Archive for aprile, 2016

Le arance fatte a mano.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Ribera, il paesaggio la costa degli aranceti. Le coordinate geografiche sono 37°30’ Nord e 13°16’ Est.

Atterro in serata all’aeroporto di Palermo. Raggiungo l’uscita e mi ritrovo all’aperto, sulla strada che guarda il mare. In alto, nel cielo, brilla la stella Polare. Conosco benissimo questo aeroporto, eppure ho perso l’orientamento. Temo addirittura di aver sbagliato scalo, come se fossi sceso da un autobus o da un treno alla fermata sbagliata. Fermo due poliziotti, domando e capisco che questo è il “nuovo” aeroporto di Palermo; mi spiegano che è stata finalmente completata la ristrutturazione. Quello che avevo frequentato per anni era un cantiere di lavoro. Sarà, ma nel cantiere mi muovevo bene. Tutto mi sembrava a portata di mano.

Davide arriva mezz’ora dopo e anche lui avverte lo stesso senso di straniamento. Camminiamo lungo il ciglio della strada per raggiungere gli uffici dell’autonoleggio, poi montiamo su una Cinquecento e partiamo. Destinazione: Sciacca. Lasciamo la Polare e andiamo verso la Croce del Sud. Le isole sono luoghi meravigliosi: le attraversi e sei già dall’altra parte del mondo.

La nostra meta è la costa degli aranceti. Una terra benedetta dalla natura: un vasto altipiano con leggere pendenze che degradano fino al mare. I terrazzamenti sono intervallati dai corsi d’acqua che li incidono scavando profonde e fertili vallate. Oggi, questi terreni sono popolati di agrumeti, ma un tempo vi si produceva di tutto, dal riso al cotone, dal grano alle mandorle, e poi olive, uva, frutta e ortaggi. Fin dal Cinquecento, gli abitanti di Caltabellotta scendevano dalle alture a piedi, con i muli e i carretti per lavorare i campi sulle sponde del fiume Verdura.

Il nome Ribera ha un’origine spagnola e significa riviera: in effetti questa costa è proprio una riviera di lussureggianti giardini affacciati sul Mediterraneo. La qualità delle acque, il terreno, il clima e le correnti calde dell’Africa l’hanno resa un’oasi di Sicilia.

Il nostro piccolo drone vola alto sul mare, poi s’abbassa e risale il fiume a pelo d’acqua, scavalca l’argine e inquadra Davide che cammina con la sedia in spalla.

Stacco. Camera a terra, sul cavalletto; ottica grandangolare. Davide si siede.

«Ecco, qui mi sento come a casa!» dice, mentre il drone alle sue spalle raggiunge gli aranceti di Paolo, il protagonista della puntata.

Paolo è un agricoltore che coltiva le arance come un artigiano: conosce tutte le sue piante e segue con passione la maturazione di ogni frutto. Paolo non coltiva arance: le produce a una a una.

Il papà aveva iniziato l’attività negli anni Sessanta proprio in questo campo vicino alla foce del fiume, dove c’era abbondanza d’acqua. Dopo gli studi universitari, è tornato alla terra di famiglia e da allora si dedica alla cura dell’agrumeto. Mi confessa che uno dei momenti più belli della giornata è quando in primavera si ferma la sera a passeggiare nel campo, circondato dalle piante cariche di frutti maturi. Sembrano persone amiche con le braccia piene di doni. Mi accompagna tra gli alberi e mi mostra i rami che pendono verso il basso. Le sue arance sono completamente biologiche e crescono senza alcuna contaminazione chimica.

«Vedi dove sono i frutti migliori?» mi domanda.

«A terra?»

Paolo annuisce e mi indica i rami più bassi, dove è maggiore l’afflusso di linfa. Poi prende un’arancia, taglia a metà uno spicchio e me lo fa assaggiare. Mi spiega che la parte più dolce è quella inferiore, perché gli zuccheri si formano in alto, vicino al peduncolo, poi scendono per gravità.

«Interessante vero?»

Immagino che tutto questo, nelle coltivazioni estensive, non esista.

