6 aprile 2014 - Il gianduiotto ai funghi.

Oggi siamo in Piemonte; il paese è Giaveno, il paesaggio quello della Val Sangone.
Arriviamo bagnati fradici. Le stagioni sanno essere perfide con la gente di mare che si avventura ai piedi delle montagne senza guardare le previsioni del tempo.

L’appuntamento è in piazza, tra i torrioni che cingono il villaggio e la sua trama di vie che si allontanano dal centro per tornare sempre al punto di partenza.
Impossibile capire dove andare; impossibile perdersi. Adoro vagare nei luoghi che non conosco, vedere le cose senza osservarle. Fiori sui balconi, facce inumidite di persone, vetrine di negozi appena aperti e ancora senza clienti, qualche portone, dettagli del selciato di pietra.
Cose da niente, l’inizio di nuovi pensieri…

Quando le vie di Giaveno ci riportano in piazza – sopra il mosaico della rosa dei venti – Davide è già sotto il campanile. I passanti lo guardano incuriositi e chiedono di lui a Guido, il protagonista della puntata. Facciamo già audience, prima ancora di andare in onda.

La sceneggiatura prevede che Davide salga fino in cima, ma non può farlo perché soffre di vertigini. Anche Massimo non se la sente e allora monta l’operatore da solo, con la macchina da presa in spalla.
Farà una soggettiva di Davide che dirà fuori campo: «Giaveno è un paese composto da cento antiche borgate, difese da torri medievali e protette da un alto campanile. Anche voi, appena potete, guardate le cose dall’alto. Allargare lo sguardo apre la mente…».

Da lassù, la telecamera inquadra una valle che nasce appena fuori Torino e lentamente sale verso le montagne olimpiche. Fin dall’antichità, questa non è mai stata una via di transito, ma una terra abitata da popolazioni che qui hanno trovato riparo, lavoro e funghi!
Proprio così, la Val Sangone è la terra dei funghi, oltre che del cioccolato.

Il protagonista della nostra puntata è infatti Guido, un artista del cioccolato. Il nome esatto per definirlo è cacaotier. Un artigiano che non rielabora preparati di pasticceria, ma segue tutta la filiera dalle fave di cacao fino alle tavolette di cioccolato.
La ricetta è l’ultima cosa. Non la meno importante, ma quella che viene alla fine di tutto.

Andremo nel suo laboratorio nel pomeriggio. Adesso giriamo gli esterni e le sequenze di Davide che attraversa Giaveno con la sedia in spalla e l’incedere sicuro. È un viaggiatore lento ma inesorabile.
Un passo dopo l’altro; piccoli spostamenti del corpo verso mete provvisorie e mutevoli. Indefinite come la vita.

All’improvviso ricomincia a piovere. All’inizio piano, poi sempre più forte. Massimo indossa eleganti mocassini che cerca di proteggere camminando raso i muri della chiesa dei Batù, i Flagellanti che si punivano per pentirsi.
L’edificio risale alla metà del Cinquecento e mescola tratti classici a decori barocchi. All’interno conserva gli arredi originali e un organo settecentesco di grande pregio.
La pioggia battente ci percuote le schiene ingobbite. Sembriamo moderni Batù, mentre fuggiamo nel vicolo e corriamo verso il parcheggio.

Ci ripariamo nel laboratorio di Guido. Le scarpe di Massimo, per il momento, sono salve.
Siamo entrati in una vera “fabbrica del cioccolato”, ma in miniatura; uno spazio intriso di profumi, dove ogni centimetro quadrato è progettato perché vi accada qualcosa. Le macchine sono poche e sembrano semplici estensioni delle mani dell’uomo, come in ogni bottega artigiana.

I gesti di Guido sono esatti, come quelli dei suoi collaboratori. Si sfiorano senza urtarsi, si vedono senza guardarsi e si parlano senza dirsi niente. Affascinante vederli vivere come l’equipaggio di un sommergibile.
Fuori continua a diluviare. Davvero siamo all’interno di un sommergibile.

