26 ottobre 2015 - Il popolo del balòn.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Dolcedo, il paesaggio la valle del Prino. Le coordinate geografiche sono 43°54’ Nord e 7°57’ Est.

Tutto era iniziato davanti a una fotografia di Salgado, con due grandi foche in primo piano. Una voltava la testa verso di noi e ci osservava con intensità. Un bianco e nero d’altri tempi, fatto di pellicole a bassa sensibilità, tempi d’otturazione rapidi, obiettivi affilati come diamanti e notti passate in camera oscura.

Davanti a quella foto, Antonio (Ricci) mi aveva chiesto:
– Conosci il pallone elastico?
Per fortuna sono cresciuto a Lusignanoun paesino da niente a un passo da Albenga. Da un lato il mare della Gallinara, davanti il Centa e dietro i cinghiali; dall’altra parte del mondo, verso Monesi e il Saccarello, si distende la Valle Arroscia. Da bambino mi portavano a Pieve di Teco, a vedere le quadrette giocare nella piazza del paese.
Guardo Antonio e domando:
– Il balòn?
Lui si accarezza il pizzetto e mormora:
– Non c’entra niente vero?
Be’, con le foto di Salgado non c’entra niente; ma con Paesi, paesaggi c’entra, eccome se c’entra.

E allora eccoci qui, a Dolcedo, per raccontare la semifinale del campionato di pallone elastico. La pallapugno si gioca solo nella Liguria di Ponente e nel Basso Piemonte. Il campo si chiama sferisterio, un nome che ricorda il Calvino di Palomar e delle Cosmicomiche, e invece è una specie di piazza allungata: per il popolo del balòn la vera piazza del paese. Nei piccoli centri di campagna, dove questo gioco antichissimo ha attecchito così bene da soffocare il calcio, lo sferisterio è ricavato davanti alla chiesa, di fronte al municipio, dietro alle scuole o dovunque ci sia uno slargo lungo un centinaio di metri e largo una ventina, con un po’ di spazio da un lato per accogliere i tifosi e una protezione sul lato opposto per tenere in campo la palla. Può essere un muro, una rete, qualsiasi cosa che permetta al tiro del battitore di correre lungo quella linea di confine tra le case e il bosco, la terra e l’aria.

Oggi tira vento di mare. Per chi batte è un bel vantaggio, ma bisogna saperlo sfruttare: se alzi troppo la palla, la butti nel fiume; se la tieni bassa, non arrivi dall’altra parte.

Ogni tanto, in cerca d’ispirazione, riguardo su internet qualche frammento del Viaggio in Italia di Mario Soldati. Il maestro insegna che prima di tutto vengono i luoghi, poi le persone. E allora partiamo dal paesaggio e dalla strada che lascia Imperia e si annoda su se stessa come un pitone sul fondo di una cesta. Ci lasciamo incantare e risaliamo la valle del Prino, che è tutta un susseguirsi di piccoli borghi che spuntano dal bosco in cerca di luce. I campanili delle chiese per primi, poi le case. Ci fermiamo sul bordo di una di quelle curve e giochiamo a individuare i paesi tra gli olivii castagni e gli arbusti di macchia mediterranea. Sembrano folletti: quasi non li vedi, ma sai che ci sono, tenuti insieme da una rete invisibile di relazioni umane, storie di terra e di caccia, partite a carte e scommesse al balòn.

Dolcedo è uno di quei borghi, il più ricco e importante, quello che la strada raggiunge meglio di tutti; per questo era la sede del mercato e per questo – da sempre – si chiama anche Piazza. Le prime inquadrature sono sul ponte in pietra dei Cavalieri di Malta. Il torrente scorre in bassocon un rigagnolo d’acqua che accarezza le vecchie ruote dei mulini. Sono magnifiche, ferme e abbandonate. Basterebbe poco per rimetterle in sesto.

