16 dicembre 2014 - A scuola di potatura.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia. Il paese è Capriva del Friuli in Collio, il paesaggio quello del Collio. Le coordinate geografiche sono 45°56’ Nord e 13°30’ Est.
Sembra un gioco di parole: un viaggio in Friuli, nel Collio, a Capriva del Friuli in Collio. Pare una delle “città invisibili” di Calvino: il nome di un luogo capace di nascondersi tra le pieghe della carta geografica.

Eppure questo luogo esiste ed è un posto magnifico, lento susseguirsi di colline cosparse di liane addomesticate. Una foresta di vigne, come un esercito di piante allineate al fronte. Un paesaggio naturale plasmato dalla mano dell’uomo, che ogni anno pota le sue viti per garantirsi continuità di raccolto e controllo dello sviluppo morfologico.

La viticoltura è la ricchezza di questo lembo d’Italia di frontiera, a un passo dal confine slavo. Quasi un’ossessione. Qui si coltiva da sempre la vite, ma proprio qui è nato – recentemente – un nuovo modo di coltivare la vite.
Anche questo sembra un gioco di parole, e invece è la chiave della nostra puntata: il motivo per cui siamo venuti nel Collio a incontrare Marco e la sua squadra di “preparatori d’uva”.

Insieme a Davide, raggiungiamo la cima del Monte Quarin, subito sopra Cormons. Sotto di noi, centocinquanta chilometri quadrati di terra con meno di ventimila abitanti. Boschi, prati e soprattutto vigneti, accarezzati dalle correnti d’aria calda e umida che salgono dal mare e incontrano i venti freddi che scendono dalle montagne. L’Adriatico da un lato e le Alpi dall’altro; in mezzo, le vigne del Collio. Il regno di Marco, il protagonista della puntata. Marco potrebbe a prima vista sembrare il prodotto naturale di questa terra e della sua monocultura: un agronomo specializzato nella cura della vite.

E invece incarna la figura emblematica dello straniero, l’elemento di discontinuità che mette in crisi le certezze della tradizione. La sua storia è esemplare. Cresciuto in campagna, nella piccola azienda agricola dei nonni, fin da bambino si è appassionato al mondo delle piante. Affiora nuovamente Calvino, questa volta dalle pagine del Barone rampante. Come doveva assomigliare a Cosimo il giovane Marco: giornate intere passate sui rami, ad accarezzare cortecce, scavare radici, raccogliere frutti dopo aver osservato lo sciogliersi della brina e il fiorire delle gemme. Le piante parlano, a chi le sa ascoltare. E Marco, per fare conversazione, le disegnava. Interi fogli riempiti di schizzi di tronchi e rami e radici. Tutto per il piacere di capire: osservare i dettagli e ragionare sulle cose.

Poi, una volta cresciuto, è diventato un agronomo e ha cominciato a interessarsi alle tecniche di potatura, senza smettere di disegnare.
Osservando le viti del Collio, la sua attenzione era stata catturata dalle ferite provocate dalle potature. Non si creda che chiamare “ferite” quei tagli sia un vezzo letterario-ambientalista. Sentite cosa scriveva duemila anni fa nel De re rustica Lucio Giunio Moderato Columella, l’agronomo romano coevo di Cristo. La traduzione è tratta da un manuale d’agricoltura d’inizio Ottocento: Le braccia della vite, rivolte a settentrione, debbono ricevere il meno che si potrà di ferite, specialmente se si potano con i primi freddi, per i quali s’abbrostiscono le cicatrici…

Marco prese alcuni tronchi di viti morte e altri di piante sofferenti, li portò in falegnameria e li sezionò. Eseguì delle vere e proprie autopsie per vedere ciò che si nascondeva all’interno delle piante. Scoprì che dietro le cicatrici, il legno moriva. E che più profondi e ripetuti erano i tagli, maggiori erano le porzioni essiccate.

In altri termini: il viticoltore pota la vite per farla vivere, invece rischia di indebolirla fino a farla morire.
Quello è stato l’inizio di tutto. Me lo immagino, Marco con la sua camicia a quadri come quella del nonno, i disegni sotto il braccio e nella sacca i tronchi di vite sezionati. Le sue autopsie, portate sulle cattedre dei docenti universitari e nelle cantine dei viticoltori.

La sua idea era semplice: mettere a punto una nuova tecnica di potatura che rispettasse le forme delle piante e permettesse di controllarne lo sviluppo senza interrompere il flusso linfatico.
Non erano in molti ad ascoltarlo. Soprattutto i docenti. Per convincerli delle sue idee, Marco doveva innanzitutto convincere se stesso: studiare a fondo la questione, leggere i libri e osservare gli antichi vigneti, per capire le ragioni della loro longevità. Zaino in spalla, per alcuni anni Marco si è dedicato a studiare e a viaggiare. Poi, a poco a poco, anche sperimentare.

Mi parla con molto affetto e gratitudine di Mario Schioppetto, un grande viticoltore del Collio che lo ha incoraggiato a perseverare nel lavoro e che gli ha affidato alcuni filari delle sue vigne. A poco a poco, le fantasie hanno preso forma e sono diventate saperi da condividere. È nata una scuola di potatura che oggi è anche un centro di pensiero, dove prendono forma idee che dalla terra vanno alla scuola e dalla scuola tornano alla terra. Ogni passaggio è un arricchimento culturale, per chi insegna e per chi apprende. L’unica regola è l’apertura mentale: la disponibilità a osservare e a porsi domande.

Pratica e ricerca procedono di pari passi, alimentandosi a vicenda.
– Le piante sono come noi, – dice Marco. – Sono tutte diverse e devono essere trattate in modi diversi. Se non si rispettano queste differenze, si uccidono i vigneti. Si abbassa la qualità delle produzioni e si alzano i costi per il rinnovo degli impianti.

Angelo Gaja è stato uno dei primi viticoltori in Italia a chiamare Marco e i suoi preparatori d’uva. Da allora, la squadra di potatori in camicia a quadri è diventata un punto di riferimento per la viticoltura di qualità in tutta Europa e in molti paesi del mondo. Alcuni tra i più celebri vignaioli francesi, chiamano oggi Marco e i suoi collaboratori a lavorare nelle loro vigne.

Certo, è una grande soddisfazione vedere che il nostro sapere artigiano fa scuola nel mondo, anche in Francia. Ed è curioso osservare che proprio i francesi possedevano già quel sapere e lo avevano smarrito nel tempo. Ucciso dalla modernità, come il ramo di una pianta essiccato da una potatura eccessiva.

In una libreria di Bordeaux, qualche anno fa, Marco aveva infatti scovato un libro del 1921 scritto da René Lafon. Nel testo, l’autore riportava il pensiero di Poussart, un agronomo e viticoltore francese che già nell’Ottocento aveva sviluppato un sistema di potatura basato sull’analisi morfologica delle piante ed eseguito in modo da non interrompere il flusso linfatico per non causare il disseccamento interno.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Lasciamo Marco e i suoi preparatori d’uva nelle vigne di Capriva del Friuli in Collio. Davide sale in macchina e si siede accanto a me. Prende un foglio che aveva tenuto in tasca per tutta la giornata. È un suo appunto tratto dal De re rustica di Columella:
ogni volta che il vignaiolo intraprenderà il lavoro di potatura, tre cose guardi principalmente: la prima, di provvedere più che può al prodotto, la seconda di scegliere subito per l’anno a venire i tralci più prosperosi, la terza…

La voce del mio amico si perde nella notte, mentre le sue parole si confondono con le gocce di pioggia che rimbalzano sui vetri della macchina.
Venite nel Collio, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |