15 aprile 2016 - Il grano di Poggioreale.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Poggioreale, il paesaggio la valle del Belice. Le coordinate geografiche sono 37°45’ Nord e 13°2’ Est.

Davide e io partiamo al mattino presto da Trapani e ci dirigiamo verso est, in direzione del sole. Un breve tratto di autostrada, poi lo svincolo che guarda a sud, infine la campagna dei Greci di Segesta. L’interno della Sicilia: un paesaggio che ogni occhio dovrebbe vedere almeno una volta.

Avevamo pianificato questo servizio sul grano della Trinacriaproprio in primavera, per avere sullo sfondo distese verdi come pascoli punteggiati di fiori e rade nuvole che sbandierano nel cielo increspato dal vento. Questa terra è capace di incantare anche il viaggiatore più distratto. Sembra il centro del niente, ma è un niente pieno di cultura e di bellezza.

Continuiamo a guidare in silenzio, ammirando ciò che la natura ha creato e la saggezza degli esseri umani ha perfezionato, a propria immagine e somiglianza. Terra da indossare, come un abito su misura.

Siamo venuti nella valle del Belice per raccontare la storia di Alberto e della sua famiglia. Gli Agosta coltivano grano duro da generazioni e oggi hanno recuperato specie antiche, come il Tumminia e il Senatore Cappelli; ma sono diventati anche mugnai e pastai, per seguire l’intera filiera di produzione e chiudere un ciclo vitale che dal campo giunge fino alla tavola: prima la spiga, poi la farina, infine la pasta.

La terra plasma le persone. È un lavoro lento, che si realizza nel tempo e con il fluire delle generazioni. Per raccontare la storia di Alberto e il suo rapporto con il grano dobbiamo fare tappa a Poggioreale, il paese distrutto dal terremoto nel ’68 dove il protagonista della puntata è vissuto e dove ancora resiste la casa di famiglia, proprio all’ingresso della città fantasma.

Ci troviamo a 62 km da Palermo, su un’altura che domina la valle del Belice. L’antica Poggioreale è un luogo di una bellezza struggente: insieme di case vuote, abitate dal vento, da luce ferma e aria in ombra. Entriamo in silenzio e parliamo a bassa voce, per non disturbare i fantasmi che ancora vivono in questi edifici, i bambini appena usciti da scuola con i banchi in disordine, le signore in chiesa inginocchiate sui cocci del tetto crollato. Lo stesso struggente raccoglimento dello Spasimo, a Palermo. E poi gli uomini che attraversano la piazza in fondo al paese. Sono tutti lì, intorno a noi, mentre carichiamo la batteria del drone e preghiamo che il vento non lo porti via con sé.

Noto su una casa la scritta DUX a caratteri neri cubitali.

«Cos’era? – chiedo a uno dei nostri accompagnatori, – la Casa del fascio?»

Lui sorride e scrolla le spalle. Mi spiega che è la scritta di una scenografia, realizzata per girare un film e mai cancellata dalla produzione. Scrollo le spalle anch’io. Non avere rimosso quell’insegna mi pare un gesto volgare, irrispettoso del luogo e delle anime che ancora lo abitano. Qualcosa non torna. Ripenso alle scene che abbiamo visto in Friuli, a Gemona e Venzone. Lassù, città rase al suolo dalla natura sono state ricostruite dall’uomo, rimettendo a dimora le pietre; quaggiù, all’estremo opposto del Paese, abitazioni ancora integre sono state abbandonate per diventare meta di turisti di passaggio e scenografie per il cinema. Davvero qualcosa non torna.

Intanto, il vento si calma e mettiamo in funzione le eliche del drone. L’apparecchio si alza in volo e abbraccia con lo sguardo della telecamera l’intera vallata. L’aria accarezza le spighe. Il podere di Alberto è laggiù, da qualche parte, perso nel verde. Seguendo il volo del cucciolo d’elicottero, risaliamo in macchina e lasciamo in silenzio Poggioreale.

Come dicevo, Alberto e la sua famiglia seguono tutta la filiera di produzione e lavorano il feudo Mondello che i nonni avevano acquistato alla fine dell’Ottocento dalla diocesi di Monreale. Generazioni di grano duro.

Dopo gli studi di agraria, Alberto era tornato alla terra con l’idea di rendere più moderne ed efficienti le coltivazioni. Ha meccanizzato le attività, ma soprattutto ha maturato l’idea che la qualità del grano dovesse rimanere intatta lungo tutto il ciclo di produzione. Oggi, insieme alla moglie Nina e ai parenti più stretti ha chiuso il cerchio iniziato tanti anni fa. Dico oggi in senso letterale, perché il suo pastificio ha inaugurato proprio oggi l’attività. Stiamo registrando una puntata strana e bellissima, dove gli opposti si incontrano: i fantasmi della città abbandonata e gli agricoltori che tenacemente lavorano la terra scossa, e poi secoli di storia maturati nei campi di grano che si condensano nei primi istanti di questo piccolo pastificio artigianale.

Iniziamo le riprese nel campo, dove le piantine di grano Tumminia e Senatore Cappelli stanno crescendo a vista d’occhio e nei prossimi mesi diventeranno alte quasi due metri. Davide passeggia con la sedia in spalla e osserva con tenerezza le giovani spighe. Tra poco, il prato verde diventerà un mare giallo e sarà pronto per essere trebbiato.

A quel punto, il grano del feudo Mondello sarà immediatamente macinato nel mulino a pietra che rinnova l’antica tradizione della molitura artigianale. L’ampio diametro della macina e la ridotta velocità di rotazione schiacciano il chicco senza bruciarlo e mantengono la crusca, il germe, le vitamine, i sali minerali. Una vera riserva di vitalità!

Infine, la semola grezza viene impastata secondo le regole dell’antica lavorazione manuale. La trama grossa della farina e la trafila in bronzo donano alla pasta una naturale rugosità, indispensabile per legarsi al condimento. Il passaggio conclusivo è l’essiccatura. Il segreto è la lentezza, unita anche in questo caso alla bassa temperatura.

«Pensate che occorrono fino a due giorni per asciugare la pasta! – esclama Davide davanti alla telecamera. – Una cosa impossibile per l’industria!»

Occorre pazienza, ma ne vale la pena: questa filiera è la base della nostra alimentazione.

Nel frattempo, nel cortile del pastificio, l’acqua bolle in pentola; il sale si scioglie, la pasta si cuoce e viene scolata perfettamente al dente. Il primo piatto dei primi spaghetti del feudo Mondello è pronto e viene servito al tavolo che abbiamo allestito in mezzo al campo arato di fresco, tra balle di fieno e sacchi di grano. Una festa che anticipa il raccolto. Osservo Davide mentre mangia quella pasta appena nata. Siamo nel mezzo del niente, e abbiamo tutto a disposizione.

Grano, farina, pasta: questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Sicilia, nella valle del Belice; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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