IL SIGNOR CHICCO
La vita straordinaria di un uomo qualunque
Silvana Ed., 2011

La storia esemplare di Pietro Catelli, fondatore del Gruppo Chicco Artsana: un uomo che è diventato grande restando bambino, capace di crescere seminando chicchi di felicità.

Dietro il marchio Chicco, la vicenda di un uomo di umili origini che con grande impegno, geniali intuizioni e molta perseveranza, ha saputo dare vita a una grande realtà industriale affermata in tutto il mondo.
L’avventura umana e imprenditoriale di Pietro Catelli, cominciata con la drammatica morte della madre quando aveva solo sette anni fino alla creazione del Museo del Cavallo Giocattolo, come ultimo tributo ai bambini e al loro diritto di giocare per crescere sani. E poi gli stabilimenti, i viaggi per il mondo, l’idea del packaging specializzato, l’invenzione di nuovi prodotti, la nomina a Cavaliere del Lavoro, la beneficenza e gli affetti famigliari.

***

Gennaio 2006. Un anticiclone atlantico si sposta verso nord mentre sull’Europa si consolida una profonda depressione. Il minimo barico richiama correnti artiche e provoca la discesa di imponenti masse d’aria fredda verso i Balcani e il Mediterraneo. Su tutta l’Italia settentrionale splende il sole, ma fa molto freddo.
A Como, i vecchi si rifugiano nelle osterie e dicono “l’è rivaa l’invern…” mentre i bambini giocano sul lungolago. Il 25 gennaio i primi refoli di vento arrivano dalle montagne della Valsassina e della Val Brembana, raggiungono il lago e increspano il pelo dell’acqua da Colico a Bellagio; poi s’infilano nel ramo del lago di Como e accarezzano Villa d’Este da un lato, le azalee di villa Catelli dall’altro. Proseguono fin dentro la città, agitando le acque dell’imbarcadero. La gente intirizzita si ferma volentieri al bar Monti a bere qualcosa di caldo. In quello stesso caffè, ogni mattina Pietro Catelli faceva colazione con un cappuccino bollente che beveva tutto d’un fiato. Solo lui ci riusciva, in estate come in inverno.
Subito dietro c’è la piazza del Duomo, dove due vecchi passeggiano con i cani al guinzaglio. Uno dei due dice:
– L’è frech…
L’altro sorride mentre accarezza il cane, poi alza gli occhi verso il cielo ancora limpido. Sembra cogliere segnali invisibili. Annuisce e aggiunge:
– Sta arrivando la neve…
Nella notte la temperatura scende a meno dieci; il mattino di giovedì 26 gennaio il cielo è coperto e il termometro rimane sotto lo zero. Il vecchio comasco aveva ragione. Verso le otto iniziano a cadere i primi fiocchi di neve. All’inizio sparsi, quasi timidi. Volano lievi e stentano a posarsi a terra, come se gradissero rimanere sospesi nell’aria. Poi si decidono a scendere, attratti dal gelo che già avvolge le strade, le case, le macchine, i rami degli alberi. A mezzogiorno la città è imbiancata. Pochi centimetri, ma i ragazzi che escono da scuola esultano e tornano a casa giocando a palle di neve.
Nel pomeriggio la situazione peggiora, i fiocchi si allargano e l’accumulo di neve aumenta a vista d’occhio. In serata i primi ghiaccioli cominciano a penzolare dai paraurti delle auto e dalle ringhiere dei balconi. Nella notte la nevicata continua incessante e assume proporzioni eccezionali. I fiocchi, leggeri e asciutti, si attaccano ovunque; illuminati dalle luci dei lampioni assomigliano a tanti lumini, alla polvere di stelle che si sparge nel cielo dopo i fuochi d’artificio. Gli spazzaneve non reggono il ritmo della nevicata che procede, senza sosta, al passo di due centimetri all’ora.
Il paesaggio diventa magico. Un cielo rossastro fa da sfondo al paese che sembra illuminato a giorno. Ovunque regna il silenzio. La coltre di neve ha messo a tacere gli uomini e le macchine. Solo ogni tanto, nella notte, si sente il rumore sordo di qualche ramo che si spezza sotto il peso della neve.

Il 27 gennaio la bufera è ancora molto intensa. Le scuole sono chiuse, la gente non va al lavoro. Le macchine sono bloccate ai margini delle strade, gli aerei fermi sulle piste, i battelli saldamente aggrappati alle banchine. Chi cerca di mettersi in viaggio rimane intrappolato nel ghiaccio. Un camion si ferma davanti al passaggio a livello della ferrovia per Milano. Quando la sbarra si alza, non riesce più a ripartire. Si intraversa e pattina rabbiosamente sull’asfalto coperto da uno strato compatto di neve e ghiaccio. Arrivano i soccorsi, ma il camion rimane lì, incapace di muoversi. In città la quiete è rotta solo dalle grida dei ragazzi che giocano con gli slittini e dal suono regolare dei badili che rimuovono la neve accumulata davanti ai cancelli delle case. Nel pomeriggio di venerdì 27 gennaio, dopo due giorni ininterrotti di tormenta, il clima comincia a migliorare. In piazza del Duomo, dove tra pochi minuti si svolgerà la messa in suffragio di Pietro Catelli, c’è più di mezzo metro di neve.

