8 aprile 2016 - Il Panatè del Tanaro.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Rocchetta Tanaro, il paesaggio l’Alto Monferrato. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Ieri notte era scattata l’ora legale e non avevo regolato la sveglia. Quando al mattino mi sono alzato fresco e ben riposato, ho scoperto di avere un’ora di ritardo. Per fortuna Rocchetta Tanaro è un paese veloce da raggiungere, ad appena quindici chilometri da Asti. Il nostro regista mi telefona per sapere se sto bene. Lo rassicuro, mentre supero il casello e mi immergo nella campagna del Monferrato. Una manciata di curve ampie e brevi rettilinei che attraversano la pianura lungo il Tanaro, prima delle colline del Barbera e del Grignolino. Per raggiungere il forno di Mario – il protagonista della puntata – bisogna girare a destra subito dopo il fiume. Quando arrivo, Davide ha appena indossato il costume di scena ed è pronto per iniziare le riprese. Sono pronto anch’io.

Cominciamo dal paese, un borgo di origini antichissime di cui oggi rimangono alcune testimonianze medievali che affiorano tra le costruzioni più recenti. I primi abitanti giunsero attraverso il Tanaro oltre quattromila anni fa. Una lunga storia, di una comunità profondamente legata alla propria terra.

Sulle sponde del fiume, il bosco di querce è fitto come doveva essere una volta. Ma ci sono anche dei faggi, ricordo di una popolazione arborea diffusa al termine dell’ultima glaciazione. Ci incamminiamo nel bosco e percorriamo i piacevoli sentieri alla ricerca del grande faggio, un esemplare monumentale alto più di 25 metri e vecchio di secoli. Lo troviamo in posizione nascosta, su un costone scosceso in ombra. Davide abbraccia il tronco e scopre quanto sia grande. Percepisce il profumo della corteccia, la ruvidità del fusto, sente la linfa che scorre lungo le vene del legno fino ai rami più alti, che sembrano dissolversi nel cielo. Forse pensa all’albero del suo Padiglione Zero, che sfondava il pavimento e il tetto comunicando la generosa potenza della natura. Per rendere onore a questo monumento vivente, il nostro operatore dà fondo al repertorio di trucchi del mestiere e si sdraia nel fossato per inquadrare il faggio dal basso. Poi sceglie un grandangolare ed esalta con il controluce la chioma dei rami, con un diametro di oltre venti metri.

Al termine della passeggiata, prima di tornare alle macchine, attraversiamo il Pometo della memoria, un luogo dedicato alla biodiversità dove si recuperano a scopo educativo antiche cultivar di mele dell’Astigiano ormai scomparse. Davide passeggia accanto agli alberelli e domanda alla guida i nomi delle varietà. Assomigliano ai versi di una poesia, con una seducente metrica interna: Carlo Bianco, Ciucarina, Calvin, Gamba fina, Piatlin, Pom Marcon, Ruscaio

In mezzo a tutto questo verde, Mario ha dedicato la sua vita all’arte bianca. È diventato un panettiere – panatè come si dice da queste parti – molto particolare.

Ha iniziato a lavorare all’età di otto anni. A dodici è andato a Torino e lì ha imparato il mestiere. Poi, con l’aiuto prezioso della moglie, ha saputo andare oltre il pane; ha inventato le lingue di suocera e ha rinnovato la tradizione dei grissini piemontesi.

Tutto fatto a mano, come una volta, eppure tutto nuovo.

Mi racconta che ad Acqui lavorava un anziano artigiano che preparava con l’impasto dei grissini delle sfoglie piatte, friabili e croccanti. Mario ha colto l’ispirazione e ha trasformato quella ricetta nelle sue lingue di suocera. Oggi realizza insieme al figlio Giovanni vere e proprie sfoglie di pane con tre lievitazioni successive che esporta in tutto il mondo. Sono stirate a mano e raggiungono la lunghezza di circa quaranta centimetri. Poi il panatè le buca perché non crescano troppo nel forno e le spazzola per togliere l’eccesso di farina. Infine le cuoce a bassa temperatura e anche il confezionamento è manuale.

«Per forza» esclama Davide «non ce n’è una uguale all’altra!».

Il ciclo di lavorazione comincia con la selezione delle farine, poi si aggiunge olio extra vergine di oliva Taggiasca non filtrato, piacevolmente abboccato e con un giusto grado di acidità. Ma il segreto del forno di Mario è il lievito madre, che aveva creato lo zio pasticcere e che oggi ha più di un secolo.

La lievitazione naturale si caratterizza per i tempi lunghi di maturazione e l’abbondanza di batteri lattici che permettono un’idrolisi più completa degli amidi della farina. Ne deriva una complessità di gusto superiore, una migliore digeribilità e una maggiore durata del prodotto che resta sempre croccante, come appena sfornato.

Mentre Davide, davanti alla telecamera, trasforma in racconto la chimica della lievitazione, Mario e Giovanni impastano e stirano a mano i grissini, il prodotto da forno più tipico del Piemonte.

L’obiettivo del regista segue con attenzione i gesti degli artigiani. Indaga la regolare irregolarità dei grissini e scopre che la loro lunghezza è determinata dall’apertura di braccia del fornaio. Poi osserva le dita che ruotano velocemente perché le estremità del grissino non siano troppo grosse.

Anche i tradizionali rubatà, che in piemontese significa “caduti”, sono lavorati a mano e presentano una tipica forma nodosa. Sono il grissino più antico: derivazione diretta di quei bastoncini di pane inventati nella seconda metà del Seicento dal fornaio di casa Savoia per nutrire il futuro Vittorio Amedeo II, che era cagionevole di salute e non riusciva a digerire la mollica del pane.

Medicina e gusto hanno trovato nei grissini un punto d’incontro ideale e un secolo dopo la loro invenzione, Napoleone ordinò che un corriere portasse regolarmente a Parigi les petits bâtons de Turin.

Anche Mario porta le sue creazioni in tutto il mondo. Grazie alle sue lingue di suocera e ai suoi grissini, alla Barbera di Braida e alle canzoni di Bruno Lauzi, il nome di Rocchetta Tanaro ha viaggiato ben oltre i confini del fiume e delle colline.

L’azienda di Mario sforna numeri importanti, eppure rimane una realtà artigianale, dove la mano e la mente umana comandano ogni fase del processo di produzione. La manualità è una scelta obbligata. Le macchine non sarebbero mai in grado di stendere prodotti come le lingue di suocera e i grissini senza rompere il fragile alveo dell’impasto. È una questione di sensibilità e di esperienza: la ricerca dell’equilibrio.

«Se si perde l’equilibrio, addio friabilità e fragranza!» esclama Davide.

Poi prende una lingua di suocera, la spezza e la porta alla bocca.

«Anche questa è l’Italia della qualità – esclama, – un paese dove la bontà del cibo non si rompe nemmeno quando si spezza!3

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Rocchetta Tanaro, nell’Alto Monferrato; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

 


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |