24 marzo 2015 - I fusilli di Pisa.

Oggi siamo in Toscana. Il paese è Lari, un piccolo borgo medievale immerso nel paesaggio delle colline pisane.Le coordinate geografiche sono 43°33’ Nord e 10°35’ Est.

– Lari il paese più bello del mondo, – mi aveva detto al telefono Dino, il protagonista della puntata.
Avevo sorriso, pensando che tutti gli italiani dicono così del loro paese, soprattutto i toscani.
– Siamo una famiglia di pastai dal 1926, – aveva proseguito. – Viviamo e lavoriamo nel cuore di Lari, di fronte al castello. Da noi si respira un’atmosfera speciale…
– Come un piatto di pasta a mezzogiorno?

Mi era venuta in mente una campagna pubblicitaria della metà degli anni Ottanta, incentrata sul ritorno a casa degli italiani a metà giornata: un popolo intero che lasciava i campi, le fabbriche, gli uffici e le botteghe per sedersi a tavola e mangiare un piatto di pasta.
Era il gusto del mezzogiorno. Chissà, forse a Lari esiste ancora il mezzogiorno, e ha il gusto della pasta.

Arrivo tardi la sera. I miei amici sono ancora a tavola. Tra Davide e Massimo siede una ragazza che non conosco. Mi sorride e mi saluta. Tra la frutta e i dolci c’è un avanzo di pasta al ragù. Mi incarico di finirla. È fredda, ma ottima.
– Hai visto come ha tenuto la cottura? – mi domanda Davide.
– È perfetta…
– È nostra! – esclama la ragazza, con un sorriso luminoso. Le sorrido anch’io; adesso so chi è. Quando ci alziamo, poco dopo, ci diamo appuntamento per l’indomani.

Il mattino seguente, nella casa laboratorio di fronte al castello, si comincia con la preparazione dell’impasto per gli spaghettini. È sabato e non sarebbero in produzione, ma la famiglia di pastai farà un’eccezione per noi. Utilizzano solo acqua e semola di grano duro maremmano.
– Non sapevo che in Maremma si coltivasse grano duro, – chiedo a Laura, la figlia di Dino, la ragazza che ho conosciuto ieri sera.
– È molto buono, perché viene da terreni poco sfruttati…
– Così fate una pasta tutta toscana?
– Un tempo usavamo grano duro canadese, – spiega il padre. – Ma questo nostrano è ancora migliore…
Una vera pasta di casa, fatta in famiglia.

Più tardi, Davide e io usciamo dal pastificio e passeggiamo nel borgo. Forse non è il più bello del mondo, ma certo è suggestivo, circondato di colline e raccolto attorno al suo castello. La struttura è quella medievale classica, con le case strette attorno alla fortezza.
Ciò che sorprende, qui a Lari, sono le dimensioni: tutto è ridotto allo spazio di pochi metri e le prime abitazioni sembrano toccare i mattoni rossi delle mura: un imponente bastione verticale che riflette la luce calda del mattino.
Un caffè e siamo di nuovo in via dei Pastifici, nel vivo della produzione. Gli spaghettini escono dalla trafila in bronzo come ciocche di capelli d’angelo. Dino, Laura, suo fratello Luca e tutti i membri della famiglia li maneggiano come se li stessero accarezzando. Fanno così tutti i giorni, da quasi un secolo: padroni e dipendenti di se stessi, a impastare, trafilare, essiccare e impacchettare pasta.

Il giallo è il colore della famiglia: una divisa, un packaging, un modo di pensare. A me ricorda il sole e il grano; Dino mi spiega invece che è il colore della Toscana, il più distante possibile dal blu dei fogli dove si metteva la pasta quando era venduta sfusa. Il giallo è diventato molto più di un colore per questa famiglia di Lari: una sorta di abito mentale, uno stato d’animo da indossare come un abito su misura.