Paolo mi offre un altro spicchio tagliato a metà. Lo assaggio, poi ne taglio un altro e un altro ancora. Sono dolcissimi, del tutto privi di acidità e senza semi. Siamo invasi di arance scadenti che arrivano nei nostri supermercati da ogni parte del mondo, e invece abbiamo un tesoro in casa che nemmeno conosciamo.

Domando a Paolo se ritiene coraggiosa la scelta della coltivazione biologica.

Lui scrolla le spalle e mi spiega che in questo lembo di Sicilia è tutto più facile, perché il clima ideale permette alle piante di crescere in maniera spontanea senza ammalarsi. Però, aggiunge che anche altrove lui non avrebbe dubbi.

«I prodotti della natura» dice «deve essere la natura a produrli!»

Il ragionamento non fa una piega.

«Ma alla fine, – domando, – i conti tornano?»

«Certo che tornano! – risponde. – Guarda, io devo sempre buttare una parte del raccolto, ma la perdita è pari, forse addirittura inferiore, alla spesa che dovrei sostenere in prodotti chimici».

«Senza contare il danno ambientale…»

«Proprio così: per eliminare gli insetti con i veleni abbiamo favorito la crescita esponenziale di altri insetti che prima quasi non esistevano».

«Quali sono i nemici delle tue arance?»

«La cocciniglia e alcuni ragni. Ma le mie piante sono forti e sane. A loro ci pensa la natura».

«Anche tu».

«Io do solo una mano…»

Come dicevo, queste arance delle varietà Navel e Vaniglia sono dolcissime, senza semi e prive di acidità. In cucina sono un vero ingrediente e da qualche anno Paolo si dedica alla sperimentazione dei suoi frutti nella gastronomia. Me ne parla con entusiasmo mentre camminiamo verso il resort che fa da sfondo ai suoi campi:

«Un giorno mi sono chiesto: ma è possibile che un frutto così ricco e prezioso si sposi soltanto con l’anatra? E da quel pensiero è nato il desiderio di creare nuove ricette a base di arance».

Una ricerca che ha coinvolto molti amici. Oggi è venuto ad assistere alle riprese Pasquale, un casaro di Castelvetrano che produce un primo sale veramente eccellente. Da qualche tempo sta sperimentando insieme a Paolo la produzione di alcuni formaggi innovativi: ad esempio una toma con scorze di arancia e un’altra aromatizzata con un’arancia intera al suo interno.

«Ma quali sono i tuoi piatti migliori?» domando.

Paolo suggerisce l’insalata mediterranea con arance, olive, acciughe, finocchietto e olio extravergine. Un primo gustoso è il risotto con i fiori d’arancia, mentre come secondo consiglia un piatto di mare: le arance di Ribera sono ideali con pesci e crostacei.

«Come vedi, – mi dice Paolo, – si possono creare interi menu a base di arance».

«Altro che anatra» dico io.

«Altro che anatra, – ripete Davide. – Questa è l’Italia della qualità!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Ribera, nella costa degli aranceti; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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L’oro rosso di Trapani.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Trapani, il paesaggio la costa occidentale della Trinacria. Le coordinate geografiche sono 38°1’ Nord e 12°32’ Est.

Le origini di Trapani affondano nella mitologia e attraversano il tempo. La storia di questo lembo di terra che sembra una falce caduta dal cielo è anche la storia del suo mare, percorso dalle rotte di greci, romani, bizantini, arabi, normanni, spagnoli.

Ci svegliamo di buon’ora e dopo un caffè e una sfoglia di ricotta ci lasciamo avvolgere dai toni caldi e seppiati del centro storico. Sedia in spalla, Davide percorre i vicoli, entra nelle chiese, ammira rosoni grandi come piazze intarsiate e appese nell’aria. Lo accompagno nella chiesa delle Anime del Purgatorio, dove riposano i Misteri di Trapani. Da più di quattrocento anni, ogni Venerdì santo, le confraternite della città sfilano per oltre un giorno e una notte portando a braccia gruppi scultorei che raffigurano la passione e la morte di Cristo. Ogni statua è realizzata in legno scolpito e sughero, con gli abiti in stoffa modellati con colla e gesso; il tutto addobbato e impreziosito con argenti, ori e coralli. Le opere sono state restaurate nel corso dei secoli e ancora oggi sfilano le sculture originali. Sono tutte lì, che riposano nella chiesa e prendono fiato dopo tanto camminare. Noi le ammiriamo a una a una, nella calma del luogo. Avvolte dalla penombra, inumidite da un raggio di luce obliqua che filtra dalle vetrate, ci regalano una privata processione dei Misteri. Pochi minuti di emozione, che valgono il viaggio.

