18 novembre 2014 - La leggenda della burrata.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Andria; il paesaggio, le Murge. Le coordinate geografiche sono 41°13’ Nord e 16°17’ Est.
L’aereo per Bari parte alle 15.50 da Malpensa. A mezzogiorno sono ancora a Genova. Squilla il telefono: è Davide.
– Dove sei? Qui è tutto bloccato. Ci sono anche i cecchini a Milano…
– Cecchini?
– C’è l’asse Europa-Asia: capi di Stato, polizia, esercito, strade chiuse…

Mi affretto a chiudere la valigia e a salire in macchina, mentre nel corso del vertice il delegato cinese afferma che i nostri vini non sono inferiori a quelli francesi, ma siccome nessuno lo sa deve esserci un problema di comunicazione.
Già, la comunicazione. Proprio ciò che tentiamo di fare con la nostra rubrica, raccontando le anime di un’Italia nascosta, troppo spesso invisibile.

Per una volta nella vita, viaggio come in un telefilm. Tutto si incastra alla perfezione: le code, gli svincoli, i blocchi stradali; non manca niente, a parte i cecchini. Tutto scorre e senza affanno mi presento al gate numero cinque del terminalB un’istante prima che si chiuda l’imbarco.
Lascio il Nord in scioltezza.

Il Sud mi accoglie assieme al resto della troupe in un’antica masseria alle porte di Andria, da dove partiamo per esplorare le Murge. Si tratta di un altipiano in prevalenza carsico, ma le rocce di Andria sono tufacee, di un marrone molto chiaro e venato di rosa che risplende alla luce del sole.
Sembra la frontiera di Sergio Leone, uno spazio di gole strette che si aprono improvvisamente verso orizzonti larghi e ventosi. Un paesaggio che si espande come una macchia d’olio, come volesse sfuggire alla vista.

Siamo qui per raccontare la leggenda della burrata, una delizia di latte e mozzarella nata per sbaglio e per necessità su queste montagne, all’inizio del Novecento.
Michele, il protagonista della puntata, è uno dei casari di Andria che ha fatto della burrata la sua specialità. Ci attende in paese, nel suo caseificio, mentre rimbalziamo da un capo all’altro delle Murge collezionando immagini.

Attraversiamo pianure che diventano monti, gole, colline, pascoli, boschi e infine monumenti. Tutto converge ai piedi di Castel del Monte, una struttura tanto imponente quanto equilibrata: un luogo eretto per diletto da Federico II di Svevia, perfetto palleggio di sogni esoterici e assenza di finalità pratiche. Svetta dalla cima di un colle, al centro degli antichi territori di caccia del re. È di un bianco quasi abbagliante. Un faro di terra, costruito su un banco roccioso. La pianta è ottagonale, con otto torri anch’esse ottagonali che sorgono in corrispondenza degli spigoli. Volumi che si armonizzano nei giochi di forme e nei contrasti cromatici di breccia corallina, pietra calcarea e marmi.

Un’opera perfetta, destinata a vivere in un eterno tempo presente. È qui che decidiamo di mettere la sedia di Davide e girare buona parte della trasmissione. Lavoriamo circondati da ondate di turisti. Gli stranieri ci guardano incuriositi, gli italiani ci riconoscono.

Giunti quasi al termine, ci raggiunge un’impiegata del castello. Ci chiede se abbiamo i permessi. Domanda retorica, per noi artisti dell’improvvisazione. Però capisco le sue ragioni e provo a dire che siamo una rubrica che parla bene dell’Italia e degli italiani. Mi sorride. Anche lei guarda Paesi, paesaggi. Aveva subito riconosciuto Davide – che immaginava più basso – e la sua sedia.

Per fortuna anche la direttrice del castello sa di noi e del nostro lavoro, così possiamo tornare ad Andria con la telecamera piena di buone riprese. Nel frattempo, Michele ha terminato la produzione della giornata e si appresta a vivere con noi una coda tutta artigianale, con il latte lavorato a mano, le forme realizzate a una a una come piccole sculture di latte.

Il caseificio si trova all’interno di un’antica masseria. L’interno è suggestivo, con una ripida scala che divide il punto vendita dalla zona di lavorazione e che porta ai piani alti. Le arcate sono in tufo e le volte con le pignatte e la croce dei Cavalieri di Malta. Ci sono due stanze che sono un piccolo museo di cultura materiale, con antichi attrezzi per il lavoro dei campi, l’allevamento del bestiame e la lavorazione del latte.

Oggi, l’azienda di Michele e della sua famiglia ha raggiunto dimensioni importanti, ma ha mantenuto uno spirito tradizionale dove il lavoro è ancora quasi tutto manuale e i dettagli di produzione sono curati con ossessione maniacale.
Ogni giorno, qui si rivive la leggenda della burrata.

Bisogna immaginarselo, il territorio delle Murge un centinaio di anni fa, imbiancato da una nevicata eccezionale, con i pastori e il bestiame bloccati sui monti, le vacche da mungere e il latte da lavorare.
Per non buttare via niente, quei geniali casari inventarono la burrata. Presero dei fogli di pasta filata e li riempirono con gli avanzi di produzione: latte, panna, burro, sfilacci di mozzarella. Poi chiusero quei fagotti con delle lunghe foglie di vizzo, un’erba aromatica locale che aggiungeva un tocco piccante alla delicatezza del formaggio.

Davide si toglie la giacca di scena, indossa un grembiule bianco e si appresta a immedesimarsi nella leggenda. Lavora e impara. All’inizio immerge le mani nell’acqua bollente, poi in quella ghiacciata. L’equilibrio spesso nasce dal conflitto dei contrasti.

La prima forma non si scorda mai. Ma è come un bacio rubato, una frase detta balbettando. Com’è naturale, Davide lavora troppo in fretta: maneggia il cacio con gesti rapidi e nervosi, non sfrutta la gravità e lo modella solo con la forza.
Michele gli tocca delicatamente il braccio con il palmo della mano. Gli suggerisce di fare piano e di accarezzare la materia.

La seconda e la terza forma si dimenticano, però sono già buone. Me ne accorgo anch’io, mentre scatto le foto di scena. I gesti di Davide si distaccano dalle inquietudini e diventano a poco a poco più lenti e precisi. Anche il respiro rallenta, la mente si svuota.
Lavorare il latte è un’arte che si affina nel tempo, ma bisogna averla dentro. Il latte è sempre diverso e anche il casaro deve essere fluido. Non c’è mai niente di ripetitivo in questo mestiere: sempre gli stessi gesti, ogni volta diversi.

Infine l’assaggio. La burrata deve essere freschissima e bisogna acquistarla tutta intera, tagliandola solo nel piatto, in modo da non perdere il succo di latte. Dettagli preziosi che Davide spiega con evidente piacere. Anche quella della degustazione è un’arte che si affina nel tempo ma che bisogna avere dentro.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite ad Andria, nelle Murge; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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