27 gennaio 2015 - L’ascia del marinaio.

Oggi siamo in Sardegna. Il paese è La Maddalena, il paesaggio – naturalmente – l’Arcipelago della Maddalena. Le coordinate geografiche sono 41°12’ Nord e 9°24’ Est.

Atterro ad Alghero nel pomeriggio, noleggio una macchina e mi dirigo verso la Gallura. Aria di casa. Non lontano da qui – nell’interno del Logudoro Meilogu – è nato mio padre e ancora vive la mia famiglia di allevatori e agricoltori.
Adesso siamo diretti alla Maddalena, dove documenteremo l’attività di uno degli ultimi mastri d’ascia. Anche questa è casa: il litorale che da Stintino corre fino a Olbia, è una zona che per anni ho frequentato come velista, come subacqueo, come semplice turista, innamorato del mare e della ragazza con le ginocchia sbucciate con cui viaggiavo.
Sarebbe diventata mia moglie, la compagna di tutta la vita.

Dirigo la prua della vettura verso nord, ignorando le indicazioni di strade a scorrimento veloce. Proseguo controvento: oggi il Maestrale soffia gagliardo. A Porto Torres accosto a dritta e mi tuffo nei ricordi. Acqua a sinistra, terra a destra e davanti una strada panoramica tutta curve che mi pare una perfetta metafora della vita.
Quando cala il buio, la strada diventa però un tracciato impegnativo: impossibile da seguire senza abbaglianti. Non la ricordavo così priva di segnalazioni, lampioni e catarifrangenti ai lati della via. La situazione mi riporta al presente e alla necessità di stare sempre all’erta. Come in barca, quando il vento rinforza all’improvviso e devi ridurre la vela, correggere la rotta e il passo.

L’attualità diventa cupa e tragica pochi minuti dopo Santa Teresa, quando la radio italiana che stavo ascoltando diventa France Enter. Le frequenze sono canali dagli argini fragili. Il segnale potente dell’emittente francese s’infila nella macchina e mi costringe a vivere nuovi dettagli della vicenda di Charlie Ebdo. L’attentato delle ore precedenti, la fuga, il supermercato, la tipografia, il bosco. Le voci degli opinionisti si mescolano a quelle dei compagni di scuola dei terroristi e delle vittime, conoscenti degli ostaggi e gente di passaggio. Un fronte sonoro compatto e buio: come il mare, la strada, la terra tutt’intorno. È notte.

L’indomani mattina, Davide e io ci incontriamo al porto di Palau, pronti a salpare con il traghetto delle sette e trenta. Il vento teso è girato a ovest e il canale è spazzato dalle onde. Racconto a Davide di quando c’era la base militare con i sommergibili atomici: la nave appoggio e i periscopi dei due sottomarini che affioravano sopra il pelo d’acqua.
Seguiamo con lo sguardo i dettagli di un paesaggio tra i più suggestivi del mondo. Nell’Arcipelago, le acque e le isole si intrecciano e formano trame che sembrano i ricami di un merletto: ogni punto è una spiaggia, una laguna, una scogliera. Orizzonti larghi e distese di vento.

Gioacchino, il protagonista della puntata, ci raggiunge al caffè del porto. Come scrive Simenon, c’è sempre un caffè in ogni porto e una Marie che serve ai tavoli. Ci sediamo e ordiniamo. Gioacchino è uno degli ultimi mastri d’ascia e insieme al fratello ha costruito centinaia di barche: a vela e motore, da pesca, da regata e da diporto.
Sono ancora tutte lì, che navigano nelle acque del Mediterraneo: figlie in splendida forma. Barche eleganti, come signore del mare. Persone capaci di vivere in eterno.
Negli ultimi trent’anni, però, la nautica si è interamente convertita alla plastica. Sono convinto che si tornerà un giorno a ordinare scafi in legno ai mastri d’ascia, come abiti confezionati su misura dai sarti. Intanto, si vive di restauri e di manutenzioni.

In cantiere, Gioacchino ci mostra un motoscafo che sta riportando a legno nudo per ridipingerlo. La barca ha una trentina d’anni, ma è perfetta, come fosse stata costruita ieri. Davide prende la levigatrice e insieme a Gioacchino carteggia la fiancata, scomparendo in una nuvola di polvere di legno, con i granelli che saltellano nell’aria illuminati dalla luce di taglio. Una bella inquadratura.
Sulla banchina c’è invece una pilotina che è stata completamente restaurata ed è pronta per tornare a navigare, così come un gozzo Pexino a vela e motore, costruito negli anni Settanta a Santa Margherita Ligure da Agostino Moltedo, un altro celebre mastro d’ascia.

Il cantiere di Gioacchino ha restaurato prestigiose imbarcazioni d’epoca come l’Aquilone, uno degli ultimi leudi genovesi – tipici scafi liguri a vela latina per il trasporto delle merci – costruito nel 1912 a Sestri Levante; oppure la gloriosa e vincente imbarcazione da regata Dalgra III, realizzata da Baglietto nel 1953.

Negli ultimi anni è ripreso l’interesse per la vela latina e nel porticciolo dell’isola sono ormeggiati numerosi gozzi maddalenini costruiti da Gioacchino e dalla sua famiglia.
Davide passeggia sul pontile, tra gli scafi in agitazione per la risacca della mareggiata. I parabordi si sfiorano, le cime stridono. Sono bellissimi, con le antenne che incrociano gli alberi e riposano verso prua, come lance che guardano a terra.

Torniamo in cantiere per seguire alcune fasi di lavorazione. Chicco, il nipote di Gioacchino, prende una vecchia ascia e l’affila sulla mola. Sta preparando lo strumento base del lavoro di una volta. Gioacchino stesso, quando seguiva le orme del padre, costruiva le barche con l’ascia in mano. Il lavoro iniziava nel bosco, osservando lo scafo che si nascondeva nel tronco dell’albero. Poi proseguiva in cantiere, utilizzando strumenti quasi rudimentali.

– Saresti ancora capace? – gli domanda Davide.
– Se vuoi, ti faccio vedere, – risponde Gioacchino con un sorriso.

Chicco gli passa l’ascia e lui, davanti alla telecamera, ci mostra come si faceva nel secolo scorso, cioè una manciata di anni fa. Mi aspetto che il mastro vibri colpi di scure violenti e precisi nell’aria per dividere blocchi di legno. Invece, Gioacchino mette nella morsa un’ampia tavola destinata a diventare uno specchio di poppa; poi, seguendo una linea curva tracciata a mano con la matita, scalza piccole schegge di legno con movimenti corti e continui della lama.
Ci regala un incavo che una volta ben rifinito diventerà l’incastro per l’ultima coppia di ordinate.

– Si tagliava la legna come i boscaioli, – continua Gioacchino, – ma poi il resto del lavoro era un’opera di cesello.

La costruzione di una barca è un grande lavoro di cesello. Occorre tempo, ma una volta fatta, una buona barca in legno è come una casa: calda, sicura e accogliente. Per sempre.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Sardegna, nell’Arcipelago della Maddalena, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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