Oltre agli spaghettini, producono pochi formati, tutti trafilati a bronzo. Ci sono le penne lisce classiche, i maccheroni, gli spaghetti e i fusilli di Pisa, gli ultimi arrivati. Nascono da una ricerca d’archivio e dalla scoperta che nel 1284 un fornaio di Pisa aveva assunto un operaio con la qualifica di pastaio. Non si credeva che nella Toscana del Medio Evo ci fossero pastai. Quello era un lavoro tipico del sud, diffuso in Campania e nella Puglia di Svevi e Angioini. Aver ritrovato un pezzo inatteso della propria storia aveva suggerito a Dino e alla sua famiglia la creazione di un nuovo formato: un omaggio a Pisa e alla Toscana della pasta.
Il fusillo aveva già la forma della torre; loro l’hanno realizzato con sette eliche e un piccolo solco che corre tutt’intorno, come il camminamento del monumento. Una riga che in realtà serve anche a trattenere il sugo e a bilanciare la cottura tra l’esterno e l’interno del fusillo.

Gli spaghettini continuano a uscire dalla trafila e a ondeggiare lievi nell’aria. I pastai di Lari non li tagliano, ma li appoggiano sulle aste di legno come panni al sole. Ogni bacco porta cinque chili di pasta, che vengono poi trasferiti al piano superiore per l’essicazione.
Laura ci mostra questa fase delicata della lavorazione, che per molti aspetti è il cuore della produzione artigianale. Mentre la pasta sale con un montacarichi, noi usiamo una stretta scala. A ogni rampa, la temperatura aumenta fino a raggiungere i trenta gradi. Siamo sudati, l’obiettivo della telecamera bagnato. Trenta gradi sono molti per gli esseri umani, pochissimi per la pasta. L’industria arriva a quasi cento!
«Servono cinquanta ore per un’essiccazione naturale che mantenga intatte le proprietà e il gusto del grano», spiega Davide alla macchina da presa. «Ci vuole tempo per fare le cose per bene, ma poi la differenza si sente tutta nel piatto».

Una volta pronti per il confezionamento, questi spaghettini artigianali non vengono tagliati, ma restano lunghi, semplicemente piegati. Chiedo a Laura e a suo fratello Luca se ci sia un motivo particolare, legato al gusto.
– Siamo toscani, – rispondono loro. – Se tutti li tagliano, noi li pieghiamo. Così la gente capisce che non c’è un’industria dietro…

Dopo pranzo, usciamo per completare le riprese in esterni. Entriamo nel castello dei Vicari, che in questo momento è un po’ ammaccato perché il vento dei giorni scorsi ha divelto una parte del tetto. Saliamo ugualmente e filmiamo Davide che passeggia lungo le mura osservando il paesaggio delle colline pisane, dal mare fino a Volterra. All’interno del cortile ci sono i simboli dei Vicari fiorentini che si sono succeduti dal 1406. Mi fanno notare come nel tempo siano cambiati i fregi e le decorazioni. Più sono semplici e più sono antichi. È una questione di comunicazione: lo stemma era la bandiera del popolo. In battaglia, la divisa segnava lo schieramento di campo: la vittoria dalla sconfitta, la vita dalla morte. Con l’andare del tempo, la politica ha arricchito gli stemmi di scritte, simboli araldici e motti.
Eleganze da salotto, ben lucidate e senza polvere di battaglia.

– Guarda: quella è la torre di Pisa, – mi dice Luca, indicandomi un punto appena più chiaro che si distingue all’orizzonte. Osservo la celebre torre che ha ispirato il nuovo fusillo, laggiù vicino al mare. A occhio nudo la immagino soltanto. Poi mi volto verso l’interno, oltre Volterra. Immagino anche Firenze e Siena, al di là delle coline, e mi viene in mente la leggenda di quei due cavalieri che al canto del gallo erano partiti dalle rispettive mura per incontrarsi nel punto che sarebbe diventato la linea di confine.
Domani saremo proprio nel Chianti, la linea di confine; la terra del gallo nero, tenuto al buio e senza cibo dai fiorentini per cantare prima dell’alba.

Ma questa è un’altra storia. Adesso è tempo di andare, verso nuovi paesi e paesaggi. Venite a Lari, sulle colline pisane; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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