Quando usciamo dalla chiesa ci dirigiamo verso le Mura di Tramontana. La scogliera ci aspetta, offrendo una roccia ampia dove posare la sedia di Davide e lanciare il volo del drone sulla lingua di terra che si protende nel mare.

Da qui, da questo porto, sono transitate per secoli merci e gentiTrapani era la città dei due ori del mare: il sale e il corallo, l’oro bianco e l’oro rosso. Già nel Medio Evo fiorivano numerose botteghe di lavorazione del corallo che hanno poi dato vita a una scuola d’arte orafa unica in Italia e nel mondo.

Platimiro – il protagonista della puntata – è uno degli ultimi maestri corallai di Trapani. Figlio di un artigiano orafo, è cresciuto nel laboratorio del padre e fin da bambino ha cominciato a lavorare l’oro, l’argento e il corallo, incastonando pietre e incidendo metalli. Il suo nome è già un cesello.

Nella storica bottega, a ridosso del centro storico, ha formato decine di allievi e prosegue una tradizione che è diventata vera arte nel corso del Cinquecento. Da allora, Trapani e il corallo rosso hanno formato un binomio indissolubile: per secoli, le corti d’Europa e le chiese d’Italia hanno richiesto ai maestri trapanesi oggetti sacri come capezzali e acquasantiere, e poi gioielli, vassoi, lampadari e sculture di ogni genere. La loro qualità era insuperabile e il colore scarlatto del corallo così simile a quello del sangue di Gesù.

Secondo la tradizione mitologica, il corallo è la solidificazione del sangue che sgorgava dalla testa della Medusa, recisa da Perseo. Mi spiegano che il nome è di origine incerta: potrebbe derivare dal greco koraillon, cioè scheletro duro, oppure da kura-halos, che significa forma umana, o ancora dall’ebraico goral, con cui si indicavano le pietre degli oracoli in Palestina, Asia Minore e Mediterraneo. In natura, è il prodotto del lavoro di minuscoli polipi che possono vivere anche quattromila anni, riuniti in colonie che nel corso del tempo hanno formato vere e proprie costruzioni organiche, popolate a loro volta da infinite specie di pesci, crostacei e piante.

Nel Mediterraneo è presente il Corallium rubrum, che un tempo veniva pescato con le barche coralline. Gli scafi a vela e a motore trascinavano sul fondo del mare un pesante attrezzo a forma di croce, chiamato “ingegno”, con cui sradicavano i ceppi di corallo e distruggevano l’ecosistema. Oggi, la raccolta è regolamentata e può essere praticata solo da subacquei certificati, in periodi limitati. Alcuni pescatori siciliani mi hanno confidato che secondo loro la pesca del corallo potrebbe ancora oggi costituire una ricchezza per i lavoratori del mare, permettendo alle barche più moderne, dotate di strumenti di visione come telecamere e scandagli, una raccolta selettiva dei coralli morti.

«Qual è il corallo migliore, il più pregiato?» chiedo a Platimiro.

Lui sorride e scrolla le spalle. Mi spiega che il corallo si sceglie in base alle necessità artistiche. Forme, dimensioni, colori, variano a seconda della provenienza e di volta in volta l’artigiano usa ciò che gli occorre. Il corallo giapponese, ad esempio, è grande ed è spesso indispensabile per scolpire le figure di maggiori dimensioni; l’oro rosso del Mediterraneo è invece di una tonalità più accesa in Sardegna, mentre a Messina presenta un colore più rosato; a Sciacca, lungo le rotte del pesce azzurro, può variare dal giallo al rosa tenue. Nelle fosse dell’agrigentino, affacciate sul canale di Sicilia e le coste del Nord Africa, esiste addirittura un corallo nero, formato dai cespi strappati dalle onde e depositati sul fondo, dove particolari batteri lo corrodono e lo rendono scuro.

