24 novembre 2013 - Il principe ben stagionato.

Oggi siamo in Piemonte; il paese è Castelmagno, il paesaggio quello della Val Grana.
Mi sveglio all’alba e guardo la calma del mare. La giornata si annuncia buona, nonostante le previsioni. La luce mi accompagna serena fino a Savona, poi diventa un’ombra larga e inquieta.L’acqua scende torrenziale alle porte di Cuneo. Mette paura.
Per fortuna sono rimasto senza benzina e devo fermarmi. Mi rifugio nel bar del distributore. Quando risalgo in macchina, mezz’ora dopo, ha quasi smesso di piovere. Fuori è ancora buio, però si è alzato il vento. In genere, questo è un buon segno.

Appena imbocco la provinciale per la Val Grana mi chiama Davide. Anche questo, in genere, è un buon segno. Dice che il tempo su è bellissimo. Bisogna crederci. Così, quando sbuco dalle nuvole la mente è già sui pascoli in quota, sopra le case in pietra di Chiappi, raggruppate con ordine sotto il santuario di San Magno.

L’ultima curva è una fotografia da scattare con gli occhi,per fissare nella mente le luci e le ombre che danno vita ai territori. Oltre il santuario, la montagna sale ripida ma accessibile. Un pendio che è anche una via di comunicazione: la rotta di mercanti, pellegrini e popoli interi che per secoli hanno camminato su queste pietre verso la Francia e il mondo.

Cuneo dista una ventina di chilometri. In basso la pianura alluvionale, quella che oggi era fradicia di pioggia; poi gole strette e profonde che s’intuivano appena, oscurate dalle nubi; infine praterie d’erba, rocce e fiori d’alta quota. Un vero giardino botanico, con orchidee, anemoni, genziane, viole e gigli. Davide dirà alla macchina da presa che c’è anche l’Artemisia Mutellina, il fiore del genepì, e perfino il camedrio alpino, che a lui piace molto più della stella. Dirà anche che questa «è una valle che ti abbraccia, come una persona cara».

Quando avevo scritto queste parole non ero mai stato qui. Ero pronto a cambiarle e invece scopro che sono perfette. Così, mentre Massimo prepara la telecamera per una nuova inquadratura, resto a godermi l’abbraccio della valle. Un istante che vale una giornata.

Troviamo subito il punto dove mettere la sedia di Davide. Il centro energetico della Val Grana, appena sopra il santuario di San Magno, è sulla cima di una collinetta sovrastata dal passo della Crosetta. C’è un palo di legno alto e stretto conficcato nel terreno e sormontato da rami più piccoli che guardano in tutte le direzioni. Indicano strade e sentieri. Una specie di navigatore satellitare d’altri tempi. Sembra lo scheletro di un albero, oppure un totem; un oggetto sacro.

Davide arriva con il passo deciso del camminatore. Si ferma di fronte al palo e con un movimento unico, come se si togliesse un mantello, posa la sedia. «Da qui – dice – è più facile capire il territorio e la sua gente».
Siamo venuti nelle terre di Castelmagno per raccontare una storia di montagna, di latte e di formaggio. La storia di una piccola comunità capace di produrre un formaggio eccezionale, già un migliaio di anni fa. Davide sorride alla telecamera e dice: «Pensate che già nel 1200, gli abitanti della valle pagavano le tasse al marchese di Saluzzo con sette forme di Castelmagno d’alpeggio all’anno!».

Chiappi è una frazione di Castelmagno: case sparse, con una manciata di abitanti. Le abitazioni a ridosso del santuario sembrano gocce di pietra nel mare dei prati. Poca gente, ma con un grande sapere. Nel corso dei secoli, il Castelmagno è diventato il «principe dei formaggi italiani» presso le corti reali e sulle tavole dei migliori ristoranti di Londra e Parigi. Poi, dopo la grande guerra, la grande fuga. Il sogno della modernità ha portato quei pochi lontano dal Castelmagno e il principe è decaduto.

Oggi il ritorno, graduale e selettivo, ma convinto. Grazie anche a Giorgio, il protagonista della nostra puntata, che insieme al sindaco De Matteis si era battuto per ottenere il riconoscimento di formaggio d’alpeggioDue parole che racchiudono un mondo. In alto l’alpeggio e l’erba dei pascoli, in basso – poco più in basso – la stalla e i mangimi. Due filosofie di vita diverse, come sorelle che generano figli differenti, ma con lo stesso nome.
Già scrivere questa differenza sull’etichetta è un atto di onestà verso i produttori e i consumatori. La valorizzazione dei territori passa anche attraverso piccoli atti di giustizia. La terra insegna a chiamare le cose con il loro nome.