Davide dice che «in ottobre, Guido sceglie le fave di cacao in Equador, in Messico, in Venezuela, nell’isola di Madagascar o nelle Filippine; poi le porta a Giaveno e le seleziona a una a una, sterilizza le bucce, asciuga le fave e caramella gli zuccheri…».

Poi spiega che la concatura dura due giorni e che il temperaggio è un processo delicato che serve ad armonizzare gli acidi grassi del cacao.
Vedere Guido che spatola la massa di cioccolato sul piano di metallo è uno spettacolo. I suoi movimenti sono ipnotici, come quelli di una bacchetta che danza nell’aria e produce musica.

Davide fissa la macchina da presa ed esclama: «Tanto per capirci, da quando le fave di cacao entrano nel laboratorio di Guido a quando escono sotto forma di creme spalmabili, tavolette e cioccolatini, è passato un anno intero!»
Un tempo lunghissimo, se confrontato con le logiche dell’industria.

Mentre osservo Guido lavorare, vedo l’artigiano confondersi nell’artista. Non c’è niente da dire; solo osservare e, se possibile, imparare.

Nel pomeriggio smette di piovere e il sole diventa rabbioso. Lasciamo la piccola fabbrica del cioccolato e raggiungiamo il grande prato del Santuario della Beata Vergine del Bussone. Chissà quante coppie hanno amoreggiato da queste parti.

Questo luogo racchiude bene lo spirito della Val Sangone; abbastanza alto da anticipare la montagna e abbastanza piatto da ricordare la pianura. Davide posa la sedia sotto il portico seicentesco della chiesa in ristrutturazione. Dietro di lui, un telo di plastica da cantiere cade come il sipario di un teatro dismesso. Poco distante c’è una ragazza, immersa nella tuta da lavoro; carteggia il muro per ridare la tinta.

Cerchiamo di fare il nostro mestiere senza intralciare il suo, ma la ragazza è attratta dalla televisione. Teme e al tempo stesso desidera essere filmata.
Davide la incoraggia a farsi avanti ma lei arretra.
Per esigenze di scena, il nostro inviato assaggia un cioccolatino. Però sbaglia la battuta e ne mangia un altro. Poi un altro ancora perché l’audio è disturbato e uno perché l’inquadratura viene meglio di lato; alla fine, Davide ha divorato una scatola di gianduiotti dicendo: «Migliori le materie prime, più semplici le ricette. Pensate che questo cioccolatino è fatto solo con nocciole delle Langhe, zucchero di canna e il pregiato cacao Chuao del Venezuela. Ed è il gianduiotto migliore d’Italia!»

La ragazza accetta l’ultimo cioccolatino e sorride alla machina da presa. Non sa che Massimo l’ha già spenta.
Mentre smontiamo le nostre attrezzature, Guido mi ricorda che in epoca napoleonica il gianduia era stato il primo surrogato del cioccolato. Veniva tagliato con la nocciola per ottenere un prodotto più economico. Poi è diventato il simbolo di un territorio.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Quando venite in Val Sangone – oltre a gustare le specialità di Guido – ricordatevi di visitare la Sacra di San Michele, l’antica abbazia costruita dagli angeli e proprio per questo chiamata “sacra”.
Sorge sulla cresta del monte Porchiriano, una guglia rocciosa che sembra spuntare dal niente al confine tra la Val Sangone e la Valle di Susa. Il nome del monte è forse una derivazione di “Porcarianus”, monte dei Porci. Qui vicino c’è anche il Capraio, monte delle Capre, e il Musinè, monte degli Asini.
Tutti animali dei Celti, che un tempo abitavano la valle.

Allora, come dice Davide: «Venite a Giaveno, in Val Sangone, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Questa è anche casa vostra!»

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |