29 gennaio 2014 - Una bottiglia di Venezia Nativa

La sera dell’epifania, Davide ha imbracciato la sedia con le corna di renna e si è seduto tra Ezio e Michelle. Insieme a loro ha lanciato uno dei servizi più interessanti di tutta la stagione di “Paesi, paesaggi”, dedicato alla Venezia Nativa e al recupero della Dorona, il suo vitigno autoctono.

Davide sulla sedia con le corna di renna, tra Ezio e Michelle.

Il paese è in realtà un’isola; il paesaggio uno scenario storico e culturale prima che geografico. Inizia il racconto di un viaggio nel tempo, verso le isole della laguna di millecinquecento anni fa.

Dopo aver parcheggiato le macchine nell’imbarcadero di Cà Noghera, siamo saliti in barca. Quando abbiamo mollato gli ormeggi era già buio. Procedevamo lentamente, sfiorando i canneti che costeggiavano i canali. In alto, nel cielo, le stelle sembravano lanterne sospese che indicavano la via a chi sapeva leggere rotte nascoste.

Siamo arrivati a Mazzorbo, dove ci aspettava Gianluca, il viticoltore che ha scoperto la Dorona. Ci ha raccontato di Mazzorbo, Burano, Murano e Torcello; di antichi prati fioriti, ortaggi e alberi da frutta. Ci ha parlato delle popolazioni di Antino, in fuga dai barbari, che avevano lasciato tutto sulla terraferma e avevano trovato molto di più sulle isole: acque pescose e acini d’uva ambrati come gocce d’oro.
L’anima agricola di Venezia è nata molto prima di quella commerciale; i suoi campi prima dei monumenti!

Qualche anno fa, uscendo dalla basilica di Torcello, Gianluca aveva notato nel terreno di una sua conoscente un vitigno molto particolare, quasi sommerso da altre uve. Una pianta con una foglia diversa da tutte, con due ali arricciate e due incavi profondi come occhi. Sembrava una maschera.
“Questa è antica,” gli aveva confidato la signora. “È il vitigno autoctono di Venezia!”

Gianluca nel campo di Dorona.

Gianluca aveva cominciato allora a ricercare, sui libri e nei campi, scoprendo che quel vitigno si chiamava Dorona, che era stato coltivato fin dal primo Medioevo e che era poi diventato il vino dei dogi. Aveva intuito però che quel vitigno era conosciuto già dalla popolazione nativa, da quella comunità di agricoltori, artisti e artigiani che aveva abitato le isole di Venezia prima che Venezia nascesse.

Tracce di Dorona erano sparse nei terreni della laguna. Poche piante abbandonate allo scorrere del tempo, come tenute in vita dal caso. Gianluca cominciò a realizzare una serie di micro-vinificazioni e si rese conto delle straordinarie caratteristiche di un vino bianco che aveva la forza di un grande rosso. Corpo e carattere solidi, invecchiati dal tempo e maturati al sole dell’esperienza.

Notò però che la qualità del vino tendeva a peggiorare a mano a mano che ci si allontanava dalla terraferma. Il terreno della Venezia Nativa è infatti un equilibrio generoso – ma precario – di sabbia e fango. Basta poco perché il sogno svanisca.

Nell’isola di Mazzorbo, Gianluca coltiva la Dorona in un ettaro di terreno vocato, all’interno dell’orto murato di Santa Caterina. Solo trenta quintali d’uva all’anno, perché le caratteristiche uniche della pianta si concentrino in pochi acini. Poi lascia macerare il mosto sulle bucce per oltre un mese e lo affina in botti di rovere per almeno due anni.
Una bottiglia di Dorona può vivere anche trenta o quarant’anni!
Una bottiglia senza etichette, eppure inconfondibile, con una foglia d’oro zecchino battuto a mano e fuso nelle vetrerie di Murano.

Vino, oro e vetro: tutta Venezia racchiusa in una bottiglia!

Bottiglie di Dorona nell’orto murato di Santa Caterina.

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