Il corallo è un materiale nobile che appartiene al mondo animale, assomiglia a un vegetale e genera un minerale. Ma appartiene anche al regno della fantasia, quando viene lavorato dai maestri come Platimiro! Lui è l’unico che ancora oggi realizza oggetti con la tecnica del retroincastro, tipica del Seicento trapanese.

«Ciò che ha dato fama alla mia città, – spiega l’artista, – sono stati il procedimento del tutto tondo, cioè l’incisione dei personaggi a figura intera, e la tecnica del retroincastro, che consiste nell’inserimento di particolari preziosi dal lato posteriore degli oggetti: si praticano delle speciali traforazioni, poi gli incastri vengono fissati con una colla a base di pece greca, si tampona l’insieme con una tela precedentemente messa a fuoco e si assembla tutto in un’unica armatura.

L’opera d’arte di corallo nasce già dalla forma del ramo. L’artista deve saperla vedere e poi, con infiniti passaggi di bulino, togliere il superfluo fino a giungere alla scultura definitiva.

«Un lavoro complesso» dice Davide.

«Il corallo è forte, ma anche molto fragile, – spiega Platimiro. – All’inizio, con un raschietto, bisogna rimuovere il cenosarco, la veste che lo ricopre in natura. Usiamo vecchi bulini ricavati dalle lime con cui si rifinivano le incisioni ad acquaforte. Poi si disegna la forma da realizzare sul cespo, si comincia a sbozzare e man mano che si procede si definisce sempre più il lavoro».

Platimiro ama parlare della sua arte, ma ancor più ama praticarla. Accende la lampada e scompare nella sedia incassata sotto il banco da lavoro. Massimo, il nostro regista, cattura i dettagli dei suoi gesti: la punta delle dita, particolari degli strumenti, nuvole di polvere bianca e rossastra che si solleva in controluce. Sono due artisti al lavoro. Il mondo è chiuso fuori. Qui, nella bottega di Platimiro, c’è spazio solo per loro.

Così, in punta di piedi, ci allontaniamo e li lasciamo tranquilli. Le opere di Platimiro sono veri e propri mondi da esplorare con la lente della meraviglia. È un peccato limitarsi a guardarle; meglio osservarle con attenzione, dedicando loro tempo e concentrazione, abbandono e curiosità.

Per darvi una misura del valore di queste sculture di corallo, pensate che alcune sono custodite nei Musei Vaticani e che nel 2013 Platimiro è stato nominato dall’Unesco Tesoro umano vivente, iscritto nel registro delle Eredità immateriali di Sicilia.

Questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi…Venite in Sicilia, a Trapani; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Il grano di Poggioreale.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Poggioreale, il paesaggio la valle del Belice. Le coordinate geografiche sono 37°45’ Nord e 13°2’ Est.

Davide e io partiamo al mattino presto da Trapani e ci dirigiamo verso est, in direzione del sole. Un breve tratto di autostrada, poi lo svincolo che guarda a sud, infine la campagna dei Greci di Segesta. L’interno della Sicilia: un paesaggio che ogni occhio dovrebbe vedere almeno una volta.

Avevamo pianificato questo servizio sul grano della Trinacriaproprio in primavera, per avere sullo sfondo distese verdi come pascoli punteggiati di fiori e rade nuvole che sbandierano nel cielo increspato dal vento. Questa terra è capace di incantare anche il viaggiatore più distratto. Sembra il centro del niente, ma è un niente pieno di cultura e di bellezza.

Continuiamo a guidare in silenzio, ammirando ciò che la natura ha creato e la saggezza degli esseri umani ha perfezionato, a propria immagine e somiglianza. Terra da indossare, come un abito su misura.

Siamo venuti nella valle del Belice per raccontare la storia di Alberto e della sua famiglia. Gli Agosta coltivano grano duro da generazioni e oggi hanno recuperato specie antiche, come il Tumminia e il Senatore Cappelli; ma sono diventati anche mugnai e pastai, per seguire l’intera filiera di produzione e chiudere un ciclo vitale che dal campo giunge fino alla tavola: prima la spiga, poi la farina, infine la pasta.

