22 aprile 2014 - La fattoria di Noè.

Oggi siamo in Lombardia; il paese è Valle Salimbene, il paesaggio quello della Bassa Padana.
La giornata è sospesa, in bilico tra pioggia e sole. Il cielo è coperto, l’aria umida. Penso all’estate da queste parti, quando la maglietta si appiccica al corpo tormentato dalle zanzare.

Daniele mi guarda con aria di sufficienza. Oggi è lui la nostra guida; conosce bene la zona e insegna alla Facoltà di Veterinaria, ma è il professore meno accademico che si possa immaginare.
«Qui non ci sono zanzare», mi rivela scandendo le parole. Poi, indicando un punto lontano, aggiunge: «Siamo più bassi del Ticino…».

Non so se credergli, lui è uno di collina. Però annuisco e penso alle truppe di Annibale che attraversavano questa regione. Uomini di tutte le razze che viaggiavano con le loro case; un popolo intero in assetto da combattimento che nel frattempo costruiva strade, fondava città, deviava i corsi dei fiumi e stendeva ponti come fossero panni al sole.

Raggiungiamo il greto del Po, ma anche del Ticino. Questo è il punto esatto della loro confluenza. Acqua in primo piano e pioppi sullo sfondo; in mezzo un continuo mutare di scenario, dall’acquitrino paludoso alla macchia boschiva.

Davide cammina lungo la riva, la sedia in spalla e l’occhio puntato indietro nel tempo. Forse anche lui pensa ad Annibale mentre guarda la macchina da presa e dice: «Il Po e il Ticino erano le autostrade dell’antichità. Attraversate per secoli da genti, merci e animali…».

Entriamo nel vivo della puntata. A due passi dal grande fiume, una manciata di metri fuori Pavia, c’è una specie di Arca a forma di fattoria. Un edificio a tipica vocazione agricola della fine del Cinquecento, rimesso in sesto nell’Ottocento. Una targa in pietra, posta sopra l’ingresso della stalla, riporta la data come fosse quella di costruzione.

Daniele mi mostra però i mattoni sul retro dell’edificio. Sono di un rosso più intenso e vivo degli altri. Più recenti, verrebbe da pensare a noi di città che vediamo i manifesti pubblicitari sbiancare dopo un paio di settimane. «Più antichi – afferma lui – molto più antichi».
Li facevano con una sabbia diversa, ma soprattutto li cuocevano nei forni a legna. Poi è venuto il carbone.

Oggi questa fattoria è la casa di Luigi, il protagonista della puntata, e delle sue trecento vacche. Il numero mi ricorda i trecento di Leonida contro le armate di Serse. Scaccio il ricordo perché quei valorosi erano tutti morti, pur essendo giovani e forti, mentre queste vacche sono sopravvissute all’estinzione.

Davide si siede in mezzo agli animali, dove c’è anche una capretta che ha appena partorito. Lui l’accarezza e la invita a restare mentre sullo sfondo due maschi si incornano, annunciando che la femmina è già pronta per un altro accoppiamento.

«Qui mi sento come a casa», dice Davide, e non è difficile credergli. È rilassato e convincente, dice cose in cui crede.
Parla di Luigi – Luigino per gli amici – un allevatore che, spinto da una passione infinita, si è dedicato alla difesa delle biodiversità bovine italiane.

«Pensate che il nome stesso Italia deriva da Viteliù, terra dei vitelli!»
Il termine non è latino, ma osco. Col tempo la lettera iniziale è sparita, un paio d’altre si sono modificate ed ecco il nome del nostro paese. La terra dei vitelli, appunto, e se c’erano loro, c’erano anche le loro madri.

Daniele sale in cattedra e mi spiega sottovoce che i bovini che girano oggi nel mondo sono quasi tutti italiani. Siamo, fin dall’antichità, un popolo di emigranti.
Nella fattoria di Luigino vivono capi di oltre venti razze diverse!
In questi anni ha salvato dall’estinzione la Varzese, la razza autoctona lombarda, che era già qui al seguito di Annibale.

