10 novembre 2015 - Il chinotto di Finalborgo.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Finalborgo, il paesaggio il Marchesato di Finale. Le coordinate geografiche sono 44°10’ Nord e 8°19’ Est. Mi sveglio presto e metto il caffè sul fuoco. Fuori è ancora buio. Dalla finestra della cucina vedo il faro di Capo Mele. Finale Ligure è ancora più vicinopotrei andarci in bicicletta. È un’idea che dura il tempo della colazione, poi salgo in macchina, imbocco l’autostrada e dopo una manciata di chilometri esco a Feglino.

Bastano un paio di curve per capire come mai i marchesi Del Carretto abbiano scelto di costruire qui le fortificazioni contro i saraceni. La valle è lunga e stretta, gli alvei dell’Aquila e del Prora abbracciano il borgo e formano dei fossati naturali ai piedi delle mura. I boschi sono fittissimi, attraversati da sentieri invisibili: il paradiso di chi corre nella natura e di chi in bicicletta vuole allontanarsi dall’asfalto. A mezza costa, i resti diroccati di Castel Govone sono ancora imponenti. Sbucano chiari e luminosi dallo scuro del bosco. Poco sopra sono le palestre di roccia a farsi largo tra la vegetazione. Ci sono uomini e donne che vengono da tutto il mondo per scalarle, le mani bianche di magnesite e le scarpette due numeri più piccoli per aderire alla roccia. Dal basso li vedi salire come ragni, oppure precipitare nel vuoto appesi a una corda e un moschettone. Altre volte restano immobili a metà strada, né su né giù, con la ghisa nelle braccia. Finalborgo è unica anche per questo. Dentro le mura è uno dei borghi più belli d’Italiama fuori è un misto di selva e mare e roccia. Solo Finalborgo unisce alla storia delle pietre il fascino dei volti. Qui è tutto un via vai di giovani che si ritrovano per fare sport, con le frontali accese di notte e la maglietta anche d’inverno. Il microclima di questa valle è meravigliosamente temperato, ed è alla base della storia di agricoltura che siamo venuti a raccontare.

Davide è già lì che aspetta, davanti alle mura, subito dopo il ponte. Il torrente Aquila scorre asciutto verso il mare. Le campagne di Giacomo – il protagonista della puntata – sono poco più in là. Agrumeti ritagliati ai piedi del bosco: piccoli giardini mediterranei dove sono tornati a crescere rigogliosi i chinotti di Savona. Davide non era mai stato qui. Rimane affascinato dall’atmosfera, misto di luoghi e di persone. Sedia in spalla attraversa il chiostro di Santa Caterina, sfila davanti al palazzo del Tribunale, poi s’infila nei carruggi tra le botteghe e le case antiche. Sui muri sono appoggiate le mountain bike, una sopra l’altra a gruppi di tre o quattro. Non ci sono lucchetti, tanto qui non ruba nessuno. Creature meccaniche vagamente mostruose, con telai in carbonio e gomme artigliate, rinforzi sui manubri che sembrano palchi di cervi.

Davide le guarda ammirato. Poi però dice: «Mia mamma partiva da Bassano del Grappa e andava in bici sui passi delle Alpi Bellunesi con qualunque tempo. Un rapporto solo, freni a bacchetta e ruote lisce». Chissà come si divertirebbe adesso la madre di Davide, qui nel finalese, a pedalare su e giù dalle rocce, saltando sulle radici smosse dai cinghiali.
Intanto Giacomo ci accompagna nella fortezza di Castel San Giovanni, dove pensiamo di girare alcune scene. La strada lastricata per raggiungere il castello parte dal centro abitato e sale per qualche tornante. Massimo – il nostro regista – è affaticato. Per stimolare la respirazione accende una sigaretta. Intanto si è alzata una leggera brezza e il sole è apparso tra le nuvole. Dalle feritoie della fortezza la vista è impagabile, con i raggi di luce che bagnano la valle, si riflettono sulle rocce e si immergono nella vegetazione. Fotosintesi clorofilliana, fabbrica di ossigeno.