La terra plasma le persone. È un lavoro lento, che si realizza nel tempo e con il fluire delle generazioni. Per raccontare la storia di Alberto e il suo rapporto con il grano dobbiamo fare tappa a Poggioreale, il paese distrutto dal terremoto nel ’68 dove il protagonista della puntata è vissuto e dove ancora resiste la casa di famiglia, proprio all’ingresso della città fantasma.

Ci troviamo a 62 km da Palermo, su un’altura che domina la valle del Belice. L’antica Poggioreale è un luogo di una bellezza struggente: insieme di case vuote, abitate dal vento, da luce ferma e aria in ombra. Entriamo in silenzio e parliamo a bassa voce, per non disturbare i fantasmi che ancora vivono in questi edifici, i bambini appena usciti da scuola con i banchi in disordine, le signore in chiesa inginocchiate sui cocci del tetto crollato. Lo stesso struggente raccoglimento dello Spasimo, a Palermo. E poi gli uomini che attraversano la piazza in fondo al paese. Sono tutti lì, intorno a noi, mentre carichiamo la batteria del drone e preghiamo che il vento non lo porti via con sé.

Noto su una casa la scritta DUX a caratteri neri cubitali.

«Cos’era? – chiedo a uno dei nostri accompagnatori, – la Casa del fascio?»

Lui sorride e scrolla le spalle. Mi spiega che è la scritta di una scenografia, realizzata per girare un film e mai cancellata dalla produzione. Scrollo le spalle anch’io. Non avere rimosso quell’insegna mi pare un gesto volgare, irrispettoso del luogo e delle anime che ancora lo abitano. Qualcosa non torna. Ripenso alle scene che abbiamo visto in Friuli, a Gemona e Venzone. Lassù, città rase al suolo dalla natura sono state ricostruite dall’uomo, rimettendo a dimora le pietre; quaggiù, all’estremo opposto del Paese, abitazioni ancora integre sono state abbandonate per diventare meta di turisti di passaggio e scenografie per il cinema. Davvero qualcosa non torna.

Intanto, il vento si calma e mettiamo in funzione le eliche del drone. L’apparecchio si alza in volo e abbraccia con lo sguardo della telecamera l’intera vallata. L’aria accarezza le spighe. Il podere di Alberto è laggiù, da qualche parte, perso nel verde. Seguendo il volo del cucciolo d’elicottero, risaliamo in macchina e lasciamo in silenzio Poggioreale.

Come dicevo, Alberto e la sua famiglia seguono tutta la filiera di produzione e lavorano il feudo Mondello che i nonni avevano acquistato alla fine dell’Ottocento dalla diocesi di Monreale. Generazioni di grano duro.

Dopo gli studi di agraria, Alberto era tornato alla terra con l’idea di rendere più moderne ed efficienti le coltivazioni. Ha meccanizzato le attività, ma soprattutto ha maturato l’idea che la qualità del grano dovesse rimanere intatta lungo tutto il ciclo di produzione. Oggi, insieme alla moglie Nina e ai parenti più stretti ha chiuso il cerchio iniziato tanti anni fa. Dico oggi in senso letterale, perché il suo pastificio ha inaugurato proprio oggi l’attività. Stiamo registrando una puntata strana e bellissima, dove gli opposti si incontrano: i fantasmi della città abbandonata e gli agricoltori che tenacemente lavorano la terra scossa, e poi secoli di storia maturati nei campi di grano che si condensano nei primi istanti di questo piccolo pastificio artigianale.

Iniziamo le riprese nel campo, dove le piantine di grano Tumminia e Senatore Cappelli stanno crescendo a vista d’occhio e nei prossimi mesi diventeranno alte quasi due metri. Davide passeggia con la sedia in spalla e osserva con tenerezza le giovani spighe. Tra poco, il prato verde diventerà un mare giallo e sarà pronto per essere trebbiato.

A quel punto, il grano del feudo Mondello sarà immediatamente macinato nel mulino a pietra che rinnova l’antica tradizione della molitura artigianale. L’ampio diametro della macina e la ridotta velocità di rotazione schiacciano il chicco senza bruciarlo e mantengono la crusca, il germe, le vitamine, i sali minerali. Una vera riserva di vitalità!

