Archive for giugno, 2016

San Benedetto. Un lungo sorso di freschezza.

Venerdì 10 giugno 2016 presso il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano ho partecipato all’inaugurazione della mostra sui 60 anni di San Benedetto e alla presentazione del libro che ho scritto per Mondadori.

Sul palco sono con Enrico Zoppas (presidente San Benedetto), Stefano Peccatori (direttore generale Mondadori) e Nicola Porro (giornalista) che ha moderato il dibattito.

Abbiamo raccontato la storia di un’azienda che ha costruito la propria leadership sull’innovazione e il rispetto per l’ambiente.

Ho parlato di un bel libro che ho avuto il piacere di scrivere. Auguri San Benedetto!

Da sinistra: Nicola Porro, Luca Masia, Enrico Zoppas, Stefano Peccatori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il libro s’intravede sullo schermo e in primo piano tra le mani di Nicola Porro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le terre d’acqua del riso.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Vercelli, il paesaggio le terre d’acqua del riso. Le coordinate geografiche sono 45°19’ Nord e 8°25’ Est.

Vercelli è una città di origini antichissime, addirittura celtiche, ma è conosciuta in tutto il mondo per la produzione di riso. Questo paesaggio unico al mondo è stato modellato dalla fatica e dall’ingegno degli uomini che hanno realizzato il mare a quadretti delle nostre risaie: migliaia d’ettari di terreno allagati d’acqua in continuo scorrimento e sommersione.

Arriviamo al mattino presto in piazza Cavour. Giusto il tempo di un caffè nello storico bar del centro e apriamo la valigetta del drone. Massimo – il nostro regista – ha in mente una sequenza molto particolare per presentare al pubblico il primo protagonista della puntata: Camillo Benso, conte di Cavour. La piazza è ancora deserta. Qualche ragazzo cammina lentamente verso la scuola con lo zaino sulle spalle e sbircia con discrezione le nostre azioni. Un paio di anziani si avvicinano spingendo la bicicletta. Riconoscono Davide e gli fanno i complimenti per la trasmissione, mentre il piccolo drone spicca il volo e sale altissimo sulla città. Poi l’operatore lo fa scendere rapidamente e come un rapace gli fa descrivere una serie di cerchi concentrici attorno alla statua di Cavour. Quando l’apparecchio è all’altezza del volto del conte, entra in campo Davide con la sedia in spalla.

«Vi presento Cavour, – dice il nostro inviato, – che alla metà dell’Ottocento diede un impulso straordinario a questo territorio».

Siamo nella più vasta area di produzione del riso in Europa. Qui l’acqua è al centro della comunità. Cavour potenziò con un’opera colossale la rete d’irrigazione che era stata iniziata addirittura nel Trecento. Il Canale Cavour è lungo 90 chilometri, nasce nel Po e sfocia nel Ticino, prende l’acqua dalle sorgenti, la porta nelle risaie e la restituisce ai fiumi. Un sistema complesso di ingegneria, idraulica, meccanica, ma anche passione ed esperienza.

Per comprendere il senso di questo immenso progetto, dobbiamo risalire alle sue origini. Lasciamo quindi la città e ci dirigiamo verso Chivasso, dove sorge la monumentale presa del canale. L’edificio in mattoni rossi assomiglia a una centrale idroelettrica valdostana, con una lunga serie di paratie comandate da un articolato sistema idraulico.

«Ecco, qui mi sento come a casa!» esclama Davide, posando la sedia sul prato a lato dell’argine, con il basso continuo dell’acqua che mormora accanto a lui.

Con noi c’è Ottavio. È il presidente dell’Associazione di irrigazione Ovest Sesia, ma è anche un agricoltore che si dedica fin da bambino alla coltivazione del riso. La sua famiglia vive con i piedi nell’acqua da quattro generazioni. Conosce ogni metro di questa terra anfibia. La sua storia racchiude l’unicità del territorio, dove l’acqua è un bene comune che viene gestito direttamente dagli agricoltori. Insieme a lui torniamo nella sede dell’Associazione di irrigazione a Vercelli, dove nacque per la prima volta nella storia una società di gestione delle acque governata dagli agricoltori.