Davide cammina con la sedia in spalla raso i muri delle dimore storiche. Entra in un loggiato scuro. Sembra un’antica sala d’aspetto, o l’ingresso di una villa nobiliare. Davide apre una porta e scopre un minuscolo, delizioso cortile. Mi ricorda il mondo arabo: sobrio, quasi assente all’esterno e lussureggiante all’interno. È così anche qui a Dolcedo, nella piazzetta della chiesa parrocchiale di San Tommaso. Suonano le campane e ci ricordano che sono quasi le undici: l’ora della messa. Dobbiamo fare in fretta. Mettiamo qui la sedia, e non potrebbe essere altrimenti. Questa piccola piazzetta di Dolcedo, vale da sola la puntata.

La chiesa è d’impianto medievale, ma è stata ricostruita nel Settecento. Facciata barocca e portale rinascimentale. L’interno, a tre navate, è ricchissimo. Il parroco mi spiega che un tempo era tutto decorato con stucchi verdi e rosa, come quelli che si vedono ancora nella parte anteriore; poi verso la metà dell’Ottocento è stata applicata una tinteggiatura blu. Ci sono capitelli e lesene dorate a ingentilire l’impianto decorativo, ma l’intensità del blu cobalto è stupefacente. Un colore tanto vivo da sembrare falso.
– È la qualità del pigmento – dice Davide – Un lavoro ben fatto.

Le campane suonano ancora. Battono l’ora e annunciano l’inizio della funzione. Per noi è tempo di andare. Di là del fiume, nello sferisterio, ci aspettano Daniel e il popolo del balòn.

Daniel è un giovane della zona, un campione della pallapugno. Nella vita fa l’agricoltore: tutti i giorni tra gli olivi di famiglia e la sera ad allenarsi. Ci aspetta paziente fuori dagli spogliatoi e ci introduce al rito della vestizione.

È un ragazzo di poche parole; oggi ne usa ancora meno. Lui è il battitore, il perno della squadra. Detto per inciso, i giocatori sono quattro: in fondo il capitano che batte e fa punti, poco più avanti la spalla e al centro del campo i terzini. La potenza e la precisione dietro, l’astuzia e l’agilità davanti.

Daniel prende tempo. Gesti lenti, misurati, che lo portano alla battuta come un cammino rituale. Dalla borsa prende delle bendele svolge e a una a una le annoda sulla mano e sul polso. Ogni giocatore ha le sue: le sceglie in casa e in merceria, le strappa da vecchi materassi. Poi mette degli strati di gomma e un profilo in cuoio.

– Quello l’hai tagliato tu? – domando.
Daniel non mi risponde nemmeno. Con la testa è già nel gioco, alla conquista di una caccia.
Questa delle caccie è una faccenda complicata. Il balòn è un gioco semplice da direimpossibile da capire, a meno di non esserci nati dentro. Il campo non ha una rete e durante il gioco si spostano i limiti del fondo – le caccie, appunto – a seconda di dove si fa morire una palla.

Come la briscola al bar: quando credi di aver capito tutto, non hai capito niente.

Intanto, mentre le quadrette si scaldano e il vento rinforza, il popolo del balòn prende posto. La leggenda dice che fino a pochi anni fa la pallapugno non esisteva senza le scommesse. Un po’ come il poker senza il piatto. Chiedo in giro, ma tutti scuotono la testa e giurano che di scommesse, oggi non se fanno.
– Qui però la gente viene con il coltello – mi dice uno per prendermi in giro. Ha capito che non sono del mestiere. Lo guardo stupito e lui, in dialetto, continua:
– Mica per accoltellare la gente, per affettare il salame!
E giù risate, mentre Daniel continua a battere e a macinare punti. Conquista caccie e la gente esulta. Però vedo che tutti applaudono un buon colpo e tutti fischiano un errore. Mi lascio sedurre da questo piccolo mondo antico, senza troppe divisioni. La partita è molto più di un evento sportivo: in campo – con i giocatori – scende tutto il popolo del balòn, ognuno con i propri sogni.

Potenza, precisione, riflessi… ma anche passione, lealtà, rispetto…
Anche questa è l’Italia della qualità.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Dolcedo, nella valle del Prino; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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