La forza immensa e tenace della natura che ha scosso Como e il suo territorio proprio in questi giorni, sembra aver voluto dare un estremo saluto a Pietro Catelli. Un uomo che nel corso della sua vita ha saputo essere altrettanto forte e tenace, capace di andare contro ogni difficoltà e procedere verso i propri traguardi senza pause o incertezze, convinto che la grandiosità dei risultati nasca da una serie infinita di piccoli passi. Come la neve: minuscoli cristalli di ghiaccio che si depositano compatti sulle cose cambiandone il volto e modificando l’immagine della realtà. Il vecchio comasco che aveva previsto l’arrivo della neve passeggia anche oggi in piazza del Duomo con il suo cane. Calza stivali da campagna e indossa una pesante giacca a vento con il bavero rialzato. Non partecipa al rito funebre ma assiste al lento e continuo affluire di gente. Anche questo è uno spettacolo che riempie il cuore. Centinaia di persone sono arrivate da Como e dalla provincia, da Milano e dalla Lombardia, dal resto d’Italia e del mondo. Tutti hanno voluto esserci. La loro volontà è stata più forte delle difficoltà atmosferiche, solo apparentemente insuperabili. Un collaboratore indiano è riuscito addirittura a portare dall’oriente un furgone carico di fiori. Sull’altare però ci sono solo due semplici composizioni di rose e orchidee bianche. Pietro voleva essere ricordato con un’offerta destinata al sostegno dei giovani e delle famiglie in difficoltà, ma quei fiori – così semplici e al tempo stesso così ricchi di significati – rendono più lieve il ricordo della persona cara e il momento dell’ultimo saluto.

Durante le vacanze di Natale, poco prima di spegnersi, Pietro Catelli aveva ricevuto nella sua casa di viale Geno i figli e i più stretti collaboratori. Avevano parlato del lavoro, dell’azienda, dei nuovi progetti; lui aveva ascoltato le loro parole con attenzione ed era stato lucido, brillante, partecipativo. Poi a un tratto aveva chiuso gli occhi e poggiando la testa sullo schienale della sua poltrona in pelle aveva mormorato, quasi a se stesso:
– Peccato.
Poi era rimasto in silenzio, lasciando che nell’eco di quella sola parola vibrasse tutto il rammarico per una fine imminente. Indesiderata.
Le tre navate del Duomo di Como sono colme di persone. Una folla composta, silenziosa, attenta. Fuori i ragazzi hanno realizzato un grande pupazzo di neve e giocano. Ma non disturbano, ricordano che la vita è anche gioia. Un anziano dipendente della Chicco si avvicina a Michele Catelli, uno dei tre figli di Pietro, e gli dice:
– E’ lui che ha fatto nevicare così forte, per farci stare in ditta a lavorare…
Michele sorride. Sfiora con le dita il collo del cappotto che era stato di suo padre. Gli si avvicina il fratello Enrico, mentre da una porta laterale entrano la madre Licia e la sorella Francesca. I familiari siedono in prima fila. Dietro di loro si dispone la famiglia allargata del lavoro: un universo di affetti, idee, speranze e valori condivisi. Dirigenti e semplici operai, tutti uguali di fronte al ricordo di Pietro Catelli, il capo che li aveva sempre considerati tutti ugualmente importanti.
Le parole del vescovo lo ricordano come una persona semplice che «non amava mettersi in mostra, non si esaltava per essere diventato Cavaliere del Lavoro, non si esponeva alla luce dei riflettori e non umiliava nessuno con la propria posizione sociale ma anzi si vantava di essersi fatto dal niente». Pietro era fiero delle sue origini umili, quasi a ricordare a se stesso che la forza degli esseri umani è nelle loro radici. Da piccolo aveva avuto molto poco; mai un gioco, pochi vestiti e cibo scarso. Però aveva ricevuto molti insegnamenti, dalla madre soprattutto, e tutti quei valori che lo avrebbero guidato nel corso della vita. Da bambino aveva imparato a guardare dentro se stesso; aveva capito come scoprire il proprio talento, superare le debolezze e guardare sempre avanti, procedendo con una serie infinta di piccoli passi.
Passi puliti, come i fiocchi di neve che imbiancano Como mentre il vescovo benedice la folla che nonostante la bufera ha scelto di radunarsi attorno a lui. Una massa indistinta di gente che esprime una profonda tensione emotiva e forma l’immagine di squadra compatta e coesa, cui nulla è impossibile. Tante persone, tanti destini uniti da un solo, grande progetto comune.

Una storia esemplare, cominciata nel 1920 sulla frontiera di Monte Olimpino, tra la ferrovia e il cimitero. Enrico Catelli, padre di Pietro, era un impiegato delle linee svizzere; la madre Filomena vendeva i crisantemi di fronte all’ingresso del cimitero dove oggi il Cavaliere riposa.
Una storia di frontiera, cominciata appunto in bilico tra l’Italia e la Svizzera e proseguita rimbalzando da Como al mondo, anticipando di molti decenni quei concetti di localizzazione e globalizzazione che avrebbero poi caratterizzato gli anni Duemila. Pietro Catelli era già alla metà del Novecento un imprenditore che non dimenticava mai dove affondavano le sue radici, ma che sapeva volare alto, alla ricerca dei più rigogliosi rami dell’innovazione. Un uomo con un naturale talento per la ricerca delle idee; infaticabile esploratore di territori nuovi ma al tempo stesso irriducibile frequentatore delle sue terre, della sua casa, dei volti e dei sapori di sempre.


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