Infine, la semola grezza viene impastata secondo le regole dell’antica lavorazione manuale. La trama grossa della farina e la trafila in bronzo donano alla pasta una naturale rugosità, indispensabile per legarsi al condimento. Il passaggio conclusivo è l’essiccatura. Il segreto è la lentezza, unita anche in questo caso alla bassa temperatura.

«Pensate che occorrono fino a due giorni per asciugare la pasta! – esclama Davide davanti alla telecamera. – Una cosa impossibile per l’industria!»

Occorre pazienza, ma ne vale la pena: questa filiera è la base della nostra alimentazione.

Nel frattempo, nel cortile del pastificio, l’acqua bolle in pentola; il sale si scioglie, la pasta si cuoce e viene scolata perfettamente al dente. Il primo piatto dei primi spaghetti del feudo Mondello è pronto e viene servito al tavolo che abbiamo allestito in mezzo al campo arato di fresco, tra balle di fieno e sacchi di grano. Una festa che anticipa il raccolto. Osservo Davide mentre mangia quella pasta appena nata. Siamo nel mezzo del niente, e abbiamo tutto a disposizione.

Grano, farina, pasta: questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Sicilia, nella valle del Belice; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Il Panatè del Tanaro.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Rocchetta Tanaro, il paesaggio l’Alto Monferrato. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Ieri notte era scattata l’ora legale e non avevo regolato la sveglia. Quando al mattino mi sono alzato fresco e ben riposato, ho scoperto di avere un’ora di ritardo. Per fortuna Rocchetta Tanaro è un paese veloce da raggiungere, ad appena quindici chilometri da Asti. Il nostro regista mi telefona per sapere se sto bene. Lo rassicuro, mentre supero il casello e mi immergo nella campagna del Monferrato. Una manciata di curve ampie e brevi rettilinei che attraversano la pianura lungo il Tanaro, prima delle colline del Barbera e del Grignolino. Per raggiungere il forno di Mario – il protagonista della puntata – bisogna girare a destra subito dopo il fiume. Quando arrivo, Davide ha appena indossato il costume di scena ed è pronto per iniziare le riprese. Sono pronto anch’io.

Cominciamo dal paese, un borgo di origini antichissime di cui oggi rimangono alcune testimonianze medievali che affiorano tra le costruzioni più recenti. I primi abitanti giunsero attraverso il Tanaro oltre quattromila anni fa. Una lunga storia, di una comunità profondamente legata alla propria terra.

Sulle sponde del fiume, il bosco di querce è fitto come doveva essere una volta. Ma ci sono anche dei faggi, ricordo di una popolazione arborea diffusa al termine dell’ultima glaciazione. Ci incamminiamo nel bosco e percorriamo i piacevoli sentieri alla ricerca del grande faggio, un esemplare monumentale alto più di 25 metri e vecchio di secoli. Lo troviamo in posizione nascosta, su un costone scosceso in ombra. Davide abbraccia il tronco e scopre quanto sia grande. Percepisce il profumo della corteccia, la ruvidità del fusto, sente la linfa che scorre lungo le vene del legno fino ai rami più alti, che sembrano dissolversi nel cielo. Forse pensa all’albero del suo Padiglione Zero, che sfondava il pavimento e il tetto comunicando la generosa potenza della natura. Per rendere onore a questo monumento vivente, il nostro operatore dà fondo al repertorio di trucchi del mestiere e si sdraia nel fossato per inquadrare il faggio dal basso. Poi sceglie un grandangolare ed esalta con il controluce la chioma dei rami, con un diametro di oltre venti metri.

Al termine della passeggiata, prima di tornare alle macchine, attraversiamo il Pometo della memoria, un luogo dedicato alla biodiversità dove si recuperano a scopo educativo antiche cultivar di mele dell’Astigiano ormai scomparse. Davide passeggia accanto agli alberelli e domanda alla guida i nomi delle varietà. Assomigliano ai versi di una poesia, con una seducente metrica interna: Carlo Bianco, Ciucarina, Calvin, Gamba fina, Piatlin, Pom Marcon, Ruscaio

In mezzo a tutto questo verde, Mario ha dedicato la sua vita all’arte bianca. È diventato un panettiere – panatè come si dice da queste parti – molto particolare.