Di nuovo il mito del comandante, l’africano più greco, romano e barbaro della Storia. Capace di imparare da tutti per poi insegnare a tutti. Una prodigiosa macchina scenica: l’incarnazione stessa della figura dell’eroe.
Ma anche Luigino, a modo suo, è un eroe. Non un comandante, ma un combattente. Per amore degli animali ha cominciato a salvare razze bovine. Nei suoi recinti convivono la Pontremolese, la Burlina, la Savoiarda, la Cabannina…

Chiama le sue vacche per nome e le alimenta a foraggio, come vuole Madre Natura. Hanno l’aria sana ma sono tutte magre, con la pelle del posteriore tesa sulle ossa affioranti.
Luigino e Daniele mi spiegano allora due o tre cose fondamentali.
Noi italiani abbiamo sempre usato il latte per fare formaggio. È solo dopo la guerra che abbiamo cominciato a berlo come gli americani. Così abbiamo inventato le fabbriche del latte, mentre nei paesi del Nord si è affermato il modello di fattoria domestica. Nelle loro case c’è sempre una vacca da mungere…

Davide assume una posizione comoda sulla sedia, mentre Luigino accarezza una Varzese: «A chi dice che queste razze nostrane, alimentate senza forzature proteiche né integratori vitaminici fanno meno latte delle Frisone, Luigino risponde con la matematica: una Cabannina, una Pontremolese o una Burlina producono solo 40 quintali di latte all’anno, ma vivono fino a vent’anni e mettono al mondo anche 15 vitelli. Non si ammalano mai e il loro cibo costa poco!»

Daniele gongola. Sottovoce mi ricorda che le Frisone producono anche 120 quintali di latte all’anno, ma sono iperselezionate: costano un patrimonio e vivono due o tre anni, dopo aver generato un solo vitello. A conti fatti, i conti non tornano. Produrre tanto e male, costa di più.

La mucca di famiglia non è un sogno idealistico, ma un modello concreto su cui ragionare. Un futuro possibile, dignitoso e sostenibile, già scritto nel nostro passato. Siamo chiamati all’innovazione, intesa nel senso etimologico del termine: “novare”, rendere nuovo l’esistente.
Nessuno crea dal niente, nemmeno Annibale e Noè.

Pomeriggio inoltrato. Sul pianale del trattore, opportunamente sollevato ad altezza tavolo, abbiamo steso una tovaglia bianca pulita, poggiato la pagnotta e disposto i salami di Daniele. Ha staccato alcune stalattiti dalla volta della sua cantina e adesso le taglia con orgoglio. Fette grandi nei salami piccoli, fette piccole nei salami grandi.

Il vino è del piacentino. Basta poco per fare felici gli uomini. In realtà questo poco è tanto: tutto ciò che serve.

Nel frattempo il sole si è disteso sulla Bassa e comincia a fare caldo. La stalla, dove questa mattina c’era un bel tepore, adesso è fresca. Le mucche sonnecchiano mentre noi ci apprestiamo a girare il momento forte della puntata. Davide ripassa la battuta, ma non serve. È venuto qui per dire ciò che sta per dire. Massimo controlla la messa a fuoco, verifica che l’audio non sganci. Motore, azione…

Davide la prende alla lontana, come ogni buon duellante che finge di maneggiare la spada peggio dell’avversario: «Luigino vive e lavora così perché è convinto che il nostro patrimonio zootecnico sia unico al mondo…».
Poi gira intorno al nemico e piomba su di lui come Annibale che scendeva dalle Alpi, attraversava l’Italia e dilagava sulle rive del Volturno: «Il problema è che anche Luigino è unico al mondo: dopo di lui non c’è nessuno! Non ci sono giovani che proseguano la sua attività e non ci sono istituzioni interessate a salvare una fattoria come questa!»

Davide si alza e si allontana, convinto che questa sia l’Italia della qualità da salvare. Noi lo seguiamo; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Ma nella fattoria di Luigino torneremo presto, per conoscere meglio le sue vacche e vedere se nel frattempo qualcuno si è interessato al loro futuro.
Venite nella Bassa Padana, mi raccomando; ma non come turisti, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |