per caso e ogni dettaglio aveva un significato. Angelo sta facendo con l’abbigliamento ciò che è stato fatto con il cibo: localizzazione delle materie prime, lavorazioni manuali e recupero delle tradizioni. Come dicevamo, al classico capannone ha sostituito il recupero minuzioso di un edificio del centro storico, al posto delle linee industriali ha messo vecchie macchine per cucire che accompagnano il lavoro delle mani e della mente. Non insegue il miraggio del fatturato ma ricerca la solidità di un’azienda etica. Sta costruendo un atelier dove sia bello vivere e lavorare: un luogo da indossare come un abito su misura.

Lavorando con un profumiere ha realizzato un’essenza particolare a base di mentagelsomino e fiore di cappero: piante selvatiche della gravina con cui profuma tutti i suoi capi. La lana delle sue giacche, realizzate come reinterpretazione di quelle da lavoro in campagna, proviene da pecore locali, mentre il cotone e la canapa sono di piccole piantagioni delle Murge. Questa è l’arte del rammendo, la capacità di compiere piccoli gesti significativi, costituendo una rete di eccellenze locali che dialoghino tra loro e si valorizzino a vicenda, per andare oltre i limiti dei propri confini. Esportare il prodotto tradizionale e farlo apprezzare nel mondo è lo scopo di quest’impresa audace, fatta di slancio e coraggio da un lato, dedizione e tenacia dall’altro: una specie di missione, non imposta da alcuno, tranne che da se stessi. Anche questa – come dice Davide – è l’Italia della qualità, l’Italia che vogliamo.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Ginosa e nella sua gravina; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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