Il 7 maggio 1853, il conte Cavour – allora presidente del Consiglio – presentò alla Camera il progetto di legge costitutivo dell’associazione di tutti i proprietari dei beni rurali a ovest del Sesia. Concluse il suo discorso con queste parole:

«L’esperimento a cui prendono parte 3500 agricoltori riuniti in associazione, voi dovete approvarlo, non solo in vista dei vantaggi economici e finanziari che esso reca, ma altresì perché è un grande fatto, un fatto nuovo, non solo in questo paese, ma oserei dire in tutta Europa, atteso che questa sarebbe la più larga applicazione dello spirito di associazione che si sia fatto in agricoltura..»

Ma come era nata l’idea di costruire il canale? La pianura sembrava piatta a tutti tranne che a un agricoltore colto e sapiente, coraggioso e determinato. Si chiamava Francesco Rossi ed era il fattore di Cavour. A proprie spese, per quattro anni, misurò palmo a palmo il territorio e scoprì che tra il Po e l’incrocio con il Sesia esisteva un dislivello di 24 metri e 80 centimetri. Un’inezia, capace di portare nelle risaie 100.000 litri d’acqua al secondo. Il Canale Cavour alimenta un sistema di irrigazione senza eguali in Europa. Oltre 9000 chilometri nel solo vercellese, con milioni di metri cubi d’acqua in continuo movimento, governati da un centinaio di acquaioli che regolano ogni giorno i flussi per dare l’acqua che serve a chi serve e dove serve, a seconda delle necessità di ciascun agricoltore.

Il canale Cavour sfrutta quella pendenza ed è stato realizzato a braccia e badile in soli tre anni, da 15.000 uomini che hanno costruito anche ponti, strade, canali, edifici. Meno di tre anni e una fatica incalcolabile per creare una delle principali infrastrutture idrauliche in Italia e in Europa.

L’Associazione di irrigazione riunisce oggi 4000 aziende agricole disseminate su 100.000 ettari di terreno. I canali si aprono a marzo e restano in attività fino a settembre. Un sistema affascinante e complesso, che richiede una continua regolazione del flusso delle acque; la ricerca di un equilibrio dinamico, in un ambiente grandioso, creato dall’uomo in accordo con la natura.

Nell’acqua delle risaie, il seme cresce come in un grembo materno. Ottavio è anche presidente di una cooperativa sardo-piemontese di risicoltori. Una realtà d’eccellenza, nata nel 1978 come centro di studio e selezione delle sementi. Quasi quarant’anni di attività hanno portato alla creazione di nuovi risi italiani – no OGM – di altissima qualità, che garantiscono maggiore resistenza naturale alle malattie, massima produttività e rispetto dell’ambiente. Ogni chicco racchiude un patrimonio di conoscenze e la garanzia di un riso nato, coltivato, lavorato e confezionato esclusivamente in Italia.

L’ultima tappa del nostro viaggio è dunque alla scoperta di questi nuovi risi italiani e del loro sapore. Il luogo giusto è la cucina dei fratelli Costardi, i giovani chef stellati che hanno reinventato l’insalata mediterranea di riso in una lattina simile a quella della zuppa Campbell, opportunamente rivisitata e personalizzata.

Venere nero ed Ermes rosso sono gli integrali aromatici, ideali in cucina nelle più diverse preparazioni, anche le più creative. Apollo è la risposta agli esotici Basmati e Jasmine; poi Cerere e Carnise, speciali per i risotti. Ogni esigenza alimentare ha il proprio riso; ogni ricetta diventa possibile e porta sulla tavola un mondo di sapori, salute e nutrimento, naturalmente senza glutine.

