19 novembre 2015 - La musica della natura.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Cogne, il paesaggio il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Mentre guido verso Aosta, sento di avere bisogno di una doccia. Lo dico a Davide, che sorride e tace. Abbiamo ancora sulla pelle le emozioni vissute nella valle del Loo, dove siamo stati a conoscere Simone e la sua toma di Gressoney. La corsa su è giù per le montagne, la grandine mista al sole, il vento e l’umido affumicato della baita: il ricordo scorre fluido dal Lys al Gran Paradiso. Usciamo dall’autostrada e cominciamo a salire le curve morbide che ci portano ai prati di Sant’Orso. Abbiamo appuntamento per cena con Laura, il nostro angelo custode a Cogne. Insieme abbiamo deciso di dedicare un servizio alla musica della sua vallemusica della natura e degli uomini. Percorriamo lentamente gli ultimi tornanti dietro a un pullman di turisti slavi; Davide legge ad alta voce la sceneggiatura. Sottolinea alcuni passaggi che ritiene importanti e mi chiede dove gireremo le scene. Sono preparatissimo perché lavorare con Laura significa pianificare tutto e non lasciare niente al caso. Tra poco ceneremo insieme e avremo modo di ripassare i dettagli. Prima però dobbiamo assolutamente fare una doccia.

Alle otto in punto, Laura viene a prenderci con il suo grosso fuoristrada, le fiancate macchiate di fango, le ruote rese lisce dai sentieri di montagna. Ci accompagna nell’albergo di famiglia, forse il più bello della valle. Non quella di Cogne, ma la Valle d’Aosta. Davide, che se ne intende, dice così. Io non ero mai stato in questo luogo delizioso, però mi ero spesso fermato ad annusare il profumo intenso di eucalipto e oli essenziali che proviene dal terreno sottostante. La spa dell’albergo è lì sotto, con la piscina, la grotta di sale, la sauna agli agrumi e quella al fieno. Passeggi per Cogne e ti avvicini al punto magico del centro benessere: quando ci sei sopra e come se ci fossi dentro. Rilassante anche a distanza.

Laura indossa gli abiti tipici. Non proprio i costumi tradizionali, ma gonna e gilet di lana cottacamicia bianca ricamata di cotone grezzo: una specie di uniforme che le permette di essere sempre ambasciatrice della sua terra.

Mangiamo con la calma che il luogo merita, ma poi ci dirigiamo subito nella casa museo dove è in corso una specie di festa e ci attendono alcuni protagonisti della puntata di domani. Nella vecchia abitazione dove sono state recuperate le antiche architetture in legno e pietra, ci sono i bambini che suonano e ballano e s’inseguono tra le gambe dei genitori pazienti, alcuni membri dei gruppi musicali di Cogne e gli artigiani del legno e del cuoio, accanto alle signore che ricamano al tombolo. Ci sono due campanacci che vorremmo avere per le riprese. Laura contratta il prestito e garantisce la restituzione, sotto sua responsabilità. Il campanaccio è una vera opera d’arte in lega d’ottone e cuoio lavorato: lo strumento che ogni mucca impara a suonare fin dalla più tenera età.

L’indomani cominciamo dalla natura. Davide cammina con la sedia in spalla sul prato che guarda il ghiacciaio. Si siede e chiede di fare silenzio. La valle è un’immensa sala da concerto, con le pareti ripide di rocce e boschi che la chiudono come i palchi di un teatro. Acustica perfetta, con il vento che scivola tra le foglie, l’acqua del ruscello che scorre tra i sassi, le vacche che escono dalla stalla e si disperdono sul pascolo attorno a noi. Melodie d’aria e note cristalline appena sussurrate.