Anche Massimo torna a respirare, mentre dall’alto inquadra la valle e i campi di chinotto.
– Sembrano mostriciattoli verdi, – mi dice Giacomo mostrandomi una pianta carica di frutti pronti per essere raccolti. Quando pensiamo a un chinotto maturo lo immaginiamo grosso, morbido e dorato. I chinotti invece si raccolgono piccoli e duriverdi come fossero acerbi. In realtà sono sempre acerbi: impossibili da mangiare crudi. Davide ne assaggia uno e giura che non è vero.
– Sono buonissimi – esclama, mentre fotografo la sua smorfia.

La storia narra che nel Cinquecento qualche anonimo viaggiatore abbia portato dalla Cina questi strani frutti. Il nome chinotto deriva propria da China, ovvero Cina. Chissà per quanto tempo l’uomo primitivo, frugivoro e raccoglitore, ha provato a mangiare i chinotti. Poi qualche genio – laggiù in Oriente – deve aver pensato a cuocerli, qualcun altro a spremerli, dolcificarli, addirittura candirli. Giacomo mi racconta che l’entroterra ligure di Savona e Finale era pieno di chinotti. C’erano le piante e c’era la bevanda, che non piaceva a tutti ma aveva grandi estimatori nei bar di paese. Un gusto adulto un po’ difficile, come il trinciato da fumare senza filtro e il caffè da bere senza zucchero.

Ma la vera fortuna del chinotto è stata la guerra allo scorbuto. Cito a memoria un passaggio di un libro di Bill Bryson, dove l’autore ricorda che tra il Cinquecento e la metà dell’Ottocento sono morti di scorbuto oltre due milioni di marinai: ogni nave, durante una lunga traversata, perdeva circa metà dell’equipaggio. Sempre Bryson annota le cifre di una spedizione navale britannica alla metà del Settecento: dopo tre anni di viaggi e di battaglie, l’equipaggio di duemila uomini aveva perso millequattrocento unità. Di queste, solo quattro uccise dal nemico: il resto dallo scorbuto.

All’inizio del Novecento, anche il nonno di Giacomo vendeva i suoi chinotti in banchina al porto di Savona. Ma un conto è la medicina, un altro la delizia per il palato. Proprio qui nel Ponente ligure tra Savona e Genova, i maestri francesi avevano portato nel XIX secolo l’arte della canditura. Nei nostri frutteti avevano trovato il clima ideale e la qualità di frutta che cercavano. Famiglie come i Besio di Savona e i Romanengo di Genova hanno acquisito le ricette e le conoscenze per fare dei chinotti canditi delle vere eccellenze, cibi preziosi da gustare nelle grandi occasioni. Ma attenzione, solo i veri chinotti di Savona possono essere canditi. Sono profumatissimi, hanno la buccia sottile e sono privi di semi. Piante basse – poco più che arbusti – che temono il vento e il freddo. Sono state fonte di ricchezza fino all’inizio del secolo scorso, quando le gelate degli anni venti e cinquanta hanno distrutto le coltivazioni.

Oggi, Giacomo e pochi altri agricoltori locali hanno deciso di riunirsi per riportare in vita il chinotto di Savona. Hanno fatto la conta delle piante rimaste e stanno lavorando con passione alla rinascita del prodotto simbolo di questa zona. C’è da riscoprire l’arte della canditura e tutta una filiera da rimettere in piedi, dalla coltivazione alla trasformazione. Giacomo lavora con i figli nei campi, mentre le donne di casa – la moglie e la nuora – lavorano in cucina e ripropongono in chiave moderna le antiche ricette di famiglia, fatte di cotture lunghe e prolungate, pochissimo zucchero, niente conservanti, né coloranti né additivi. Oltre al succo puro e al nettare di chinotto, producono anche i canditi al maraschino e marmellate da gustare non solo sul pane ma con il gelato, la ricotta e formaggi ben stagionati.

Mentre Davide e Giacomo inseguono con il palato i piaceri del chinotto, suonano le campane della basilica di San Biagio. È tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Massimo, il regista, accende la telecamera e grida: «Azione!». Davide chiude la sedia e si allontana verso il mare, camminando lungo la bialera d’acqua sorgiva che irriga il campo. Passa accanto a un melo innestato su un pero. Allunga una mano e coglie un frutto. Succoso, dolcissimo.

Venite a Finalborgo, nelle terre del Marchesato; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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