Ha iniziato a lavorare all’età di otto anni. A dodici è andato a Torino e lì ha imparato il mestiere. Poi, con l’aiuto prezioso della moglie, ha saputo andare oltre il pane; ha inventato le lingue di suocera e ha rinnovato la tradizione dei grissini piemontesi.

Tutto fatto a mano, come una volta, eppure tutto nuovo.

Mi racconta che ad Acqui lavorava un anziano artigiano che preparava con l’impasto dei grissini delle sfoglie piatte, friabili e croccanti. Mario ha colto l’ispirazione e ha trasformato quella ricetta nelle sue lingue di suocera. Oggi realizza insieme al figlio Giovanni vere e proprie sfoglie di pane con tre lievitazioni successive che esporta in tutto il mondo. Sono stirate a mano e raggiungono la lunghezza di circa quaranta centimetri. Poi il panatè le buca perché non crescano troppo nel forno e le spazzola per togliere l’eccesso di farina. Infine le cuoce a bassa temperatura e anche il confezionamento è manuale.

«Per forza» esclama Davide «non ce n’è una uguale all’altra!».

Il ciclo di lavorazione comincia con la selezione delle farine, poi si aggiunge olio extra vergine di oliva Taggiasca non filtrato, piacevolmente abboccato e con un giusto grado di acidità. Ma il segreto del forno di Mario è il lievito madre, che aveva creato lo zio pasticcere e che oggi ha più di un secolo.

La lievitazione naturale si caratterizza per i tempi lunghi di maturazione e l’abbondanza di batteri lattici che permettono un’idrolisi più completa degli amidi della farina. Ne deriva una complessità di gusto superiore, una migliore digeribilità e una maggiore durata del prodotto che resta sempre croccante, come appena sfornato.

Mentre Davide, davanti alla telecamera, trasforma in racconto la chimica della lievitazione, Mario e Giovanni impastano e stirano a mano i grissini, il prodotto da forno più tipico del Piemonte.

L’obiettivo del regista segue con attenzione i gesti degli artigiani. Indaga la regolare irregolarità dei grissini e scopre che la loro lunghezza è determinata dall’apertura di braccia del fornaio. Poi osserva le dita che ruotano velocemente perché le estremità del grissino non siano troppo grosse.

Anche i tradizionali rubatà, che in piemontese significa “caduti”, sono lavorati a mano e presentano una tipica forma nodosa. Sono il grissino più antico: derivazione diretta di quei bastoncini di pane inventati nella seconda metà del Seicento dal fornaio di casa Savoia per nutrire il futuro Vittorio Amedeo II, che era cagionevole di salute e non riusciva a digerire la mollica del pane.

Medicina e gusto hanno trovato nei grissini un punto d’incontro ideale e un secolo dopo la loro invenzione, Napoleone ordinò che un corriere portasse regolarmente a Parigi les petits bâtons de Turin.

Anche Mario porta le sue creazioni in tutto il mondo. Grazie alle sue lingue di suocera e ai suoi grissini, alla Barbera di Braida e alle canzoni di Bruno Lauzi, il nome di Rocchetta Tanaro ha viaggiato ben oltre i confini del fiume e delle colline.

L’azienda di Mario sforna numeri importanti, eppure rimane una realtà artigianale, dove la mano e la mente umana comandano ogni fase del processo di produzione. La manualità è una scelta obbligata. Le macchine non sarebbero mai in grado di stendere prodotti come le lingue di suocera e i grissini senza rompere il fragile alveo dell’impasto. È una questione di sensibilità e di esperienza: la ricerca dell’equilibrio.

«Se si perde l’equilibrio, addio friabilità e fragranza!» esclama Davide.

Poi prende una lingua di suocera, la spezza e la porta alla bocca.

«Anche questa è l’Italia della qualità – esclama, – un paese dove la bontà del cibo non si rompe nemmeno quando si spezza!3

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Rocchetta Tanaro, nell’Alto Monferrato; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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