«Pensate che il riso è il cereale che sfama più della metà della popolazione mondiale, – conclude Davide, – e noi italiani siamo i primi produttori europei. Questa è l’Italia della qualità!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Vercelli, nella terra del riso; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le capre camosciate del Monferrato.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Capriglio, il paesaggio le colline del Monferrato. Le coordinate geografiche sono 45° Nord e 8° Est.

Ci troviamo a meno di trenta chilometri da Asti, in un piccolo borgo circondato di colline, boschi e corsi d’acqua. È la prima volta – in tre stagioni di Paesi, paesaggi – che capitiamo in un luogo dalle coordinate geografiche così esatte. Niente minuti primi né decimali, solo gradi: quarantacinque gradi Nord e otto gradi Est. Siamo esattamente tra il Polo Nord e l’Equatore: il punto d’equilibrio dove un paio di secoli fa è vissuto don Bosco.

Iniziamo le riprese proprio visitando il museo di mamma Margherita, la madre di don Giovanni Bosco, nato nel 1815 in un paesino qui accanto. L’ex sindaco di Capriglio lo custodisce con cura, come un gioiello di storia della comunità. La vita di don Bosco e di sua madre sono esemplari: racchiudono tanti scorci delle nostre radici contadine. Storie di tenace determinazione e paziente sopportazione. Margherita era una giovane donna, rimasta presto vedova, capace di coltivare campi e allevare figli, incoraggiare vocazioni e fortificare personalità. Nel museo di Capriglio ci sono gli oggetti quotidiani di don Bosco, addirittura il suo banco di scuola, dove Davide ha l’onore di sedersi per un istante; poi i libri di studio, gli abiti religiosi e tante immagini, sue e dei suoi ragazzi, dei compaesani, delle tante vite che ha incrociato nel corso della sua infaticabile esistenza.

Un vita ostinata, sempre in salita; ma superata di slancio, con il passo agile e funambolico delle capre. In effetti, il nome Capriglio deriva dal latino Capriliumluogo delle capre.

– Ed è proprio un gregge di capre camosciate alpine che siamo venuti a incontrare! – esclama Davide poco prima di lasciare il museo di mamma Margherita e mettersi in cammino verso la fattoria di Paolo e Daniela, i protagonisti della puntata.

Su un’altura appena accennata, ci attende questa giovane coppia che dopo anni di vita in città ha scelto di trasferirsi in campagna. Un passaggio graduale, condotto anch’esso con passo morbido. Un movimento ostinato e lieve come quello delle capre, sull’orlo dei precipizi d’alta quota. All’inizio hanno solo cambiato residenza, poi hanno acquistato – in maniera del tutto casuale – una coppia di capre camosciate alpine. Si chiamavano Robiola e Osella. Dovevano diventare animali da giardino e sono stati l’inizio di tutto.

Robiola e Osella aspettavano i cuccioli, ma i nuovi proprietari non lo sapevano. Le capre li hanno messi al mondo e a poco a poco hanno trasformato Paolo e Daniela in allevatori. Il terreno permetteva la costruzione della stalla, c’era spazio per il pascolo e anche un’area dove aprire un caseificio. E così, l’entusiasmo, la passione e la tenacia hanno portato Paolo e Daniela a realizzare un allevamento modello con oltre cinquanta capre camosciate alpine. Sono animali bellissimi, robusti, frugali, docili e eccellenti produttori di un latte molto apprezzato. La camosciata delle Alpi è originaria della Svizzera e si è diffusa in tanti paesi europei. In Italia si alleva nelle regioni del nord e il suo mantello bruno la rende molto simile al camoscio.

