19 gennaio 2015 - La bottega del rame.

Oggi siamo in Trentino. Il paese è Ravina di Trento, il paesaggio quello della Val Gola.

Le coordinate geografiche sono 46°2’ Nord e 11°6’ Est.

Accendo il motore della macchina e lascio che si scaldi per bene. L’interno è appannato, fuori è tutto bianco. Non c’è neve, solo ghiaccio. Il cielo è già azzurro. Sarà un’altra di quelle giornate limpide che solo l’inverno in montagna sa regalare.

Quando infine ci mettiamo in moto e lasciamo Trento, siamo già arrivati. Ravina è infatti alle porte della città, dove gli ultimi vigneti lasciano spazio ai boschi. Un angolo di valle sovrastato dalla parete verticale del monte Palon, una costola del Bondone: oltre duemila metri di muro roccioso. La vetta è già difficile da raggiungere con lo sguardo; impresa impossibile per chi soffre di cervicale.

La strada s’inerpica lungo il rio Gola, il piccolo fiume che era esondato durante l’alluvione del 1942. Un rivo da niente, che si era improvvisamente gonfiato fino a esplodere, travolgendo il borgo e la sua quiete. I vecchi raccontano di una violenza inaudita, capace di sradicare gli alberi e sfondare i muri delle case. Adesso il fiume è un mormorio appena accennato che affiora dal piede della montagna.

Al termine della strada ci sono alcune case riunite attorno a un giardino. Sul prato, la macina in pietra di un vecchio mulino. Durante l’alluvione era rotolata a valle. Pierino, il protagonista della puntata, l’aveva scavata dai detriti e messa lì, davanti alla sua bottega di mastro cesellatore.

Gli altri edifici sono le abitazioni della famiglia, cresciuta man mano attorno al rame e all’arte del cesellare. Un piccolo mondo che abbraccia ormai tre generazioni di mastri ramai. Il lavoro dell’artigiano si esprime attraverso la pratica di bottega, il luogo dove si impara e si insegna, dove il lavoro si replica e prosegue nel tempo, evolvendo in maniera impercettibile mentre la materia si modella e le persone maturano. Una bottega con un solo artigiano è senza speranza. Nel lavoro solitario del maestro vedi un mondo che scompare. Negli sguardi degli allievi cogli invece il bagliore della prospettiva: ogni gesto diventa un’eredità, un sapere da condividere, che passa di mano in mano.

Oggi, la bottega di Pierino è una fucina di talenti. Ci sono i figli Fiorenzo, Stefano e Marina, i nipoti Scimone e Andrea, le nuore Claudia e Roberta, il genero Danilo. Una grande famiglia, fusa nel rame e stagnata nel fuoco vivo. Tutti i giorni insieme, a battere, sbalzare e cesellare la materia che ha segnato la loro vita.

Pierino si avvicina a Davide e gli racconta degli inizi, quando nel ’49 andava in fonderia e imparava le basi del mestiere.

– Ricordo l’atmosfera, – dice a bassa voce, strofinandosi gli occhi. – L’odore acre del carbone, il calore del forno e della forgia, il battere del maglio e il ritmo dei martelli e dei ceselli.

Poi, alla metà degli anni ’50 era entrato nella bottega dello zio, che già faceva il ramaio.

– Era bravo, – continua Pierino. – Gli ho rubato il mestiere, osservando i suoi gesti e imparando le tecniche. A lui devo l’arguzia nel preparare i ferri: ceselli, punteruoli e incudini per rifinire i manufatti.

Infine – ma in realtà sarebbe l’inizio – nel ’58 recuperò questo vecchio edificio diroccato sulle sponde del rio Gola, mise in giardino la macina del mulino spazzato dall’alluvione e cominciò la sua attività.

– L’avevo chiamata la Bottega dei Mastri Cesellatori.
– Un bel nome, – dice Davide. – Il nome giusto.

Negli anni sessanta e settanta c’era molto lavoro per i ramai, che producevano stampi, pentole e bigonci per la lavorazione del latte. E poi oggetti sacri, piccoli manufatti preziosi. Quegli oggetti di chiesa erano la specialità del cesellatore Pierino, un artigiano che stava diventando un artista, uno scultore del rame.

Poi, con l’arrivo dell’acciaio, i rami sono stati buttati come vecchi ricordi. E invece il rame è un materiale straordinario, interamente riciclabile, eterno e sostenibile; il miglior conduttore di calore, addirittura venticinque volte più dell’acciaio!

Pierino ha reagito con tenacia alla crisi, continuando la lavorare e a collezionare. La sua bottega è anche un museo, il più grande d’Europa, con oltre tremila pezzi pregiati che vanno dal Cinquecento a oggi. Un museo vivo, una continua fonte di ispirazione e dialogo tra il presente e il passato, per lavorare oggi come cinque secoli fa!

Pierino abbassa nuovamente le palpebre. Si lamenta della salute degli occhi. Io invece non riesco fermare lo sguardo che rimbalza frenetico da un angolo all’altro della bottega. Ogni minimo spazio è riempito di storie: racconti racchiusi nelle forme di centinaia di oggetti. Basta puntare una luce di taglio e le quinte luccicano d’oro e ambra.

Pierino prende un vaso su cui sta lavorando da anni, interamente cesellato a mano. È riempito di pece per assorbire i colpi e decorato con fregi, frutta e animali che emergono dal vaso. Un colpo dietro l’altro, un lavoro minuzioso che tende a una fine che non esiste. Ci sarà sempre un altro colpo da dare, un’altra figura da perfezionare.

Massimo – il nostro regista – vorrebbe riprendere un decoro sbalzato a mano mentre affiora dal foglio di rame.

– Potrei fare uno stampo da budino, – dice Fiorenzo.
– Quanto ci vuole?
– Un’ora. Forse meno.

Massimo calcola i fotogrammi e decide l’intervallo degli scatti: uno ogni tre secondi, per avere un movimento rapido ma fluido. Posiziona la telecamera, ben salda sul cavalletto. Fiorenzo posiziona invece lo stampo di piombo sul banco e lo riveste con un vaso grezzo di rame.

– Motore…
– Partito.
– Azione!

Fiorenzo inizia a martellare con uno scalpello di gomma. Tutti escono, io invece rimango lì, davanti a lui. Lo vedo lavorare tutto d’un fiato, solo lui e la forma che emerge dal rame. Non dice una parola, ogni tanto respira. Le mani corrono rapide, sicure. Una sequenza infinita di colpi. Me li gusto tutti, dal primo all’ultimo. Non ce n’è uno che sia uguale all’altro. Lo ascolto lavorare, a occhi chiusi. Un’esperienza ipnotica.

Poi la stagnatura a caldo. Un altro mondo di suoni e colori da vivere tutti d’un fiato. L’operazione si svolge all’aperto. Se ne incarica Stefano, l’altro figlio di Pierino. Usa verghe di stagno puro al 100% che scioglie sul fuoco vivo e poi, con pochi gesti ampi, stende sul rame con un panno di lana di vetro. Movimenti veloci, che sembrano approssimativi come quelli di una massaia mentre asciuga i piatti. E invece sono una danza di piccoli tocchi per avvicinare e allontanare il manufatto dal fuoco: equilibrio tra riscaldamento e raffreddamento. Al termine, l’interno della pentola è lucido, uniforme, perfettamente stagnato.

Mentre il lavoro di Fiorenzo era lento e minuzioso, somma di piccole e impercettibili correzioni, quello di Stefano è breve, dinamico, senza possibilità di errore. Come un pugno ben dato: quando lo vedi partire, sei già al tappeto.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite a Ravina di Trento, nella Val Gola. Ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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