Oggi Giorgio lavora con il figlio, un giovane che vive a Cuneo ma risale tutti i giorni la valle per occuparsi del formaggio e del genepì, la sua passione. A tavola, Davide suggerisce di accoppiare il Castelmagno proprio al genepì. Ha il palato fine e i sensi allenati. Sembra strano, ma il casaro non ci aveva mai pensato. Lo associava piuttosto al Barolo dei Ceretto, appassionati conoscitori di questo lembo di Piemonte. Davide invece è convinto che al Castelmagno serva un liquore dolce e aromatico come il genepì. Stessa aria, stessa terra.

Raggiungiamo il santuario. L’aspetto è imponente, quasi selvaggio. Una roccia tagliata a sbalzo tra le pareti della montagna. Un luogo mistico, ma in senso laico. Il santuario è circondato da ampi porticati. Ogni arcata è scandita da un anello sul muro.
Un tempo era un serraglio – mi confida Giorgio, intuendo i miei pensieri – e quegli anelli servivano per legare gli animali. Sotto il portico, il mercante si stendeva a dormire, poi di giorno vendeva la merce sul piazzale. Serviva la gente di passaggio».

Interrogo il parroco sull’anima laica dell’edificio. Dice che san Magno è il protettore del bestiame e dei pascoli, e che sul retro è ancora visibile un altare romano dedicato a Marte. Sempre sul retro c’è un cimitero. Piccolo, raccolto, dove la morte si manifesta come un sussurro. Ci sono le anime dei defunti mosse dal vento che danzano sulle loro tombe.
Sulle lapidi vedo dei buchi. Chiedo cosa siano e mi rispondono che un tempo le famiglie mettevano dei quarzi a decoro delle tombe. Poi qualcuno ha rubato le pietre e nessuno le ha più rimesse. Una cosa triste, ma l’atmosfera resta lieve. La pace dei morti resiste paziente alle offese dei vivi.

Dietro l’altare c’è la cappella antica, del Quattrocento. I dipinti sui muri sono un corso accelerato di catechismo. L’Ultima cena occupa tutta la parete. Al centro Gesù, con Paolo alla sinistra in atto di preghiera e Giovanni alla destra, addormentato sulla tavola con il Cristo che lo osserva paziente. L’unico personaggio di spalle è il traditore. I denari appesi alla cintura, la mano destra tesa verso il Messia che gli offre del pane. Giuda è l’unico che veste di scuro. Chi guardava il dipinto doveva imparare in fretta e non avere dubbi sul senso del racconto.La catechesi passava rapida attraverso i segni del pennello.

Infine, la firma dell’autore. Forse il tratto più singolare dell’affresco. E’ posta sul soffitto della stanza, in una striscia decorata che la percorre delimitando il dipinto. Nella fascia si susseguono tre facce e tre cerchi grigio scuro, quasi neri. «Chi sono quei volti? – chiedo al parroco – e cosa sono quei cerchi?».
«I volti non lo sappiamo – mi risponde – ma i cerchi sono quasi certamente dei bottoni neri: la firma dell’autore». Torno a guardare perplesso la parete. «Si chiamava Bottoneri! – esclama Giorgio – era un pittore importante e anche un frate francescano; uno di Cherasco».

L’affresco merita un viaggio. È pieno di elementi simbolici da interpretare e segni pittorici da apprezzare. Un oggetto che parla, come un frate che dice Messa con le immagini. Da non perdere.

La giornata si conclude nella grotta di stagionatura del Castelmagno, dove le forme arrivano bianche dalla casera e a poco a poco diventano scure macchiandosi di rosso. Non sempre e non tutte. Come capita. Anche questi sembrano dipinti, con piccoli tocchi di vermiglio su ampie campiture ramate.
Formaggio accarezzato dall’aria e cullato dalle mani dell’uomo, che tutti i giorni muove le forme e pulisce le croste. Allora, Se venite in Val Grana e vedete una mucca d’alpeggio, ringraziatela; in una settimana produce settanta litri di latte, quel che serve per fare una forma di Castelmagno.

Da vedere e da gustare c’è la pasta morbida del formaggio, che sotto la crosta diventa scura e a poco a poco si vena di muffe nobili: la famosa erborinatura, il sangue blu del Castelmagno Dop!

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Come dice Davide: «Venite a Castelmagno, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!»

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