Entriamo nella stalla prima che il gregge esca al pascolo. I primi esemplari che ci vengono incontro sono proprio Robiola e Osella, il mantello ingrigito dagli anni ma l’occhio sempre vigile e attento. Osella sembra il cane di Paolo: lui la chiama e lei arriva, qualunque cosa stia facendo. Il resto del gregge la segue. Nel corso delle riprese, le capre hanno circondato Davide d’affetto, gli hanno tolto la sedia, l’hanno fatta cadere, hanno rosicchiato il sedile. Osella sempre in testa e il gregge dietro. Noi di lato a filmare, non solo per Paesi, paesaggi ma anche per Paperissima.

Queste camosciate alpine producono una decina di quintali di latte per ciclo di lattazione e hanno a disposizione due ettari di pascolo. Paolo le nutre solo con l’erba dei prati e il fieno del campo che difende dalle incursioni dei cinghiali. Poi, insieme a Daniela, lavora tutti i giorni circa duecento litri di latte munto alla sera e alla mattina. Il latte di capra è molto più magro e digeribile di quello vaccino, con un basso contenuto di colesterolo e un alto apporto di vitamine e sali minerali. Già prima di lasciare la città, Paolo e Daniela amavano i formaggi di capra. Così, realizzare un piccolo caseificio e cominciare a lavorare il latte di casa è stato un passaggio quasi obbligato.

Un mestiere difficile, quello del casaro, che s’impara con il tempo e si affina con l’esperienza. Ma Paolo e Daniela devono avere un talento naturale. Un po’ di studio, un po’ di esperimenti e tanto lavoro. Oggi, sono tra i migliori produttori di formaggi caprini. Pochi giorni prima di registrare la puntata, hanno vinto un prestigioso premio a Milano, misurandosi con decine di concorrenti provenienti da tutta Italia. Gente che lavora da generazioni. Li hanno battuti con la semplicità, la freschezza, la genuinità. E con quel tocco di personalità che viene dalle loro storie individuali, dalle motivazioni che – nonostante i sacrifici – ricavano dall’attività che si sono tagliati su misura.

Paolo e Daniela producono pochi formaggi, con alcune varianti nel corso dell’anno. Impiegano solo latte crudo, caglio di vitello, sale e fermenti naturali; nessun trattamento termico, nessun conservante, nessun additivo chimico.

Il Caprazola è un erborinato dolce e cremoso, con venature verdi e azzurre. Il procedimento per ottenere questo formaggio è lungo e laborioso. La pasta è morbida, quasi si scioglie in bocca; la cremosità accentuata, il sapore intenso.

La toma che chiamano semplicemente Fresco, è prodotta con l’innesto dei fermenti al latte del mattino, prima di aggiungere il latte della sera e una minima quantità di caglio. La coagulazione è lentissima e termina il mattino seguente, quando la cagliata viene estratta, sgocciolata e messa in forma, poi rivoltata numerose volte e salata a mano.

La Cremosa è un affinamento del Fresco che viene fatto stagionare per un paio di settimane. Il processo naturale di proteolisi provoca il distacco della crosta e la formazione di una crema dolcissima, che in bocca è un esplosione di sapori. Davvero un concentrato di erbe e fiori dei pascoli di queste colline.

Lo Stagionato è invece un formaggio a crosta lavata con un particolare processo di produzione che culmina con l’immersione in una speciale salamoia. Un caprino che sa poco di capra e piace veramente a tutti. Infine il Cravot, un formaggio fresco lavorato allo straccio. La cagliata viene messa a sgocciolare in un telo fino al giorno seguente, poi salata a mano e lavorata fino a ottenere una pasta molto morbida, leggermente acida e aromatica.

– Pochi formaggi, unici come i loro creatori – esclama Davide davanti alla macchina da presa. – Ogni artigiano è unico; questi formaggi possono realizzarli solo Paolo e Daniela, con il latte delle loro capre nutrite con l’erba dei loro pascoli.

Solo qui, sulle colline di don Bosco: a quarantacinque gradi Nord e otto gradi Est. Questa è l’Italia della qualità.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Capriglio, nel Monferrato; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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