31 ottobre 2013 - I vini sepolti.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia; il paese è Duino Aurisina, il paesaggio quello del Carso.

L’auto di Davide fila veloce sull’autostrada più trafficata d’Italia, l’unica dove i Tir superano in terza corsia. Ansia è la parola giusta. Poi, a un tratto, il finestrino inquadra la duna di Soave. Allungo lo sguardo oltre il vetro che riflette i raggi del sole. Soave è la parola giusta.

Resto incantato, ogni volta che passo di qua. Arriviamo da Beniamino prima di pranzo. Ci accoglie nella sua osmiza, la tipica locanda domestica del Carso segnalata da una frasca. Secondo un calendario ufficiale, per un paio di settimane all’anno, le osmize sono aperte al pubblico e offrono piatti della tradizione come salumi, uova, verdure sott’olio e sottaceto, accompagnati dal vino di casa.
È un’usanza che risale all’Impero Austro-Ungarico, quando ai contadini era stato concesso il diritto di vendere i propri prodotti. Quella di Beniamino adesso è chiusa, ma per gli amici è sempre aperta, con lo spargher, il focolare, acceso al mattino presto e tenuto vivo durante il giorno.

Ci prepara del pesce alla griglia. Lo cucina in un modo che mi pare subito geniale, ponendo il cibo in verticale davanti al fuoco. Così il grasso cola lontano dalla fiamma e non accende le braci. Assaggiamo i suoi grissini fatti in casa, ci bagniamo le labbra con qualche goccia di Terrano e di Vitovska, poi un caffè e Davide sparisce per cambiarsi d’abito.

Si trasforma nel camminatore incallito di Paesi, paesaggi, quel misterioso naturalista di campagna sospeso nel tempo, senza mete da raggiungere; solo passi da compiere e storie da raccontare. Le vigne sono subito lì, affacciate sul mare. I filari sono protetti da massi bianchi di rocce calcaree e circondati da sentieri che si perdono nel fitto del bosco. Siamo nel Carso, nel Kras, come si dice qui, con i piedi appoggiati su una manciata di terra rossa che ricopre grotte e fiumi sotterranei.

In superficie, il Carso è un mondo di colori: le rocce calcaree sono di un bianco abbagliante mentre i boschi sono verde scuro. Sui prati più chiari sono distese migliaia di piante e fiori; spazi aperti e luminosi diventano all’improvviso angoli bui, quasi misteriosi. Il mormorio sommesso del Timavo, il grande fiume sotterraneo, ricorda la Terra prima di Adamo, all’epoca della creazione, quando non c’era nessuno per raccontarla.

Davide si ferma in mezzo al vigneto, posa la sedia e si mette comodo. Ha scelto un punto rialzato per osservare il territorio e capire la sua gente. Ha fatto come Goethe, quando viaggiava in Italia e si accaniva a risalire la creste dei monti o si arrampicava sui campanili per vedere le cose dall’alto.

Davide inforca gli occhiali e racconta la storia di Beniamino, «uno di qui, che alla fine degli anni Ottanta aveva preso in mano il vigneto del padre e si era dedicato a una produzione naturale e biologica, eliminando ogni traccia di chimica».

Beniamino produce la Vitovska, un bianco autoctono macerato sulle bucce con lieviti naturali, che affina in botti di rovere e imbottiglia senza filtrazione. Poi il Terrano, un rosso tipico del Carso, della famiglia del Refosco, un vino molto minerale proprio come la terra su cui cresce, la Terra Rossa, piena di ferro e calcare. Un tempo, veniva usato anche come medicinale proprio perché ricco di ferro. Due grandi vini, cui Beniamino aggiunge una Malvasia tutta speciale, nata in Grecia ma impiantata qui come una vera friulana.

I vigneti di Beniamino sono lavorati con cura maniacale. Noto che i filari sono di un’esatta irregolarità. Scanditi, quasi elencati da pali di legno tagliati in maniera uguale e disuguale al tempo stesso. Vedo le cose, ma non le capisco. Finché non me le spiegano. Beniamino, paziente, mi spiega che pali sono di acacia, l’albero tipico di questi boschi. Si prendono i tronchi più grossi, perché sono i più stagionati, e si spaccano in quattro con l’accetta. Ecco perché sono tutti uguali e disuguali al tempo stesso.

I tracciati dei filari sono progettati sulla carta, ma poi realizzati seguendo le curve della terra, accompagnando le sue incertezze.

«I filari vanno dritti – dice Beniamino – perché la mano dell’uomo è forte; ma con la natura bisogna sempre giungere a dei compromessi». Poi s’inginocchia, scava con le mani e trova subito la pietra. Ancora una volta, Beniamino mi sorprende. Dice che nel Carso le radici della vite possono allungarsi anche dodici metri, facendosi largo tra le rocce alla ricerca di acqua e nutrimento.

Mi guarda, sorride, e come se stesse parlando di una persona aggiunge: «La vite dà il meglio di sé quando soffre un po’…».

Dopo il campo, la cantina. La quiete dell’invecchiamento.

La storia di Beniamino, quella spettacolare, comincia proprio da qui: dall’invecchiamento. Massimo stringe l’inquadratura, Davide inforca gli occhiali, guarda fisso nella telecamera e dice: «Beniamino capisce che la qualità del suo vino non sta solo nel vigneto, ma nella cantina. Allora si guarda sotto i piedi e percepisce la trama di grotte sotterranee, il fiume sommerso di correnti d’aria che si sviluppano sotto la superficie».

Nel 2002 Beniamino inizia a scavare. Ogni pietra che toglie al terreno la rimette a dimora in superficie e continua a scavare fino al 2009. Sette anni, per scendere di venti metri e realizzare una cantina di cinque piani che sembra la scenografia di un film, con un sistema di passerelle sospese e filari di botti di rovere accostate alle pieghe della roccia.

Qui, i vini di Beniamino affinano come altrove sarebbe impossibile. Maturano sottoterra; letteralmente vivono sepolti, e quando tornano alla luce diventano alcuni tra i «migliori vini d’Italia».

Poche bottiglie all’anno. Ma almeno una va bevuta.

Davide dice che «è come andare in Paradiso, dopo essere stati vicino all’Inferno». Ma la cosa che mi colpisce di più della cantina di Beniamino è ancora una volta il terreno. Le botti – qui sotto – poggiano sulla Terra Rossa, come le viti in superficie.

Una finezza, perché il vino ricordi le sue origini.
Davide riempie il calice di Vitovska e lo avvicina alla parete della grotta. Hanno lo stesso colore, la stessa luce viva e brillante. Dice: «Vino su roccia, tono su tono», mentre io osservo la botte da cui Beniamino ha spillato il bianco.

Con il gesso c’è scritta una frase di Mario Soldati: «Il vino è la poesia della terra».

Progettando questa trasmissione, pensavamo proprio a Mario Soldati e al suo Viaggio in Italia. Televisione d’altri tempi, quando gli autori erano scrittori.

Bene, adesso è tempo di andare e tornare in superficie; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Se venite nel Carso, quando vedete una frasca fuori da una casa fermatevi ed entrate. È una osmiza, dove potrete gustare il cibo tradizionale dello spargher, il focolare. Ricordatevi di toccare la Terra Rossa che ricopre le rocce, e provate ad ascoltare il mormorio del Timavo, il fiume che non si vede con gli occhi ma si sente con il cuore.

Allora, come dice Davide: «Venite nel Carso, nel Kras, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Perché questa è anche casa vostra».

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