Ma a Cogne la musica è ovunque, fa parte della comunità. Tra poco ci raggiungeranno una ventina di ragazzi e ragazze, con qualche anziano a fare da guida e i bambini a mettere ordinato scompiglio. Canteranno, danzeranno e suoneranno gli strumenti tipici: il tamburo e la fisarmonica cromatica. Però, prima che arrivino, dobbiamo tornare in paese per conoscere Adolfoil conciatore delle pelli e il realizzatore dei tamburi. Oggi è rimasto solo lui a fabbricarli, nel suo piccolo laboratorio domestico. Avremmo potuto filmarlo nelle belle stanze in legno della casa museo, ma abbiamo da tempo imparato che l’artigiano ricava il suo spazio attorno a sé e al suo lavoro. Così montiamo le luci e facciamo silenzio.

Adolfo ha già preparato alcune pelli di camoscio che concia nella cantina di casa.
– L’odore alle volte è insopportabile – mi confida con un sorriso – ma ci si fa l’abitudine, con il tempo.
Accarezzo la pelle prima che venga tesata sul cerchio di legno. È morbidissima.
– Vuole che le dica cosa uso per conciare le pelli? – aggiunge con un sorriso.
Io scrollo le spalle: i segreti sono segreti. Lui però me lo dice lo stesso e ci mettiamo a ridere. Tutti ci guardano e a loro volta ridono, senza capire. L’allegria è contagiosa e non ha bisogno di ragioni, come la musica. Quando la pelle è ben tesata sul cerchio, si aggiungono le parti in metallo, i campanelli e i fiocchi colorati. Alle pareti della bottega sono appesi alcuni tamburi molto più grandi di quello che Adolfo sta realizzando per noi. Gli chiedo come mai e mi spiega che un tempo erano tutti così.
– Perché?
– Oggi i giovani li vogliono più piccoli e leggeri.
In effetti, dopo una giornata di musica passata a reggere il tamburo, le braccia devono far male come se avessero spaccato legna. Mi domando se un tempo le persone fossero più forti, oppure se avessero più capacità di sopportazione. Adolfo non risponde e sorride nuovamente, mentre ci mostra il tamburo finito. È bellissimo. Ma la cosa più bella è che non è in vendita. Qui a Cogne i tamburi si realizzano solo per passione; gli strumenti sono destinati ai musicisti locali, che li suonano per se stessi e per la comunità. La musica popolare è come un gioco, e il gioco è un rito che scalda i cuori e tiene unite le persone, forma le coppie, rasserena i vecchi, incoraggia i bambini a diventare grandi.

Nel frattempo siamo tornati all’aperto, con i Lou Tintamaro che si dispongono in cerchio e si aggiustano gli abiti. Le donne in nero, con le gonne ampie che coprono le gambe lasciandole però libere di volare. Le camicie bianche, le maniche al gomito e le cuffie in testa, con le code che cadono sulle spalle come lunghe trecce. E poi il sorriso, che fa parte del costume. La musica popolare corale vuole sempre il sorriso, altrimenti non si lascia suonare. Gli uomini portano il cappello con la tesa larga su cui poggiano dei piccoli fiori colorati, i pantaloni scuri e la giacca di lana bianca con i profili verde e rosso. Uno di loro si volta di spalle e all’improvviso emette un fischio acuto e selvaggio, una specie di grido berbero. Fossimo in primavera, con la neve alta sulle creste, ci sarebbe da temere una valanga. Ma non c’è neve e il ghiacciaio sembra sudare sotto il sole d’autunno. Il gruppo inizia a suonare e cantare e ballare. Davanti alla telecamera si svolge il rituale dell’incontro tra le coppie, il gioco di sguardi e movimenti rapidi dei piedi, messi il più vicino possibile che si tocchino il meno possibile.

Mi piacerebbe che Davide provasse quel grido: reinterpretazione musicale del fischio della marmotta. Ma è in un angolo nascosto, che batte il ritmo con il piede e la mano che intinge una fetta di mecoulin nella crema di Cogne. Quando il brano terminerà, per noi sarà tempo di andare. Una nota lunga, accompagnata dal fischio della marmotta, ci accompagnerà verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.

Venite a Cogne, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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