18 marzo 2016 - Biodiversità sulla Via del Sale.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Varzi, il paesaggio la Valle Staffora. Le coordinate geografiche sono 44°49’ Nord e 9°11’ Est.

È mattina presto, guido lentamente nella nebbia. A Tortona esco e imbocco la statale, lasciandomi portare dal navigatore che mi conduce a Rivanazzano. Tra il mercato e il palazzo comunale incontro Davide con il resto della troupe. Parcheggio, prendo gli stivali e monto svelto sulla macchina di Maurizio, il veterinario che ci farà da guida in questa puntata dedicata al recupero delle biodiversità bovine e alla tutela della razza Varzese.

Non mi sfiora neanche l’idea di continuare a guidare nella nebbia dello Staffora. Allaccio la cintura e mi rilasso, in attesa che il sole scaldi la terra e torni tra noi. Direzione Varzi, da qualche parte, là in mezzo.

Varzi è un’antica cittadina di origine romanica, con un centro storico medievale intatto.

Secoli di storia sono racchiusi nei vicoli del borgo, nelle architetture delle chiese e delle dimore feudali. Il paese sorge lungo il declivio della collina che sale dal fiume verso i primi rilievi, oggi imbiancati di neve.

Qui a Varzi giungeva la mitica Via del Sale, scambio continuo di merci e culture. All’imboccatura del ponte sullo Staffora c’è un cartello che indica il sentiero. Bisogna però immaginare una rete di strade di montagna che attraversava tutto il territorio al di qua e al di là dell’Appennino. Da un lato il mare, dall’altro la pianura. Un dedalo di sentieri che partivano dalla Liguria di Ponente e di Levante per poi collegarsi alla strada maestra che proveniva da Genova. I carri dei mercanti e gli asini dei contrabbandieri, che nascondevano il sale nelle botti sotto strati di acciughe, salivano le creuse, attraversavano la linea dei forti e procedevano in direzione Casella e Torriglia. La leggenda vuole che proprio su quelle pietre abbiano camminato le reliquie di sant’Agostino in fuga dai Saraceni. Poi Savignone, Bobbio e infine giù dai monti, verso la grande pianura.

L’antico mercato di Varzi è ancora vivo nella città, disposto su tre livelli coperti da soffitti con le travature in legno e le botteghe oggi utilizzate come cantine per affinare i salumi. Percorriamo questi camminamenti insieme a Davide e alla sua sedia, con il nostro regista e l’operatore che lo inseguono mentre lui si ferma di continuo per ammirare qualche dettaglio. Piccole iscrizioni scolpite nella pietra, edicole votive incassate negli angoli dei palazzi, dipinti a fresco che resistono al tempo, portali in legno e ferro.

Davvero Varzi merita una visita, specie nell’ora di merenda. Vino, formaggi e salumi qui hanno molto da raccontare.

Ma noi siamo venuti per parlare dell’importanza delle biodiversità bovine e della necessità di salvare la razza Varzese, la vacca autoctona fulva con il ciuffo in fronte che era già qui ai tempi di Annibale e che poi ha attraversato i secoli dando latte e carne a ogni fuoco (nell’antica accezione di nucleo famigliare) della valle. Quindi l’estinzione, degli allevatori e delle loro vacche, dovuta non solo al miraggio della città e all’abbandono delle campagne, ma anche alla scelta di animali apparentemente più produttivi e alla crescita di una zootecnia folle e malata.

A poco a poco – dopo lo scandalo della mucca pazza – è riemersa un’idea più antica e sana di allevamento. Tra mille difficoltà, è iniziato un percorso di valorizzazione dell’allevamento bovino, recuperando le caratteristiche specifiche di ogni razza. L’Italia è la terra dei vitelli (dal termine osco Viteliù, appunto terra dei vitelli) e dunque anche delle vacche. Solo che rischiamo di perderle per strada, uccise dall’avidità, dall’ignoranza e dall’inefficienza delle istituzioni. L’Aia – Associazione italiana degli allevatori – è l’organo operativo del Ministero dell’Agricoltura e gestisce la raccolta e la distribuzione del materiale seminale, indispensabile per la salvaguardia delle razze: Varzesi, Cabannine, Burline, Pontremolesi e tante altre. Ma la burocrazia degli uffici sembra non conoscere i tempi degli allevatori e le loro necessità.

Oggi ci occupiamo di Varzesi e raccontiamo due storie che riguardano questo territorio e questi animali, ma la terra dei vitelli è piena di vicende simili.

Il primo allevamento che visitiamo è quello di Lino, un appassionato che ci accoglie con un amico, vestito alla maniera degli antichi briganti, con il mantello di lana cotta e il cappello di feltro. Nel pascolo di fronte alla stalla hanno parcheggiato il carro e il giogo con i finimenti. Armeggiano con quegli oggetti lavorati nel legno e nel cuoio per unire la coppia di vacche e legarle al carro. Riprendiamo una scena che oggi non si vede più. Il veterinario ci chiede una copia del girato, per i suoi studenti. Poi entriamo in stalla; Lino accompagna Davide e la telecamera accanto a una delle sue Varzesi. Spiega che ha aspettato per mesi il materiale seminale, ma alla fine ha dovuto fecondare l’animale con il seme di un’altra razza, perché non poteva tenerla in asciutta forzata a vita.

Poi saliamo in montagna da Daniele, un giovane che ha deciso di costruire la sua fattoria sulla cresta di una roccia. Sembra l’Arca appollaiata sul vertice dell’Ararat dopo il diluvio. Vuole riportare le Varzesi sull’Appennino, dov’erano diffuse fino agli anni Sessanta. Oggi c’è solo lui.

Aveva un bel toro e bisognava prelevare il materiale seminale. L’appuntamento con i tecnici era stato fissato a febbraio del 2015, ma a ottobre non s’era ancora visto nessuno. Un toro ha tempi obbligati di macellazione, altrimenti la sua carne diventa immangiabile e senza valore. Si sono presentati dopo Natale, nel gennaio del 2016, ma il toro di Daniele ovviamente non c’era più. La sua linea genetica era stata persa per sempre. Sembra incredibile, ma è così.

Questi allevatori sono beni culturali viventi, ma la loro sopravvivenza dipende da quella dei loro animali. Mantenere la biodiversità di razze bovine autoctone non è solo una sfida, ma un obbligo morale. Allevatori come Lino e Daniele, che stanno coraggiosamente andando in questa direzione, devono essere accompagnati nelle loro scelte e avere la certezza del potenziale riproduttivo dei loro capi.

La qualità del nostro futuro, ambientale e nutrizionale, passa anche attraverso la costituzione di una rete diffusa di piccoli allevatori e agricoltori. Le tecnologie e le conoscenze per sostenerli non mancano. Occorre la volontà.

«Questa è l’Italia della qualità» esclama Davide al termine del servizio, assaggiando una fetta di toma di Varzese «ma perché sopravviva occorre anche la qualità delle istituzioni!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Varzi e in Valle Staffora; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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